Celibidache e la fenomenologia in musica

Ragionando su di un paio di filmati di Celibidache
https://www.youtube.com/watch?v=S9hvDv7OwRQ
https://www.youtube.com/watch?v=hXmKdmAZNQQ (video non più disponibile)
si possono fare, tra le molte, anche le seguenti riflessioni:
Celibidache, matematico e filosofo, ci parla nel primo documentario di struttura, di polarizzazione, in premessa. La prospettiva bernsteiniana della musica come espressione del sentimento sembra bandita, ma nelle esecuzioni di  Celibidache è pur presente, pertanto si potrebbe pensare che l'intero apparato di spiegazione possa costituire un meccanismo di difesa, come l'intellettualizzazione e la razionalizzazione, di fronte a un lato della musica, quello sentimentale, che viene ritenuto inaccettabile, forse anche a livello sociale (si era negli anni '50, '60 e '70 del '900, in cui il serialismo, la musica contemporanea, la dodecafonia, la musica concreta, la musica fatta di rumori, erano sentiti come obbligatori). 
La seconda riflessione riguarda l'applicazione della fenomenologia di Husserl alla musica. I contributi di Celibidache erano già presenti, ma forse non divulgati o non facilmente reperibili, all'epoca in cui studiavo fenomenologia alla facoltà di filosofia dell'università statale di Milano (anni '90 del '900), e i saggi che ero chiamato a leggere (p. es. del filosofo Piana) erano consimili nell'impostazione, tuttavia non mi sembra che si citasse Celibidache negli studi di fenomenologia della musica di quegli anni. Vengo subito a una critica alla fenomenologia: esclude o comunque non rende possibile valutare la prospettiva estetologica sul brano, ossia il giudizio estetico sul brano. E' vero cioè, come afferma Celibidache, che il brano ha struttura ben definita, vettori di senso, tensione, ecc.. e quindi una topografia ben definita e oggettiva (è la medesima entità da me definita "estetica regionale" o "geografia musicale", in quanto nei miei scritti sulla musica presenti qui nel blog, cito appunto la prospettiva fenomenologica). Tale asserzione topografica propria dell'assunzione della prospettiva fenomenologica in musica ci mette al riparo dal soggettivismo interpretativo, perché, come dice Celibidache, io ho sempre la mia modalità soggettiva di interpretare, ma non potrò mai stravolgere la struttura del brano. Ciò che però tale prospettiva fenomenologica non ci dice è come valutare esteticamente un brano (il brano, con la sua struttura, è bello oppure no?). E ciò perché la complessità della struttura nulla ci dice sulla bellezza del brano (si prenda certo Mozart: semplicissima struttura, sublime bellezza). Celibidache risolve il problema a modo suo nell'altro documentario, asserendo che è nella verità e non nella bellezza il fine dell'arte. Quindi eluderemo, in base a tale assunto, il problema estetologico. Ma la soluzione non mi convince, perché in tal modo Ramazzotti val bene Beethoven.
Per chiudere, un paio di notazioni e contrapposizioni.
La prima: Celibidache, pur molto potente dal lato cerebrale (almeno quanto loro) si contrappone a Boulez e Sinopoli nel decretare la musica contemporanea non musica. Si pone quindi in una visione non solo antiromantica, come accennato qui sopra, ma anche anticontemporanea. Inoltre, un'altra dimensione assente, oltre a quella, richiamata in apertura, del sentimento e oltre a quella della musica contemporanea (o meglio, di certa musica contemporanea), bollata da Celibidache come non musica, è la dimensione della storia: come valuto un brano? Sempre come un grande presente? Quindi come un Nunc Stans di schopenhaueriana memoria (così si evince soprattutto dal secondo documentario)? Non noto e non ricordo (quindi, non rendo a livello interpretativo-esecutivo) lo stile che a sua volta è un accumulo complesso di storia? Un intreccio di stili e citazioni riconoscibili, in funzione di reminiscenza, non si dovrebbero, secondo Celibidache, notare e far notare nell'esecuzione? Io credo invece di sì e pertanto - in questo - vedo Celibidache in contrasto anche con l'approccio interpretativo di tipo culturale e storicizzante, à la Abbado.
L'ultimo punto riguarda la giustificazione di Celibidache del rifiuto del disco. Secondo Celibidache la musica ha senso solo nella condivisione dello spazio in cui si suona e si ascolta. Ciò perché - per esempio (esempio citato nel primo documentario) - in una sala con maggior riverbero acustico, dovrò suonare più adagio per non far accavallare i suoni, e viceversa, e tale scelta non avrà senso se riportata in disco, dal momento che - dal disco - ascolterò quell'interpretazione musicale in un momento e in un luogo diverso da quello in cui è stata prodotta. Inoltre, a fronte di un maggiore spessore armonico dovrò come interprete, secondo Celibidache, rallentare l'andamento in modo corrispondente (e ciò evidentemente mal s'attaglia alle esigenze del curatore e produttore del disco, in quanto il disco ha durata limitata, di non più di 80 minuti circa). Mi sembrano però entrambe tesi fragili, in quanto, se è vero, come asseriva Alfredo Casella (si veda l'omonima voce in DEUMM) che il tempo è fattore plasmabile, purché si rispetti la struttura del brano, allora dovrebbe essere possibile apprezzare un'interpretazione più lenta anche da casa - attraverso l'ascolto del disco - pur se tale lentezza fosse stata dettata all'interprete dalle esigenze acustiche particolari della sala dove si è prodotta l'esecuzione. Per quanto riguarda invece la necessità sollevata da Celibidache di rallentare l'esecuzione dei brani o dei passi musicali in funzione della ricchezza in senso armonico degli stessi, mi sembra che l'approccio possa valere per certi autori ed in certi brani, che si prestano a tale dilatazione meditativa (su tutti, Bruckner, nel quale non a caso Celibidache è maestro indiscusso) e meno in altri (si pensi al finale della nona sinfonia di Beethoven, in cui ciò che va reso è appunto il contrasto tra momenti lirici e meditativi e passaggi veloci, sia del tutti orchestrale, sia del coro). Un'altra argomentazione di Celibidache a sfavore del disco è la riduzione della prospettiva sonora alla bidimensionalità stereofonica, che è nulla in confronto alle migliaia di prospettive sonore udibili dal vivo. In questo vedo un suggestivo presentimento da parte di Celibidache: come si spiegherebbe altrimenti il ritorno al vinile, dopo l'appiattimento dato dal compact disc? Infatti, la quantità di dettagli sonori che il vinile porta con sé è superiore a quella del CD che a sua volta è superiore a quella dell'MP3. In un certo senso, quindi, su questo specifico punto, anche se non sull'abolizione dell'istituzione del disco in quanto tale, Celibidache aveva previsto qualcosa di molto, molto importante: la fame di qualità del suono non morirà. Anche su quest'ultimo punto, però, non si può non rilevare un grande contrasto tra Celibidache e un altro grande musicista e filosofo della musica: Glenn Gould, il pianista canadese che del disco era fautore e che preconizzava la fine dell'istituzione del concerto dal vivo.






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