Saggi in forma medio-lunga

GOULD E DINTORNI
(Saggio sul pianista canadese Glenn Gould)

Nel 1982 un ictus strappava al mondo uno di quei musicisti e intellettuali di cui si può dire in tutta tranquillità, senza incorrere in alcun rischio di retorica, che non sarà mai abbastanza compianto.
Sia chiaro subito che nel presente, breve tentativo di delineare alcune caratteristiche umane, musicali e intellettuali del grande pianista torontese, rifuggiremo dalla discussione, del tutto superficiale, della sua “stravaganza” esteriore, cui pure molti appassionati (appassionati del personaggio creato dalle case discografiche e dai media, più che della musica) si abbeverano. Nulla ci importa, per principio, della sua sedia bassa e rotta, come anche del suo abbigliamento invernale portato in sale iper-riscaldate, e simili amenità, poiché, caso mai, per chi fosse alla ricerca di stranezze, ben più scalpore avrebbe dovuto destare, a rigor di logica, un altro fatto, molto importante: il buio sulla sua vita privata affettiva (segreta oppure del tutto inesistente?).
Nel delineare un breve ritratto di Gould rifuggiremo altresì da quella sorta di “beatificazione” di cui lo fa oggetto il suo maggiore critico (oltre che grande amico) Bruno Monsaingeon, il quale, negando tutta la paccottiglia di questioni superficiali sollevate attorno al fenomeno Gould, ne esagera però l’aspetto di spiritualità visionaria, facendone una sorta di messia di una nuova religione dell’umanità e della musica.1 Appare come un tradimento dello stesso “gouldismo”, inteso come stile di pensiero che rifiuta tutte le iperboliche e sentimentalistiche teorie del “genio” e dell’”ispirazione”, dare di Gould un ritratto - come fa a volte Monsaingeon - in termini apertamente misticheggianti.
Può sembrare curioso, nel tentativo di delineare alcuni tratti salienti di una personalità intellettuale complessa e ricca di spunti filosofici qual è quella di Glenn Gould, partire -come faremo noi- da un confronto, anche se il termine di paragone è un altro musicista tutt’altro che sconosciuto quale Leonard Bernstein. Il motivo della scelta, da parte nostra, di un simile approccio al “pianeta Gould” (il confronto tra alcune caratteristiche interpretative di Gould e di Bernstein) risiede nel fatto che in tal modo ci è più facile entrare subito nel vivo della personalità di Gould, in quanto quella personalità, con i suoi ideali di purezza e i suoi tic intellettuali, costituisce già da sola il contrassegno di una cifra stilistica ben precisa, e ci indica la presenza di una figura di intellettuale “a tutto tondo” molto rara, non solo in campo musicale.
Se non fosse per la collaborazione con Stokowski (limitata -è vero- all’incisione dell’Imperatore di Beethoven, a un documentario radiofonico sul direttore e a cenni di reciproca stima, ma riconosciuta senz’altro come straordinaria dallo stesso Gould) si sarebbe portati a dire che il motivo della scarsa considerazione di Gould per Bernstein potrebbe risiedere nella concezione edonistica della musica e dell’interpretazione, propria del compositore di WestSide Story. Numerosi sono infatti i passi degli scritti di Gould in cui egli indica nel rifiuto dell’edonismo (del suono e -più in generale- della forma e dell’interpretazione musicale) uno dei capisaldi della sua concezione complessiva dell’interpretazione,2 tale da fargli rifiutare Chopin, e da fargli apprezzare Mozart solo in quanto non edonista, cioè snaturandolo non poco. Eppure l’incisione del quinto concerto di Beethoven con Gould al piano e Stokowski sul podio è lì ad avvertirci che l’idiosincrasia di Gould verso l’edonismo (e il maestro Stokowski era un campione dell’edonismo sonoro, un cultore del bel suono orchestrale inteso come vettore di contenuti interpretativi già di per sé pregnanti) non era così centrale, almeno non tanto da inibirgli un’intesa musicale (e umana) col vecchio maestro, intesa che nessun critico ha esitato a definire eccellente, per gli ottimi esiti interpretativi dell’incisione stessa di quel concerto. Il movimento iniziale viene suonato da Gould più lentamente rispetto ad altri interpreti, e tale lentezza, perseguita e mantenuta fino all’ultima battuta con tenace meticolosità dal pianista canadese, conferisce già solamente all’incipit dell’Imperatore una solennità agghiacciante.
Non per motivi anti-edonistici, dunque, Gould teneva in poca considerazione (come risulta da molte sue dichiarazioni, sia pure fatte di sfuggita)3 Bernstein, direttore che del piacere in musica faceva in ogni caso uno dei motivi conduttori della sua arte interpretativa, ma per un altra ragione. Per Bernstein la musica si configurava non solo come gioia, sentimento che gli ispira comunque anche il titolo di un libro (The Joy of Music), ma anche come esaltazione, potenza ed estroversione che si esprimono in un istante che non può non essere fuggevole, e che ha nel presente la sua dimensione privilegiata. Concezione romantica della musica come espressione di sentimenti, quella di Bernstein; concezione che però si serve dell’attimo ed in esso si risolve interamente, prova ne sia anche il fatto che la maggior parte delle registrazioni fatte da Bernstein sono live.
Questa esaltazione, questa musica intesa come espressività viscerale, a Gould ripugnavano profondamente. Alla domanda fatidica: “Ritiene che la musica registrata produca sull’ascoltatore un effetto estetico e fisico analogo a quello della musica dal vivo?”4 Gould risponde con orgogliosa chiarezza: “No, e soprattutto non credo debba farlo. A mio avviso...la musica registrata dovrebbe...avere un effetto analogo a quello di un tranquillante...”.5 La musica per Gould dovrebbe dunque indurre a uno stato di contemplazione, tale da far emergere il sublime dalla tranquilla serenità che presuppone una mancanza di fratture su molteplici livelli: meno fratture tra artista e ascoltatore, nessuna frattura tra l’esperienza del sentire musica e la normalità quotidiana, meno fratture tra momenti alti e momenti bassi, tra io e mondo (topos romantico), ecc... Non una musica come esperienza “la...più simile all’amore”,6 come afferma invece Bernstein, artefice di una vera e propria rivoluzione nello stile direttoriale, con cui si abbandona la compassata e mendelssohniana asetticità, in favore di una figura dionisiaca e wagneriana del direttore stesso, con un di più di fisicità, sensualità e -verrebbe da dire- “sessualità” del gesto e della mimica facciale, come del movimento del corpo, che non trovano eguali nella storia della direzione d’orchestra. Per Bernstein il direttore d’orchestra dovrebbe con ogni mezzo cercare di “provocare...scariche di adrenalina”7 negli orchestrali e nel pubblico.
Nulla di tutto questo nel pianismo di Gould, ma una concezione della musica come continua e costante contemplazione di mondi di sublime bellezza, in grado di elevare moralmente lo spirito, ma integrandosi perfettamente con tutti gli altri aspetti del quotidiano, senza proporre o imporre all’ascoltatore, dunque, mistici e iperbolici trasalimenti, pena la ricaduta in un effimero hic et nunc che romperebbe i ponti col passato e col futuro per concentrarsi sul presente dell’esaltazione, troncando quella tranquillità e quella a-drammaticità a Gould tanto care.
L’essere romantico di Gould si estrinseca dunque con il potere immaginifico, con un’espressività che tocca il profondo attraverso sottigliezze da fanciullo ipersensibile, non (come vorrebbe invece l’evidenza della Storia della Musica) attraverso la magistrale resa del contrasto drammatico tra l’anima solare e quella notturna del mondo e della musica stessa, concezione tardoottocentesca che per una serie di consuetudini esecutive e di tentazioni virtuosistiche finisce per contaminare le esecuzioni della musica di quasi tutti i periodi storici. Gould era dunque antiromantico solamente nel senso storico-musicale del termine, ma si voleva romantico per la sua concezione di potente elevazione e nello stesso tempo di normalità della musica: “musica come tranquillante” significa la tendenza a integrare la musica con tutti gli altri aspetti del reale, non a sradicarla da tutto mettendola su un piedistallo, col rischio (corso da Bernstein) di farne la cassa di risonanza di un ego eccellente, ma solitario e contrapposto al mondo (gli “altri” costituiti simbolicamente dal pubblico, “costretto” ad assistere al trionfo dell’artista, alla legittimazione della sua superiorità rispetto al pubblico stesso), in definitiva perdente rispetto al “corso” del mondo stesso (altro topos romantico-decadente). Questo era bensì il rischio corso dalla visceralità di un Bernstein, le cui registrazioni, a mente fredda, danno l’impressione ambivalente di una coesistenza del meglio e del peggio a livello interpretativo, in cui a volte cioè la volontà di essere ardenti si risolve in minore precisione tecnico-stilistica, la quale a sua volta si rivolge contro l’efficacia drammatica, oscurandone alcuni tratti (specialmente negli inizi delle sinfonie, laddove negli sviluppi, e in genere nelle parti centrali dei brani orchestrali, Bernstein levigava accuratamente il suono delle orchestre con un sublime lavoro di cesello).
Il rifiuto gouldiano della visceralità e del far musica per così dire “a cuore aperto”, o meglio “a nervi scoperti e con le budella di fuori” contrassegna il suo rifiuto dell’istituzione del concerto, al quale il pianista canadese fa cenni sempre più frequenti fino al ritiro definitivo, nel 1964. E’ dopo il ritiro che Gould, preso da una sorta di “zelo missionario”, bombarda i suoi ascoltatori con una serie di documentari e di articoli in cui spiega le ragioni della prossima morte del concerto in favore dell’era dell’incisione. Comunque, se osserviamo con una certa attenzione il carteggio generale di Gould, notiamo che la sua idiosincrasia verso i concerti, le tournées e gli spostamenti non compare sin dall’inizio della sua carriera, ma parte da un momento preciso. Nel 1959, alla Steinway & Sons, Gould è vittima di un “incidente”: per colpa di una pacca sulla schiena datagli con intenzioni amichevoli da un inserviente, il pianista canadese rimane “fuori uso” per parecchi mesi, e da quel momento incomincia a prendere coscienza del fatto che le sue straordinarie doti psicofisiche come pianista costituiscono un tesoro tanto prezioso quanto fragile.8 Gould si adopererà da quel momento in poi per difendere sé stesso da un mondo che sente (almeno in parte) come ostile o per lo meno brutale e troppo violento rispetto alla sua sensibilità. Il fatto che a trent’anni egli abbia rinunciato al palcoscenico per dedicarsi esclusivamente alle incisioni e ai documentari radiofonici va visto quindi come la conseguenza necessaria di un rifiuto che ha nella protezione della propria persona (anche fisica) la sua radice ultima.
