Recensione della immaginaria Grande storia universale del quartetto d'archi

Questa importante, imponente, poderosa e ponderosa opera (più di duemila pagine suddivise in sei tomi di formato enciclopedico, edita da Qp Editore) rappresenta forse la vetta più alta delle ricerche musicologiche del grande Algesio Erbi. Impossibile elencarne qui i meriti con completezza di dettaglio, le particolari, incisive operazioni di ricerca e riscoperta ivi trasfuse. Ci limitiamo a segnalare soltanto alcuni dei numerosi pregi dell'opera. Partendo dalle origini del quartetto d'archi come divertimento, scandagliate fin nei minimi dettagli, l'Autore ne ritrova giustamente (e come potrebbe essere altrimenti?) le radici in Haydn, con particolare accento sulla troppe volte trascurata Op. 9, così pervasa di tensioni in puro Empfindsamer Stil, non tralasciando né la coeva produzione del Boccherini, troppe volte rimasta nell'ombra o oggetto di elogi soltanto generici e privi di analisi dettagliate, né la ancor più misconosciuta produzione quartettistica di Vincenzo Manfredini. In materia di scuole nazionali, piace ricordare l'ampio spazio riservato dall'Autore a Sostakovic, sovente sminuito per le presunte influenze politiche sulla sua opera: l'Autore non è immemore della tradizione altresì di Prokofiev e soprattutto di Janacek, l'unico dei tre - a suo dire - che nei quartetti non abbia riprodotto mai, nella loro integrale banalità, danze popolari prese di peso dalla musica folcloristica ed anche l'unico che, pur esprimendo una poetica espressionistica della più bell'acqua, abbia suggerito un'alternativa all'atonalità e alla dodecafonia schoenbergiane. Nota, di Dvorak, l'insolita lunghezza del quartetto n. 3. Rimprovera al romantico Schubert gli eccessivi sbalzi dinamici tra piano e forte e a Bartok la ritmica selvaggia. Relega il Martinu quartettista tra le manifestazioni di eclettismo regionale, al pari del neozelandese-australiano Alfred Hill, con in più, per quest'ultimo, l'onore del giudizio positivo in termini di esotismo. Si compiace del fatto che anche un grande genio melodico come Tchaikovsky non possa sottrarsi alla complessità del genere del quartetto e al suo carattere di ricerca sperimentale. Importante (ma, a quanto sembra, oggetto di discussioni con l'editore) il suo tentativo di rivalutare come compositori di quartetti alcuni grandi operisti italiani, quali Cherubini e Donizetti. Tuttavia, possiamo giudicare fallito il tentativo dell'Autore di valutare come superiore la produzione strumentale di tali autori, rispetto alla loro produzione operistica (la Commissione Arbitrale Belcantistica ha censurato il capitolo che l'Autore aveva dedicato a tale bizzarra tesi).

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