Ma, come è noto, Gould era, oltre che un grande pianista, anche un intellettuale, sicché alle sopracitate ragioni psicofisiche del suo ritiro affiancò di sua iniziativa una serie di motivazioni di carattere filosofico (estetico e morale) che per la loro estrema complessità e interconnessione reciproca risultano difficili da chiarire completamente. Gould indica nella competizione (non nel denaro) il peggior male della società occidentale, iniziatosi con il rinascimento e proseguito su tutti i livelli, compreso quello della cultura e in particolare della musica.9 Lo spirito di competizione costituirebbe il seme della violenza dell’uomo sull’uomo e , prima ancora, dell’uomo sulla natura. Nelle dichiarazioni di Gould posizioni vegetariane, animaliste e pacifiste (sicuramente suggeritegli anche dai movimenti giovanili degli anni ‘70, dai quali pure egli dissente sotto non pochi aspetti) si mescolano spesso (e a tratti si fondono in modo efficace) con riflessioni estetiche in senso lato. Il concerto costituisce secondo Gould uno spettacolo “crudele, feroce e idiota”,10 in cui l’attenzione -per forza di cose- non è incentrata sulla musica, ma sui salti mortali dell’esecutore virtuoso, il quale, autoincastrandosi compiacente in una spirale perversa, fa di tutto per spingere i suoi prodigi tecnici all’estremo limite dell’eseguibile, a un passo dal baratro dell’errore, disfatta che il pubblico teme e desidera al tempo stesso. E’ come una corrida in cui la musica fa da toro, affascinante solo in quanto pericoloso per il virtuoso-matador, il quale si diverte uccidendola.
Che l’incisione permetta una notevole accuratezza esecutiva, e richieda una massiccia profondità interpretativa è un dato di fatto: mentre in concerto sona volant, su disco sona manent, e anche l’ascoltatore più distratto può, dopo un certo numero di ripetizioni nell’ascolto di un brano, accorgersi di un passaggio poco convinto, di una struttura traballante, di una esecuzione poco ispirata. Il motivo dello scandalo suscitato da Gould nel difendere con pervicacia queste tesi risiede nella concezione, avente parecchio seguito, del concerto come serie magica di istanti irripetibili, luogo in cui la vera anima della musica verrebbe evocata senza i “trucchi e gli imbrogli” della “fredda” sala di registrazione. Gould afferma in proposito: “Tutta questa gente vive nell’illusione del carattere sacro del ricordo di momenti isolati, di istanti della storia che si sarebbero potuti per così dire fermare. E’ affascinante, ma è illusorio. La vita non è così semplice, e neanche la musica, grazie a Dio.”11 La ripetibilità dell’incisione (nel duplice senso: per l’artista che, attraverso il montaggio, può ripetere un take che non lo convince appieno, assemblandolo poi con il resto; per l’ascoltatore, che se crede di scorgere uno di quei momenti magici in un incisione di un brano, può ritornare su quel punto del disco anche mille volte) rende l’ascolto della musica un’esperienza veramente importante e profonda, contemplativa, e nel contempo per nulla sradicata dalla normalità e dalla quotidianità. Non più musica come evento straordinario e catartico, ma musica come amica e sostegno, quando si vuole e come si vuole, fonte di riflessione, di pace e di serenità.
L’artista da concerto assomiglia secondo Gould a un fenomeno da baraccone, e non assolve quella che a suo avviso è una delle sue funzioni primarie: l’espressione di una purezza e di un’elevazione spirituale che vadano in sostegno, anziché a detrimento della morale dominante. Sotto quest’aspetto giocano un ruolo determinante, in Gould, le sue radici puritane dategli dall’ambiente culturale della provincia dell’Ontario degli anni ‘40, in cui egli cresce e viene educato.12 Per inciso, Gould non smetterà mai di amare il paesaggio ghiacciato e la pura immensità dell’orizzonte canadese, spettacolo in cui l’amore per la natura (il paesaggio non è a misura d’uomo, semmai -al contrario- l’uomo può sentirsi parte di quel paesaggio) sembrerebbe venire spontaneo, e ispirare un desiderio di universale e un profondo rispetto per la vita di tutte le forme viventi. Il ruolo dell’artista, ben espresso secondo Gould dall’incisione e male espresso dal concerto pubblico, dovrebbe essere quello di portatore di messaggi di cristallina purezza, spunti di morale fusa con l’estetica, di bello con buono. Il concerto solletica invece il voyeurismo-sadismo del pubblico e l’esibizionismo-masochismo del musicista, complici entrambi di un rito immorale.
Col passare del tempo, Gould sente il bisogno di curare sempre più da vicino le sue incisioni, e di farle nascere in un ambiente costituito da pochissime persone (i tecnici e il produttore, che si ridurranno infine al produttore e basta), tanto da aprire un suo studio di incisione personale, dove l’elemento del tempo è lasciato libero di agire sulla sua concezione di un brano,13 a distanza siderale dalle strettoie e pastoie burocratiche di tutti gli artisti da concerto, per i quali il disco è un faticoso complemento delle tournées, al quale non è possibile dedicare tutta la cura necessaria. Riflettendo con mente aperta, non si può non riconoscere che vi è un preciso impegno morale nella cura estrema messa in atto da Gould nel confezionare un prodotto artistico quanto più bello possibile, fruibile a vari livelli di profondità a piacimento dell’ascoltatore, e per di più eterno, immortale come la stessa grande musica.
L’apertura al mondo dell’incisione, con le sue tecniche e le sue procedure che ne fanno la creazione di un’opera d’arte invece che una semplice “riproduzione”, fa tutt’uno con le idee tutt’altro che tradizionaliste e ortodosse che Gould ha nel campo di quella che si potrebbe chiamare “concezione generale dell’interpretazione”. Secondo Gould, come è noto, l’interpretazione di un brano dovrebbe darcene una versione nuova rispetto alle interpretazioni precedenti, perché se così non fosse non ci sarebbe ragione di proporla. Quest’idea della necessità di un rinnovamento rispetto alle interpretazioni precedenti si unisce in Gould (coerentemente) con il suo rifiuto della concezione secondo la quale esisterebbe per ogni brano un’interpretazione idealmente ottimale, e cioè la più vicina alle intenzioni del compositore.
Gould rifiuta un simile approccio al brano e al compositore, approccio che potremmo definire storicistico, in quanto presuppone un desiderio di identificazione, o per lo meno di rispetto, nei confronti del compositore e della sua epoca. Secondo tale approccio storicistico (accettato più o meno consapevolmente dalla maggior parte degli interpreti quale presupposto per una esecuzione quanto più possibile buona, quanto più possibile vicina alla sopracitata identificazione con le intenzioni del compositore) ogni epoca ha i suoi stili esecutivi che vanno rispettati e che costituiscono una base per ogni esecuzione. Per Gould invece, è meglio affidarsi a una intelligente iconoclastia: intelligente perché non perseguita a tutti i costi, bensì guidata dall’esigenza di non riproporre un’interpretazione ortodossa (che si affidi cioè alla mezza misura della tradizione esecutiva di un brano) se non dopo aver tentato di aprire nuove prospettive sul modo di rendere il brano eseguito, che ne ripropongano l’essenziale universalità data dalla logica interna della sua struttura, ma che ne tolgano la polvere e il vecchiume della tradizione esecutiva, i quali rischiano proprio di oscurare quella struttura e quell’universalità.
Quello che Gould non accetta della concezione storicistica dell’interpretazione è l’idea dell’unicità della prospettiva, l’idea che esista un’unica interpretazione ottimale, e che inoltre quell’interpretazione ottimale debba essere per forza legata a dogmi stilistici, supposte maniere di eseguire proprie di una tale o di una talaltra epoca storica, dogmi oltretutto difficili da dimostrare e frutto di conclusioni del tutto opinabili tratte dagli esperti, i filologi, che pretenderebbero di dettar legge in materia di interpretazione.14 Ma, oltre al fatto che nessuno potrà mai sapere come Mozart o Beethoven eseguivano le loro composizioni, Gould si propone di tagliare il problema alla radice: egli non vede perché mai bisognerebbe porsi come obbiettivo la somiglianza dell’esecuzione odierna con quella del tempo storico in cui quel brano è nato.15 Se si rifiuta tale dogma storicistico si può ottenere (e, nel caso di Gould, questo è quasi sempre successo) una maggiore attenzione alla musica stessa, studiata e concepita “in presa diretta”, senza i grovigli intellettualoidi dati dal porsi la domanda “se al compositore sarebbe piaciuto”.
C’è un “ma”, in questa visione gouldiana dell’interpretazione, ed è dato dal fatto che, anche se si rifiuta -come fa Gould- il modello interpretativo storicistico, qualche modello generale, volenti o nolenti, di fatto lo si segue, e anche Gould ha un suo modello. Ciò che a Gould piace trovare in ogni brano è costituito essenzialmente da due elementi: la varietà armonica, la presenza (e possibilmente la complessità) del contrappunto. Queste sono le caratteristiche, come è evidente, della musica di J.S. Bach, ed è proprio questo il motivo, per ammissione dello stesso Gould, del suo amore per la musica di Bach e dell’eccellenza -unanimemente riconosciutagli- delle sue interpretazioni di Bach. Il problema (se ci si vuole porre un problema) nasce dal fatto che Gould ricerca i summenzionati elementi formali non solo in Bach, ma anche in Beethoven, in Mozart e in tutti gli altri compositori, con risultato discontinuo.
Si prenda ad esempio Beethoven. In Beethoven l’interpretazione di Gould funziona solo a tratti: è meravigliosa nei passaggi del Beethoven “contemplativo”, in cui la varietà armonica (uno dei due elementi formali da Gould amati e resi meravigliosamente) è l’elemento portante del brano, ma troppo contemplativa nel Beethoven esaltato e battagliero (p. es., nell’incipit della Hammerklavier), in cui cioè è necessaria la resa ad alti livelli di quel contrasto drammatico di temi e di forme che Gould non amava, ma che è parte integrante (ed elemento formale determinante) della musica di Beethoven, soprattutto del Beethoven della cosiddetta fase di mezzo della sua produzione, quella che ha come epicentro la Quinta sinfonia. Per altro proprio la Quinta, nella trascrizione per pianoforte di Liszt, viene interpretata con meraviglioso e “battagliero” vigore da Gould, a significare che in musica ogni teorema sull’interpretazione nasce solo per dar corpo alle sue eccezioni.
Sempre riguardo ai parametri generali seguiti da Gould nell’interpretazione di un brano, bisogna rilevare, oltre all’elemento iconoclastico e antistoricistico, l’elemento della coerenza, con tutti i pregi e i difetti ad esso connessi. Il modo di suonare di Gould è improntato a una notevole coerenza, sia a livello stilistico, sia a livello di concezione generale dell’interpretazione.
A livello stilistico Gould si avvale di un tocco staccato, teso a rendere la chiarezza architettonica del brano. Lo staccato di Gould, invece di provocare un effetto slegato, riesce a riempire di tensione gli “spazi” tra una nota staccata e l’altra, in modo da creare una sorta di arcata sonora in perenne tensione, che cattura subito l’ascoltatore e lo induce a seguirla. Mentre il legato, ottenuto sovente dai pianisti con l’uso del pedale, crea il più delle volte un alone di impurità timbrica, dato dal fondersi dei suoni tra di loro, lo staccato di Gould crea un potente effetto di continuità. Lo staccato di Gould corrisponde anche al suo bisogno di dotare la musica di una chiarezza illuministica, tale cioè che l’ascoltatore sia messo in grado di udire distintamente tutte le note, dalla prima all’ultima, e quindi il rispetto dell’esecutore verso l’ascoltatore sia massimo. Altro elemento espressivo che riguarda specificamente lo stile pianistico di Gould è la limitazione della escursione dinamica. Il dislivello tra piano e forte viene ridotto da Gould, senza però ridurre la sterminata gamma di sfumature esistenti tra un estremo e l’altro, sicché il risultato è un’espressività molto raffinata, priva di effetti plateali, ma capace di risuonare più a lungo nella mente dopo l’ascolto, nel ricordo.
Dal punto di vista di una teoria generale dell’interpretazione, come è noto Gould rifugge qualsiasi enfatizzazione delle contrapposizioni formali interne al brano (per esempio tra i temi “maschili” e quelli “femminili” della forma sonata), perché, come abbiamo visto, gli elementi che gli interessa trovare corrispondono al suo ideale contemplativo di musica: essi sono la varietà armonica e la complessità contrappuntistica. Questa concezione crea delle interessanti analogie tra le musiche eseguite da Gould, anche quelle composte a secoli di distanza.
Se prendiamo ad esempio le esecuzioni gouldiane delle sonate di Bach per viola da gamba (con Leonard Rose quale partner di Gould) notiamo una sinuosità struggente di tipo romantico, in senso lato. L’espressività delle frasi bachiane viene resa in modo straordinario dai due esecutori, che liberano l’immaginazione mostrando come l’anima della musica di Bach si libri a mille miglia d’altezza rispetto alle pedanterie di quelle interpretazioni cosiddette “filologiche”, che si avvalgono degli strumenti d’epoca. Gould mostra invece con tutta evidenza come la musica di Bach sia indifferente al timbro, per via del suo carattere di astrattezza ed universalità che la sgancia dal tempo in cui fu composta. Il risultato è costituito da un freschezza interpretativa che facendo di Bach un compositore fuori dal tempo storico in cui ha operato, lo rende a maggiore ragione fruibile per i contemporanei.
Prendendo ora come esempio di compositore romantico Brahms, possiamo notare che il modo di suonare di Gould tende a diminuire il divario tra il mondo romantico espresso dalla musica di Brahms, e il mondo di Bach, che pure data secoli addietro. La assenza di contrasti drammatici, così confacente alla musica di Bach, viene ricercata da Gould anche in Brahms, proponendo perciò una versione della sua musica attenta all’espressione degli elementi melodico-armonici che sprigionano la fantasia del compositore, piuttosto che agli elementi di battagliero contrasto. L’anima contemplativa del romanticismo musicale viene eretta da Gould ad anima della musica tout court, a scapito dell’anima guerresca, che ha le sue origini nello Sturm und Drang e nell’idea di Streben. In questo modo Brahms, nell’interpretazione di Gould, viene scremato di tutto il beethovenismo drammatico che lo caratterizza, e viene parificato, con una operazione interpretativa deliberatamente anti-filologica e anti-storicistica, a un compositore barocco.
Se infatti, a livello storico-oggettivo, vediamo nella differenza tra un sentimento contemplato e un sentimento direttamente espresso (e vissuto nei suoi contrasti) la differenza principale tra l’ego filosofico della musica barocca e l’ego della musica romantica, Gould rifiuta questa differenziazione e ci propone una musica romantica altrettanto contemplativa e a-conflittuale della musica barocca. Nel caso specifico, l’interpretazione gouldiana di Brahms (si pensi, ad esempio, al Concerto in re minore con Bernstein sul podio) è anti-drammatica e tesa a scatenare la potenza immaginifica insita negli elementi melodico-armonici del brano, lungi dall’accentuare differenze tra temi e tra mondi, tra notte e giorno, e via di seguito. Un Brahms meno romantico della media, dunque, se si intende il principio del conflitto come l’anima del romanticismo, ma un Brahms tanto più romantico quanto più intendiamo l’anima del romanticismo come fantasia e contemplazione. Ma allora, seguendo questo secondo criterio, anche il Bach di Gould è romantico, e risulta più romantico di Brahms: anzi, il più romantico dei compositori.
Questa operazione gouldiana di parificazione della musica romantica (e di tutta la musica) con la musica barocca porta ad esiti discontinui allorché il pianista canadese affronta il repertorio tedesco classico, in ispecie quando affronta Mozart e Beethoven. A proposito di quest’ultimo abbiamo già notato come il rifiuto del contrasto formale di tipo sonatistico induca Gould a un’esecuzione perennemente contemplativa, il che funziona solo a tratti. Diverso, e a nostro avviso ben più interessante, l’esito dell’approccio interpretativo gouldiano a Brahms, e specialmente, come già accennavamo, a quel capolavoro giovanile di Brahms che è il Concerto in re minore.
Questa diversità di esiti interpretativi (discontinui sia in Beethoven sia in Brahms, ma con un che di struggente in quest’ultimo, che Gould riesce a cogliere più di rado in Beethoven) è dovuta principalmente al fatto che, a livello formale, in Beethoven la composizione vive grazie alla forma sonata, in Brahms nonostante la forma sonata. Sembra un’affermazione schematica eppure essa contiene un fondo di verità. In Brahms la vita formicola al di fuori delle maglie strutturali, balugina in lampi isolati, seppur resi omogenei al tutto dalla maestria tecnica del compositore; ma le ragioni che li reggono e che danno loro vita trascendono gli schemi, sono ragioni di una passionalità giovanile e tracimante. In Beethoven, al contrariola vita della composizione nasce dall'identificazione con quegli schemi, per questo, come dice Bernstein,16 il fulcro delle sue composizioni è lo sviluppo. In barba alle istanze strutturali che pure lui stesso cercava con ogni impegno di soddisfare, sono i temi femminili (ecco cosa si intende qui per "lampi isolati") di Brahms quelli nei quali il sublime fa irruzione, come si può notare, ad esempio, nelle battute precedenti la coda del quarto movimento del quintetto con pianoforte, quando gli archi intonano un tema di una bellezza struggente come a prendere la rincorsa per le ultime battute, dal ritmo selvaggio. Qui si vede che la bellezza della musica di Brahms non risiede, come per Beethoven, nella costruzione di un impianto sonatistico convincente. L'impianto sonatistico convincente c'è eccome anche in Brahms, ma il bello della sua musica, al contrario che per Beethoven, non è in questo fatto, ma altrove, nei momenti in cui la forma sonata non conta, in cui oltre e al di fuori della struttura emergono dei temi di un lirismo che non si può definire in altro modo che "sublime": sublime inteso quindi, in Brahms, come qualcosa che viaggia, dal punto di vista formale, al di fuori e al di sopra della struttura ed è discontinuo, si pone al di fuori della continuità e assurge all' extratemporale, che è come dire all'eterno.
Ciò è vero anche per il concerto per piano n° 1, in cui Gould (con Bernstein a dirigere l'orchestra) riesce a dare a tutta la parte del pianoforte un'impronta esecutiva "da tema femminile" (anche nei momenti in cui il pianoforte intona i temi maschili), mentre Bernstein, in modo perfettamente simmetrico, fa di tutte le parti dell'orchestra una sorta di gigantesco tema maschile. Viene così evitata quella che Gould stesso chiamava la "doppia dicotomia",17 cioè il raddoppiarsi (dovuto alla doppia esposizione, prima da parte dell'orchestra e poi da parte del pianoforte) della struttura drammatica della forma sonata, basata sul contrasto tra un tema femminile e uno maschile, conflittualità da Gould tanto aborrita. Ma se l'interpretazione gouldiana di questo concerto regge (e regge senz'altro) ciò è dovuto non certo a quello che Gould affermava, cioè aver fatto di questo concerto qualcosa che sta in piedi dal punto di vista architettonico, intendendo con questo l'aver preservato una continuità formale mediante l'eliminazione, o quanto meno l'attenuazione, della conflittualità sonatistica.18 Infatti l'unico effetto in tal senso ottenuto dalla sua interpretazione è il realizzarsi di una dicotomia unica, che in linea di principio potrebbe essere ritenuta altrettanto conflittuale di quella doppia. Invece il fatto che l'interpretazione gouldiana regge è dovuto proprio al contrario, cioè all'aver dilatato infinitamente, facendone un nunc stans al di fuori del tempo, resecato da qualsiasi continuità architettonico-temporale, quegli istanti sublimi, cioè i temi femminili (quelli già femminili di diritto e quelli originariamente maschili, ma resi di fatto femminili dal modo di suonarli di Gould). Gould rompe la forma sonata del concerto, basata sulla doppia dicotomia, facendo di questa doppia dicotomia una dicotomia unica. In questo modo lo spazio del pianoforte è interamente occupato da un'aura femminile-lirica, che risulta sublime proprio perché discontinua rispetto al tutto, dotata cioè di valore autonomo extratemporale, laddove l'orchestra, interamente "maschilizzata", fa solamente da appoggio al lirismo del pianoforte.
Facendo dunque un cenno finale alla concezione interpretativa generale di Gould non si può non rimarcare, come già abbiamo fatto, che gli elementi su cui Gould si basa e che egli sempre ricerca sono l’assenza di contrasto drammatico, la varietà armonica e la complessità contrappuntistica: a quest’ultimo elemento, tra l’altro, è da ricondurre anche la ben nota consuetudine gouldiana di eseguire gli accordi arpeggiati, anziché placcati, proprio per far intuire, in qualsiasi passo di qualsiasi composizione di qualsiasi epoca, le possibilità contrappuntistiche insite nella musica.19
E’ dunque a Bach che dobbiamo guardare come al baricentro dell’arte interpretativa gouldiana, giacché anche in Schoenberg, altro compositore da Gould molto amato, egli ricerca sempre la varietà armonica e il contrappunto, essendo in ultima istanza indifferente all’aspetto atonale e dodecafonico della sua musica. Il motivo dell’amore di Gould per Bach sembra affondare le sue radici in due fattori principali, apparentemente distanti tra loro, ma entrambi innegabili: da un lato c’è la congenialità immediata, data dall’amore per il contrappunto, per le modulazioni ricercate e per una continuità formale priva di fratture. Dall’altro lato c’è anche una congenialità più segreta e sfuggente: l’aspirazione alle celestiali altezze dello spirito, all’universale, all’astrattezza del timbro sonoro come simbolo vivente della purezza del pensiero. Che un aspetto della questione implichi sempre anche l’altro non è certo. Quello che è certo è che in Gould essi coincidono, sicché le caratteristiche formali da lui ricercate (contrappunto, varietà armonica, assenza di contrasti) vanno sempre nella direzione dell’astrazione, della spiritualità e dell’universalità.
Non è certamente un caso che la folgorante carriera pianistica di Gould abbia inizio con la sua incisione del 1956 delle Variazioni Goldberg di Bach. Nel 1982, poco prima di morire, Gould incide nuovamente quest’opera, interpretandola in maniera totalmente diversa. Con entrambe queste incisioni, anche se in direzioni differenti, Gould segna non solo una tappa nella sua evoluzione di pianista, ma anche una tappa nella storia dell’interpretazione. Mentre la prima incisione era rivoluzionaria perché rompeva con uno stile interpretativo tradizionalmente basato su una visione pedantesca della musica di Bach, la seconda incisione è altrettanto rivoluzionaria a motivo dell’astrattezza di pensiero, della vera e propria dimensione metafisica del suono raggiunta da Gould. Nel ‘56 era segno di innovativa effervescenza giovanile suonare Bach con brio quasi scanzonato; nell’’82 il punto di riferimento per tutti era già il Bach di Gould, sicché la lentezza e il rigore dei tempi presi dal pianista canadese vanno interpretati come una nuova, imprevista e imprevedibile rivoluzione. Nella seconda incisione emerge la filosofia di vita di Gould: l’uomo faccia a faccia con una natura immensa, sconfinata e viva, tranquilla, ma viva. Il raggiungimento della pace interiore viene visto da Gould come l’obbiettivo principale della musica, e questo obbiettivo viene reso in quest’incisione nella maniera più convinta e convincente.
Molti piani interpretativi si sovrappongono: il fatto che si tratti di un’opera assai familiare a Gould ne facilita la resa vieppiù informale dei temi e dei passaggi; la scelta della lentezza nei tempi va verso una omogeneità delle variazioni tra di loro, diventa collante della forma; infine la tensione melodica, caratteristica prettamente gouldiana, viene portata allo spasimo fino alle soglie dell’impossibile. Sembrerebbe trattarsi di un’opera diversa da quella suonata nel ‘56, e cioè si ha come la sensazione che quella musica sia cresciuta e maturata con Gould stesso. Sarebbe vano tentare un parallelismo puntuale tra le differenti scelte interpretative delle due edizioni, ma già all’interno dell’esecuzione dell’’82 si può rilevare uno sbalzo piuttosto evidente tra la scelta di tempo nell’enunciazione iniziale e in quella finale del tema: quasi un’ulteriore prova della flessibilità formale che contrassegna la padronanza delle Goldberg da parte di Gould. In chiusura infatti questo tema viene suonato da Gould, più ancora che nell'incipit, in cui fa durare questo brano ben 40 secondi di meno, con la paura di fare male, con il terrore di picchiare. Ne esce qualcosa che si alza verso il cielo e si volta di tanto in tanto a salutare, invece che il tono da camminata caparbia e un po' ostinata dell'inizio. Quaranta secondi, anche se la quantità non conta in fatto di interpretazione, ma solamente la qualità, sono sempre quaranta secondi e le ragioni di un simile divario agogico tra la prima e la seconda enunciazione del tema riflettono la meditazione interpretativa Gouldiana, in grado di far suonare in maniera volta a volta qualitativamente diversa uno stesso brano.
La scelta della lentezza, che pervade tutte le interpretazioni della maturità di Gould, ha spesso sull’ascoltatore un doppio effetto: un effetto di calma, che è l’effetto auspicato da Gould, ma anche un effetto di angoscia, dovuto al fatto che questa dilatazione dei tempi appare a tratti spasmodica. La lentezza dell’ultimo Gould, e nella fattispecie la lentezza della sua ultima versione delle Goldberg, pare motivata e motivabile solo da un immenso dolore trattenuto, mai espresso, ma affiorante a tratti sotto la tensione della linea melodica. Un dolore umano (senz’altro il dolore della solitudine) che cerca disperatamente di stemperarsi in una musica oggettiva e universale.
Se si pensa a questo dolore, ed al fatto che non molto tempo dopo l’incisione Gould morì (anche se non si tratta dell’ultima incisione) viene fatto di pensare che quella “pace autunnale”,20 di cui parlava Gould sul finire della sua carriera, e da lui indicata come una meta da raggiungere, fosse un presagio di morte, indice di una stanchezza di vivere che mascherava sé stessa ammantandosi di saggezza interpretativa. Che la quiete additata da Gould come oasi di contemplazione per l’ascoltatore non sia sempre positiva, è un dubbio che può affiorare anche guardando la vita privata del pianista canadese. La forzata reclusione, il rifiuto della luce del sole, la preclusione di qualsiasi contatto umano sembrano caratteristiche umane imprescindibili da una scelta di base ben precisa, quella dell’eremitaggio, che può forse venire spontanea a chi è a contatto con la sconfinata natura canadese, ma risulta sotto molti aspetti delirante per un ascoltatore che vive in un paese mediterraneo, il cui ritmo biologico è dunque solare, abituato al sovraffollamento e a una certa selvaggia allegria. A tal proposito, se mai si volesse condurre una ricerca sull’indice di gradimento delle incisioni di Gould, non ci sarebbe da stupirsi se esse fossero mediamente più gradite alle popolazioni del Nord che a quelle del Sud, e se le popolazioni mediterranee amassero più le incisioni giovanili (veloci e scanzonate) di quelle della maturità (lente e meditative). Sarebbe forse errato, quindi, parlare di quiete autunnale come presagio di morte, ma si potrebbe comunque affermare che quella quiete autunnale è foriera di angoscia, non solo -come sperava Gould- di tranquillità.
Per concludere, ancora qualche considerazione sulla idea, centrale per Gould, della morte del concerto-esaltazione e dell’avvento dell’era dell’incisione-contemplazione. Appare chiaro che, nonostante le tecniche di registrazione si facciano sempre più raffinate, l’interesse del pubblico verso la musica “seria” sembra aumentare, se è vero che ciò avviene, sulla base di concerti che incentrano l’attenzione dell’ascoltatore sulla figura del virtuoso-personaggio, il quale sempre più spesso scende a compromessi a volte davvero improponibili con la musica “leggera”. Il punto è: se Gould -come sembra- aveva torto nel preconizzare l’era dell’incisione, della musica come fatto intimo, e se invece l’interesse del pubblico viene catturato in modo sempre più esclusivo da manifestazioni dal vivo in cui non vale più nemmeno il paragone agonistico (del genere “riuscirà questa sera al tenore il do di petto?”), bisognerebbe forse preoccuparsi per una reale, tangibile diminuzione dell’interesse verso la musica, che va di pari in passo con l’aumentato interesse verso il virtuoso-showmen, amato anche oltre l’errore, oltre la stecca. Se non vale nemmeno più la legge ferrea dell’arena, se il virtuoso che stecca, invece che essere matato dal pubblico sadico -come rilevava Gould- viene bonariamente perdonato per il solo fatto (e fin tanto che) accetta di esibirsi nell’arena, siamo davvero scesi a un confine inaudito di volgarità che decreta la fine dell’interesse per la musica.


Roberto Barreca.
Bibliografia essenziale

Bernstein, Leonard, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York).

Gould, Glenn, “The Prospects of Recording”, in High Fidelity, Great Barrington, The Billboard Publishing Co., April 1966.

Gould, Glenn, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984).

Gould, Glenn, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard).

Gould, Glenn, Lettere, Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected Letters, 1992, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd).

Matheopoulos, Helena, Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra, Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena Matheopoulos, 1982).

Rattalino, Piero, Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti, Firenze, 1983.

Zurletti, Michelangelo, La direzione d’orchestra. Grandi direttori di ieri e di oggi, G. Ricordi & C. - Giunti Martello, 1985.
1 V. la “Premessa”, scritta da Monsaingeon, alla raccolta di interviste di Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), pp. 1-5.
2 L’avversione di Gould nei confronti di ogni forma di edonismo ha senz’altro connotazioni morali: “...un termine che nel mio vocabolario rappresenta il massimo dello spregiativo -...edonista”. (Gould, op. cit., p. 138).
3 V. p. es. ciò che Gould afferma a proposito di un direttore che la critica generalmente ritiene importante, ma certamente “minore” rispetto a Bernstein, George Szell: “Inizialmente Szell voleva registrare per la Epic perché, in un colpo solo, gli era possibile registrare, ad esempio, le nove Sinfonie di Beethoven, o un repertorio simile, che sarebbe stato in diretta competizione con quello che Bernstein e Ormandy volevano fare in quello stesso momento. Ora, nonostante Szell fosse un direttore d’orchestra ben più grande di quelli...i suoi dischi non si vendevano.” (Gould, op. cit., p. 130).
4 Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, cit., p. 144.
5 Ibidem.
6 Leonard Bernstein, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York), p. 133. V. anche Helena Matheopoulos, Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra, Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena Matheopoulos, 1982) dove Bernstein afferma che “dirigere... E’ un grande atto d’amore” (p. 27). Si noti che anche per Gould l’esecuzione musicale “è...una storia d’amore” (Gould, op. cit., p. 55), ma mentre per Bernstein la corrente amorosa unisce esecutore e pubblico, per Gould unisce esecutore e musica eseguita. In ciò sta la differenza nodale tra musica intesa come esaltazione e musica intesa come contemplazione.
7 Bernstein, op. cit., p. 132.
8 V. p. es. Glenn Gould, Lettere, Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected Letters, 1992, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd), pp. 30-33.
9 V. p. es. Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), pp. 27, 30 e 84.
10 Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 55.
11 Gould, op. cit., p. 150.
12 Il ragionamento sul ruolo dell’artista nella società e sulla mentalità puritana dell’Ontario anni ‘40 è dello stesso Gould (Gould, op. cit., p. 121).
13 Sul ruolo del tempo nel processo interpretativo v. Gould, op. cit., p. 153.
14 V. Glenn Gould, “The Prospects of Recording”, in High Fidelity, Great Barrington, The Billboard Publishing Co., April 1966, pp. 54-56, dove Gould critica i criteri di valutazione estetica improntati allo storicismo, giudicandoli ironicamente come espressione della “sindrome di Van Meegeren”.
15 V. p. es. Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 63.
16 V. p. es. Bernstein, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York), pp. 65-82, dove viene riprodotto il testo di una trasmissione televisiva del 14/11/1954. Brani di questa trasmissione si ritrovano anche all’interno della puntata del ciclo televisivo Bernstein dirige Beethoven dedicata alla Quinta sinfonia.
17 Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), p. 84.
18 V. Gould, L’ala del turbine intelligente, cit., pp. 131-135, dove l’Autore espone le motivazioni delle sue scelte interpretative per questo concerto.
19 V. Gould, op. cit., p. 76 sgg.

20 Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 157.
 Introduzione: per un'Estetica regionale





Scritti sulla musica (2016)

Introduzione

Per Estetica si intende la scienza del bello (è una branca della filosofia).
Per estetica regionale s'intende una concezione ed una modalità di esercizio dell'estetica che mira a mappare le diverse regioni del bello.
Il presupposto teorico che sta a monte dell'estetica regionale (e di questi scritti) è che nelle arti in generale (qui si tratterà della musica), ciascun'opera (brano) “punti verso” o sia la “rappresentanza” di una regione dell'universo estetico; che ciascun brano rappresenti una regione dell'universo estetico, connotata in modo univoco; che si possa di conseguenza fare una mappa delle diverse regioni estetiche, calcolandone distanza e posizione; che questa mappa, questo insieme di regioni estetiche differenziate e contigue siano un mondo parallelo (l'universo estetico, appunto); che quindi, più precisamente, le regioni estetiche del mondo parallelo rappresentino sé stesse nei vari brani; che tale mondo parallelo costituisca un universo di sconfinata bellezza, analogo al nostro mondo, ma infinitamente più bello; che tale cifra di maggiore (infinita) bellezza corrisponda ad un'infinita verità; che di conseguenza, mappando nel modo più completo l'universo estetico (o universo parallelo, che è lo stesso) si raggiunga tale verità ultima.
Penso che una riflessione (o obiezione) a tutta prima possa essere che tale meccanismo teorico (all'apparenza anche molto astratto) somiglia in qualche modo a una religione, in quanto dà per presupposte troppe cose indimostrabili.
Mi permetto di prevenire tale possibile obiezione ricordando che tale è la caratteristica di tutta la filosofia e che non per questo tutta la filosofia viene ritenuta metafisica.
Personalmente preferirei vedere tale approccio metodologico, semmai, come una versione scritta (filosofica o letteraria, lascio ad altri giudicare) di quello che secondo me è il cuore e il significato profondo della dodecafonia schoenbergiana, ossia una tecnica che cambia tutti i segni del linguaggio per proteggere il proprio nucleo romantico dalla svalutazione, dettata dalla strumentalizzazione (di regime, nel caso della dodecafonia).
Per proteggere le cose belle, rendiamole incomprensibili.

Un ulteriore presupposto teorico di questi scritti risiede nella convinzione che l'idea di ascendenza crociana dell'indipendenza della musica dall'interprete (con conseguente innegabile svalutazione del ruolo di quest'ultimo) non possa essere sostenuta.
Ciò perché, se è vero il presupposto delle regioni estetiche e dell'universo parallelo, ogni interprete – con la propria poetica e cioè con la propria interpretazione – inevitabilmente sovrappone il proprio mondo poetico al mondo poetico del brano  che egli intende disvelare con l'esecuzione-interpretazione stessa.
Ma ciò, anziché essere disturbante, dev'essere ritenuto indispensabile per il disvelamento stesso.
Certo, tale disvelamento non si verificherà a tutte le condizioni, ma solamente nel caso in cui l'universo estetico dell'interprete per quel brano coincida con l'universo estetico del brano interpretato. I
In tal caso si verificherà una coincidenza, un'aderenza tale per cui l'interpretazione di quel brano da parte di quell'interprete resa in quel lasso temporale (unico, nel caso del concerto, ripetibile, nel caso della registrazione) diverrà la chiave di accesso all'universo poetico (alla regione estetica) del brano stesso.
L'interprete è un esploratore di regioni estetiche. Egli ha lampade e chiavi per scoprire, svelare, aprire, illuminare le regioni estetiche che cerca di esplorare. A volte le chiavi (quelle chiavi che egli adopera in un dato momento) non funzionano, a volte egli può entrare in quelle regioni per altre vie che non sono quelle principali, ma se vi entra, ed ogni volta che vi entra, egli rende un servizio universale e imperituro all'umanità.
Analogamente, va smentita come falsa la convinzione che l'opera d'arte sia “aperta” e che l'ideale della corretta interpretazione sia una chimera, in quanto l'interprete ricrea in modo libero e l'unica opera d'arte esistente è la ri-creazione dell'interprete, dato che il segno rimane muto fino a che l'interprete non lo fa vivo.
Tale è l'eccesso opposto, quello abbracciato da Michelangelo Zurletti sulla scorta di Umberto Eco, secondo il quale “ogni accesso è un modo di possedere l'opera”. Qui vi è, di sbagliato, una sopravvalutazione dell'interprete a scapito dell'idea dell'autore.
L'interprete segue una traccia (il segno scritto), ma quella traccia è l'indizio o l'insieme di indizi lasciati dall'autore riguardo a una storia in cui il protagonista (il colpevole del romanzo giallo), ossia la corretta interpretazione, non è quella che vuole l'interprete (il lettore, nel caso dei romanzi gialli), ma quella stabilita dall'Autore e che viene infine disvelata.
La pretesa che l'interprete, o il fruitore, o il lettore nel caso dei romanzi gialli, stabiliscano qual è la versione corretta, il significato ultimo, o creino da loro stessi il significato è altrettanto bizzarra quanto l'idea che si potrebbero vendere romanzi con pagine in bianco, perché tanto è il lettore che crea il romanzo.

Vi è anche un'altra questione, molto importante, cui occorre accennare.
Il mondo parallelo le cui regioni rappresentano sé stesse nei brani musicali, è lo stesso dei sogni.
Ciò implica una ipotesi alternativa rispetto alla teoria dei sogni di Sigmund Freud.
Com'è noto, per Freud il sogno è la realizzazione di un desiderio. Nell'Interpretazione dei sogni Freud elaborò una teoria, alla base della nascita della psicoanalisi, in base alla quale il sogno risulta essere una “formazione di compromesso” tra esigenze le dell'io cosciente e del Super-io (l'imperativo morale più o meno rigido, benevolo o maligno) e le pulsioni dell'Es (le nostre pulsioni inconsce, in conflitto con le istanze del Super-io e pertanto inaccessibili - in quanto inaccettabili – per l'io cosciente).
Prescindo, in tale sommaria ricapitolazione, ovviamente, dal distinguere tra la prima e la seconda topica di Freud (egli è andato elaborando ed accrescendo più volte la sua teoria nel corso del tempo).
Sicché per Freud il sogno sarebbe un veicolo di conoscenza delle pulsioni inconsce e dei conflitti tra queste, la nostra coscienza e il nostro mondo morale (Super-io), anch'esso in parte inconscio. Tale conflitto sarebbe esplorabile in analisi e l'analisi dei sogni permetterebbe un accesso privilegiato al nostro inconscio.
Il sogno come realizzazione di un desiderio e la salvaguardia del sonno quale realizzazione del principale desiderio notturno sono state le intuizioni originarie dalle quali Freud ha preso le mosse nel suo lavoro che lo ha portato molto avanti nell'elaborazione della psicoanalisi.
Ora, aldilà dell'evidente insufficienza e scorrettezza di una così povera riesposizione della teoria freudiana del sogno quale quella che qui sopra ho fatto (ma la sostanza è quella, comunque), quello che mi preme qui sottolineare è che, a mio  avviso, il sogno non rappresenta quanto sostenuto da Freud.
Anzitutto, in Freud manca una prospettiva estetologica del sogno: che fare dei sogni belli? Li interpretiamo? E se lo facciamo, lo facciamo alla stessa stregua di quelli brutti o emotivamente neutri? Il sogno bello non è già significato a sé stesso? Deve per forza significare altro? E dove potremo mai fermarci, se accogliamo la tesi di Freud, nella ricerca del significato? Chi ci dice cioè che, trovato il significato di un'immagine del sogno, tale significato non sia a sua volta il significante di un ulteriore significato, e così via, all'infinito? Chi stabilisce dove bisogna spingersi o fermarsi nella ricerca dell'ulteriore significato? Il paziente? L'analista? Dio?
Anche per i sogni ricorrenti, anziché ricorrere, quale spiegazione, alla coazione a ripetere (che comporta una pulsione distruttiva o comunque un'interpretazione del sogno ricorrente in senso negativo e problematico), potremmo ricorrere ad altro.
Io penso che i sogni costituiscano anch'essi, come la musica, un mondo parallelo che noi visitiamo di notte.
Che questo mondo parallelo sia lo stesso della musica.
Che quindi – nella sua essenza – tale mondo parallelo che visitiamo ogni volta che sogniamo sia non meno reale del nostro (come del resto asserì Borges) e che sia, nel suo complesso, di infinita bellezza (certo, non mancano le brutture rappresentate dagli incubi).
Che noi viaggiamo in diverse regioni e luoghi di tale mondo parallelo nei sogni.
Alcuni luoghi ci attraggono più di altri: di qui il sogno ricorrente.

Allo stesso modo, potremmo fare un discorso di tipo metafisico, agganciandolo alla musica e ai sogni.
Potremmo cioè presupporre che l'aldilà sia lo stesso mondo parallelo della musica e dei sogni.
Ma non voglio spingermi troppo oltre, in una povera introduzione ad un piccolo libro di scritti sulla musica.


1) Il Pastor Fido e la romantizzazione del Barocco

La necessità di romantizzare il Barocco musicale mi venne dall’ascolto di alcune sonate del ciclo Il Pastor Fido di Vivaldi (in particolare la sonata in sol minore RV 58) che Maxence Larrieu suonò in un teatro milanese non distante dal Conservatorio di musica Giuseppe Verdi negli anni ’90 del XX secolo.
Presto capii che la dimensione colà espressa trascendeva la preconcezione di un Barocco musicale e di un Romanticismo musicale legati alla storia della musica e ne proiettava l’unità (un’iper-romantizzazione) nei cieli dell’universo.
Il romanticismo che ne scaturiva, in senso astorico e universalistico (non mi spingo a dire metafisico) riguardava il quotidiano ed il dialogico.
Ma del resto il dialogo tra sentimenti diversi caratterizza l’Empfindsamer Stil, rispetto all’unità del sentimento del primo Barocco, prescritto dalla Teoria degli affetti.
Quel dialogo quotidiano, assurgendo ad assoluto, rappresentava il Nunc Stans di schopenhaueriana memoria.

2) Durezza e dolcezza in Beethoven

Quanto mi accingo a scrivere qui non è nuovo ai musicisti. Gli è che la durezza, rispetto alla dolcezza (le due istanze afferiscono a momenti separati) viene sovente enfatizzata in Beethoven, mentre la seconda è altrettanto importante della prima, come due pilastri contrapposti di un ponte. La dolcezza si manifesta nei secondi temi di sinfonie, sonate, concerti e nei movimenti lenti. Se non si tiene conto di tale istanza, necessariamente Beethoven risulterà più duro di Mozart. Con il nulla cui tale considerazione, priva degli intrecci di cui sopra, ci porta.

3) Il ritmo vivaldiano

L’elemento ritmico è fondamentale in Vivaldi, (se si esagera, si può affermare: “quasi quanto in Stravinsky”). Accanto alla nutrita presenza (diletta) in Vivaldi della musica strumentale – quanto a produzione – accanto a quella vocale e all’impulso dato al concerto come forma musicale non dissimile da quella mo , il ritmo vivaldiano è importante, perché senza quell’elemento, avremmo – effettivamente, come criticò qualcuno – tanti concerti vivaldiani a volte “troppo uguali”. Invece molti di quei concerti si differenziano per le figure ritmiche inusitate e interessanti.

4) Danza profana e canto sacro come archetipi di due tradizioni parallele

Quanto sopra ricordato riguardo all’importanza del ritmo in un compositore che molto ha dedicato alla musica strumentale come Vivaldi è importante per ricercare le radici della musica strumentale nella tradizione del ritmo che discende dall’abitudine alla danza, laddove la tradizione vocale discende dal canto, in origine prevalentemente sacro.
La danza profana costituirebbe in base a tale discendenza immaginaria l’origine della musica strumentale, laddove il canto sacro costituirebbe l’archetipo immaginario della tradizione del melodramma.
Non saprei quanto di tale coppia di discendenze parallele potrebbe trovare corrispondenza nella storia documentale della musica, ma credo che in ogni caso il ragionamento possa valere a livello immaginifico, come reverie, intesa in senso bioniano quale suggerimento implicito di una poetica.

5) Il ruolo del violoncello nel romanticismo universale

Senz’altro il calore ed il colore sonoro, unitamente al registro dai toni medio-gravi e altresì lo splendido legato, fanno sì che il violoncello sia sempre stato soggetto e oggetto di musiche romantiche (l’aggettivo va inteso qui in senso astorico), che da Bach, Vivaldi, salendo fino a Schumann e Brahms, hanno accompagnato la storia della musica come lo splendido vestito semi-trasparente di una bella donna, il cui compito è precisamente quello di lasciarne intravvedere l’avvenenza avvolgendone il corpo senza precluderlo allo sguardo.

6) Rampal e la metafisica del suono

Ad apprendere la musica attraverso il suono del flauto tutti i musicisti (non solo i flautisti) invitò Jean-Pierre Rampal. In lui il suono è talmente bello che si fa veicolo principale dell’interpretazione dei brani. Il suo suono è di una bellezza che definirei metafisica. Disincarnato di ogni impurità eppure carnale, morbido, tondo, vellutato, inesauribile: fluido. Non sarebbe possibile descriverne tutte le sfumature. La bellezza della musica viene cercata e tradotta in quel suono e attraverso quel suono, sicché della musica il suono è tutto. Attraverso il suono passa ogni significato.

7) Vita e morte in Mahler

Ricordo che, intervistato sul perché Mahler piaccia molto ai giovani, Claudio Abbado rispose che in Mahler c’è la vita, ma anche la morte (sulla rappresentazione della morte in Mahler, in particolare nella nona sinfonia, si espresse anche Leonard Bernstein).
Ciò costituirebbe un motivo di attrazione, in ragione delle eterne domande e dello spleen esistenziale dei giovani (palesato, camuffato o rimosso che sia tale spleen oggigiorno).
Sto per acquisire dalla locale biblioteca un testo di un critico che non ama le sinfonie mahleriane, rispetto ad esempio ai lieder, perché le ritiene in qualche modo dei monstra.
Non so se vi sia relazione con il primo ragionamento di cui sopra, ma io a vent’anni amavo molto le sinfonie di Mahler.

8) Mattina domenicale assolata

Infantile, dalla luce e dal cielo diafano, con l’odore di chiuso della trattoria accanto alle cui porte si passava, lungo il marciapiede. Il senso ne è che…

9) Tra fede e scienza, tra cultura e indottrinamento

Anche se si è accettato il dato di fede iniziale, (o la paetitio principii, se si preferisce), proprio della teoria psicoanalitica (l’indimostrabile inconscio), è sempre meglio rifuggire l’indottrinamento ed adottare un atteggiamento culturale.
Perciò, in particolare sulla teoria freudiana del sogno, non smetto di chiedermi: tutti i sogni hanno uguale importanza? E ancora: tutti i sogni vanno interpretati? Sono sempre essi significante di un significato altro (simbolico)? O non possono essere, almeno alcuni, significato a sé stessi?
Mi riferisco in particolare alla valenza estetica dei sogni, che potrebbe essere a buon diritto concepita quale significato a sé stante del sogno, nella sua valenza di edificazione, già fine a sé stessa.
Prima ancora di aver tentato di dare risposte, ci sottrarremo, con tali domande, al rischio dell’indottrinamento di scuola (di quella freudiana, come di qualsiasi altra scuola) che troppo facilmente, data la teoria, si trasforma in catechismo.

10) La musica vocale

La musica vocale e in particolare il melodramma. Non si riesce a negare una subordinazione del suono alla parola quale significante di un significato ulteriore (il significato della parola stessa, ma – allargando la visuale – della frase parlata, del dialogo/monologo, della trama, della storia nel suo complesso).
Abbiamo diversi elementi che concorrono – suddividendo l’attenzione del fruitore – all’opera nel suo complesso e tali elementi, oltre alla musica con la sua logica puramente musicale in sé (suonata e/o parlata che sia), sono, ad esempio, il libretto, la trama, la scenografia, l’ambientazione storica, il significato allegorico della trama, scena,  ecc…
Inoltre, abbiamo la ritrattistica psicologico-morale dei personaggi e, come tale, ancora una volta la musica ne risulta, se non subordinata, adattata o “consustanziata”, nel senso che parte integrante del suo valore e validità artistica risiede anche nella sua efficacia nel dipingere le caratteristiche del tale o tal altro personaggio dell’opera stessa.
La parola pone anche problemi ulteriori di tipo pratico: la lingua in cui è espressa, l’udibilità, la difficoltà a comprendere ciò che viene detto.
Poi vi sono momenti in cui l’aspetto musicale è nettamente subordinato, come nel recitativo, secco o orchestrato che sia.
L’azione scenica, lo svolgersi del dramma, acquisiscono un valore a sé – aldilà della musica – e ciò rende innegabilmente più insoddisfatto il fruitore di musica pura.
Chi sia tale fruitore di musica pura è poi da vedere: se sia un romantico (la musica essendo indefinita, rispetto alle parole che invece sono definite nel loro significato, esprimerebbe meglio l’assoluto) è tutto da dimostrare. A livello storico, almeno. Che diremmo, altrimenti, di Verdi, Wagner, Berlioz, e moltissimi altri autori, ma anche di tutta la tradizione liederistica? Che non si tratta di fenomeni romantici?
Vero è che il romanticismo si definisce anche come fucina di contraddizioni, e la summenzionata sarebbe soltanto una fra le tante. Ma soddisfa, poi, anche tale considerazione?
V’è inoltre da dire (ed è discorso a parte, ma collegato a quanto sopra) che l’amante della musica strumentale (strumentale “pura”, se vogliamo) non potrebbe essere amante di nulla se ignorasse la musica vocale, perché è l’aspetto culturale della musica quello che le dà valore: gli intrecci tra generi ne costituiscono parte integrante.
Per il medesimo motivo, non sarebbe un intenditore di quartetti, e non sarebbe anzi proprio un intenditore di alcunché, chi ascoltasse, suonasse e conoscesse solo quartetti, poiché la storia del genere quartettistico, la produzione quartettistica e la musica in generale è tutta collegata con gli altri generi.
I generi musicali, i vari, innumerevoli brani musicali sono, come scriveva per ciò che concerne la letteratura il grande Borges, tutte pagine di uno stesso grande libro universale.
E’ in base a tale ultima considerazione che in musica, come e più che in altre discipline, i cosiddetti “specialisti” non hanno ragione alcuna.
Specialisti di che? Esiste uno specialista dell’universo?

11) Durata (quindi forma) e bellezza

Il tomo su Mahler che ho preso in prestito consta di ben mille pagine. L’ultimo libro (romanzo) che mi hanno regalato a Natale è di pochissime pagine. Due esempi di un cattivo uso della durata, di una lunghezza sbagliata del libro. Li ritengo due esempi analoghi e opposti di snobismo intellettuale. Ad essere snobbato non è soltanto il lettore, ma l’idea stessa di bellezza del libro.
La bellezza ha a che fare anche con questioni di proporzioni e di forma. Le proporzioni e quindi la forma di un’opera, sia essa letteraria, musicale o di altro genere, costituiscono un ideale di bellezza e contribuiscono in modo determinante alla bellezza dell’opera.
La durata di un film, per esempio, è essenziale nel giudizio estetico che si dà al film stesso. Ciò perché la proporzione, la durata e quindi la forma sono questioni direttamente collegate alla bellezza dell’opera; sono quindi tutt’altro che estrinseche e superficiali.
Ora, per ribadire il concetto di cui sopra, potremmo usare anche la metafora alimentare: il fruitore di arte, come l’ospite a tavola, non va né lasciato affamato, né ingozzato oltre l’umana capacità digestiva.
Un’ulteriore argomentazione è di ordine logico. Se come fruitore mi dedico all’approfondimento di Mahler per mille pagine, quante pagine di lettura dovrei dedicare a Mozart, Beethoven? E agli altri compositori?
E alfine, fatta l’immane fatica, non mi resterebbe tempo per un analogo, paragonabile approfondimento da dedicare all’ascolto diretto della musica di tali autori, che rispetto alla lettura dovrebbe pur prendermi un tempo infinitamente più grande, perché là (nei libri) vi è una descrizione, qui (nell’ascolto diretto) vi è l’essenza dell’arte di quegli autori.
Ma per una simile impresa non basterebbe una vita. Pertanto è vano scrivere un libro di mille pagine su Mahler, come su qualunque altro autore.
Lo stesso vale per le opere troppo brevi. Un romanzo troppo breve non è un romanzo.
Riguardo alle scorciatoie formali che azzoppano la forma stessa, diminuendone ingiustificatamente la durata, ricordo quanto disse ad una collega di conservatorio il mio docente di musica da camera, allorquando – in una sonata di Beethoven – ella saltò il ritornello dell’esposizione, che precede lo sviluppo, passando direttamente a quest’ultimo:
“Perché salti il ritornello? Forse perché è uguale alla prima parte dell’esposizione che hai appena eseguito?
Ma già solo per il fatto che tu nel ritornello ripeti la prima parte dell’esposizione –  raddoppiandone la durata -  ed anche per il fatto che tale ripetizione viene dopo, essa non è più uguale alla prima, ma bensì la completa e concorre alle corrette proporzioni, in una parola alla forma dell’opera.
Altrimenti sarebbe come dire che – nel costruire un ponte - ti fermi a metà ponte, perché tanto gli ultimi due piloni sono esattamente uguali ai primi due, quindi li salti”.

12) Le cantate e i brani vocali in modo minore di Vivaldi, di J.S. Bach e di molti altri

Credo che qui siamo in un mondo veramente trascendente. Penso che sia qui espresso il non plus ultra della purezza di sentimento.
Non faccio se non un accenno all’importanza del modo minore nella musica in generale, nel senso che secondo me è in tale modo che si sono scritti i tesori più preziosi della musica, e sarà bene riprendere tale argomento più oltre.
Mi limito qui a decantare l’applicazione del modo minore alla cantata, o comunque – in senso estensivo – al brano vocale, in ispecie sacro, per unica voce ed in particolare (ma non soltanto) per voce femminile ed archi.
Penso che con tale genere (se si può definire tale, data l’accezione estensiva ed alquanto generica appena sopra dichiarata) si siano raggiunte alcune tra le vette più alte della produzione artistica di tutti i tempi.
Basti fare, ancora, un ultimo accenno del genere, che anch’esso meglio dovrà essere trattato a parte: l’incredibile Stabat Mater di Pergolesi.

13) Strada

Collegata a quanto sopra è la strada. Perché, se pensiamo all’aria di Sarastro, possiamo concepirla come la summa di una tradizione, quella della cantata sacra, che ha come riferimento la strada.
E’ forse simbolo di cammino (potrebbe essere la redenzione, la luce, l’incontro con il prossimo). E’ una dimensione che si svolge in senso orizzontale, quella che ha per simbolo la strada, e che potrebbe sembrare in contraddizione con una concezione della cantata sacra come dimensione verticale, in quanto dialogo con Dio.
Credo che si potrebbe risolvere il dubbio concependo la dimensione orizzontale della cantata non tanto come simbolo, ma bensì come luogo immaginifico della cantata: la strada è una fantasia, un sentimento che accompagna l’ascolto e il pensiero della cantata.
O forse il dubbio di cui sopra potrebbe risolversi come segue: la strada, ossia la dimensione orizzontale (umana) è l’aspetto immanente della fede. La fede consisterebbe nel collegare la dimensione orizzontale e immanente (apertura all’altro) con l’aspetto verticale e trascendente (il rapporto con Dio).
In tal senso, la fantasia orizzontale (la strada, appunto) che accompagna l’ascolto della cantata sarebbe la realizzazione del sentimento del compositore (tradotto in arte e quindi comunicabile all’ascoltatore ed in grado di suggerirgli la fantasia di cui sopra), consistente nel desiderio del compositore stesso di collegare l’aspetto verticale-trascendente della vita (la grazia, il rapporto con Dio) con quello orizzontale-immanente (l’apertura al prossimo).
Un’ulteriore, diversa spiegazione, assai più semplice, della fantasia della strada che accompagna l’ascolto della cantata, potrebbe essere la seguente, di tipo non fenomenologico, ma meramente fenomenico: il ritmo binario e l’accompagnamento di tali brani ricordano spesso la processione religiosa: ed ecco spiegata la fantasia della strada suggerita da tali brani.
Si noterà, tuttavia, che tale ultima spiegazione fenomenica della fantasia della strada, non impedisce di applicare alla processione religiosa stessa il ragionamento della penultima spiegazione: quel ragionamento complesso e fenomenologico che attribuisce alla fantasia un significato di collegamento – nella fede – dell’aspetto orizzontale-immanente della vita (apertura al prossimo) con l’aspetto verticale-trascendente (il rapporto con Dio).

14) Ancora sulla durata

Quanto asserito in 11) si presta a numerose obiezioni. La prima potrebbe essere che un saggio critico non è un romanzo e non aspirerebbe necessariamente alla bellezza artistica.
Tale obiezione è però facilmente da me confutabile: tutti gli scritti possono essere considerati opere d’arte nell’accezione borgesiana di 10).
Altra obiezione potrebbe riguardare l’infinita durata di opere quali quelle proustiane o anche di altri romanzi per antonomasia, come Guerra e pace.
Orbene, si potrebbe controbiettare che tali romanzi sono più romanzi composti in uno, come le scatole cinesi o le bambole russe.
Obiezione ulteriore (e decisiva) potrebbe essere che, se accettiamo l’accezione borgesiana di romanzo universale nel senso di 10), è di poco senso giudicare singoli brani di un romanzo universale che riguarda tutte le opere e tutti gli autori presi insieme (chi deciderebbe infatti la punteggiatura di tale romanzo universale, per dirla in termini della teoria della comunicazione della scuola di Paolo Alto?).
A tale obiezione potrei controbattere con una controbiezione estrema: non di romanzo, ma di monografia di mille pagine si tratterebbe, trattante quindi un solo argomento e pertanto capitolo squilibrato all’interno del romanzo universale.
Potrei però salvarmi dall’obiezione originaria (la concezione borgesiana del romanzo universale del paragrafo 11), solamente leggendo il libro su Mahler e dimostrando quindi – se è vero – che non è anch’esso, come le opere di Proust o Guerra e pace, presi ad esempio qui sopra, un insieme di libri nel libro, perché, se così fosse, avrei perso la concione.

15) La sfida, Carlito’s way e i film degli anni ’90 del XX secolo

Tra le mille e più considerazioni che si possono fare (sulla regia, sugli attori, sociologiche sul tipo di cinematografia, sulla tecnica cinematografica in senso stretto), ne faccio un paio che riguardano il clima di quegli anni. Come se, dai film, si potesse intuire retrospettivamente com’era un’epoca rispetto ad un’altra e rispetto ai nostri tempi.
La prima considerazione riguarda gli spazi: il senso di vuoto. E’ vuota la città e sono vuote le case, gli spazi sembrano immensi. Anche i tempi, dilatati, se accettiamo l’accezione di tempo collegata allo spazio (per accettare tale accezione, serve nota a parte, più oltre). In particolare la diacronia predomina sulla sincronia, oggi invece dominante.
La seconda considerazione riguarda il tenore affettivo: malinconico. Questo è uno degli aspetti più struggenti perché riguarda, tipicamente, i film d’azione. E il connubio di film d’azione, poliziesco o thriller, e malinconia, è uno dei tratti più belli e caratteristici di quegli anni.
Sul gusto per il senso del mistero, altro tratto tipico di quegli anni, si vedano invece altre pellicole: un buon esempio, ma tutt’altro che unico, è il telefilm X-files.
Sul perché di tale gusto del mistero, serve nota a parte, più oltre.

16) Destini possibili

Mi collego a 13). La camminata nel luogo natio, dell’infanzia, fa sorgere un sentimento di bellezza possibile. Anche – talvolta – la camminata in luoghi nuovi, sconosciuti e non necessariamente lussureggianti. Talaltra no, però.
Benigni nei “10 comandamenti” attribuisce il sentimento del sublime alla vista delle città come il presentimento d’amore ch’esse suscitano in noi. Stiamo parlando evidentemente del kantiano sublime, di cui alla Critica del giudizio.
Perché i luoghi natii lo suscitano spesso e altri luoghi nuovi talvolta sì e talaltra no?
Io definirei in termini di destini possibili le fantasie che suscitano in noi le strade vecchie e nuove.
Quelle vecchie, perché forte è l’impressione suscitata in noi da luoghi visti anche allora e la collateralità dei nostri luoghi natii con quelli suscita il sentimento di possibilità.
Le strade nuove possono suscitare analogo sentimento in una prospettiva di vita bella percepita come riguardante forse anche noi (in un futuro o in un mondo parallelo, il che è il senso anche dell’arte e della letteratura).
La bellezza della vita suscitata dai luoghi non dipende dalla bellezza dei luoghi, ma dalle persone con cui immaginiamo di vivere in quei luoghi.
Così, la mia città che è portata ad esempio di città anonima, in una battuta di uno scrittore diventò la città più bella da visitare, proprio in virtù di chi lo avrebbe accompagnato nella visita.

17) Manicheismo in Star Wars

Han Solo lo spiega nell’episodio VII, anche se non ne fa una teoria esplicita: la teoria si può desumere interamente dal suo discorso.
Poiché la forza è composta di due elementi, eternamente presenti ed eternamente in conflitto tra di loro, ci saranno sempre tradimenti (Fener passa dal lato chiaro a quello oscuro e poi ancora a quello chiaro; il figlio di Han passa dal chiaro allo scuro) e ci saranno sempre sconfitte parziali e temporanee di un lato e dell’altro (con il che la saga può continuare potenzialmente all’infinito).
Tale è il principio filosofico-religioso del manicheismo, che informa la saga e sul quale la saga stessa è interamente imperniata.

18) I 24 capricci

Oggi sappiamo, proprio a partire da Paganini, che il nocciolo del virtuosismo solistico ottocentesco è il rapporto del musicista con lo strumento, più che con la musica. La musica è strumento di esaltazione dello strumento, e non viceversa.
Ciò che si deve aggiungere è però che tale inversione di rapporto musica strumento, vale allo stesso fine del suo inverso: vi è in altre parole in Paganini la romantizzazione del rapporto con lo strumento.
Nell’esprimere il suo massimo talento (del musicista nella sua bravura e dello strumento nell’espressione delle sue potenzialità intrinseche) egli/esso esprime il proprio ideale di bellezza e di romanticismo.

19) La canzone di Solveig della suite orchestrale del Peer Gynt di Edvard Grieg, (Sir Thomas Beecham, Royal Philarmonic Orchestra, soprano Ilse Hollweg)

Più di altri celebri brani in questa splendida edizione della suite di Grieg, questo mi pare pervaso da un tale calore del suono e da una tale intensità espressiva, da farne un optimum.
Si tratta di un’interpretazione che unisce il calore all’accuratezza, in un connubio magnifico delle due doti fondamentali del direttore d’orchestra: concertatore e interprete.
Notevole l’esito sonoro anche in relazione all’epoca dell’incisione (fine anni ’50 del secolo XX, agli albori della stereofonia).
Devo anche dire che questo grande, come la quasi totalità dei direttori d’orchestra britannici di ieri e di oggi, mi convince molto.
Apprezzo molto lo stile, che unisce concreta precisione ad afflato poetico, di Sir Colin Davis, Sir Neville Marriner, Trevor Pinnock (già ottimo clavicembalista), solo per citarne alcuni.
Discorso a parte, ovviamente, andrà fatto per ciascuno di loro (e per altri non citati qui), senza omettere il grande Sir Georg Solti.
(P.S.: noto che – all’epoca in cui scrivo, gennaio 2016 - manca ancora una voce italiana di Wikipedia per il grande Sir Adrian Boult).

20) Preludi di Rachmaninov e Ashkenazy

Il titolo vuole ovviamente essere provocatorio: oggigiorno lo è solo nei confronti di Croce che riteneva nullo il ruolo dell’esecutore-interprete.
Notiamo qui come un grande pianista onnivoro, dal repertorio sterminato e proprio per questo non particolarmente specializzato in alcun autore (si fa per dire, naturalmente), che usa il piano per raggiungere l’espressività musicale e non subordina l’espressività musicale al pianismo, affronta un autore tardoromantico di tipo prettamente pianistico, che sembrerebbe essere molto legato al destino dello strumento per il quale principalmente scrive.
L’esito è esaltante, come in tutti gli strani incroci “mendeliani” tra interprete e autore che sembrerebbero a prima vista presentare caratteristiche assai divergenti tra loro.
Su tutti: si pensi all’esito esaltante del “freddo” Karajan che dirige le sinfonie del “caldo” Chaikovsky, con esiti molto più magniloquenti e impressionanti di quelli raggiunti dal “caldo” Bernstein il quale, proprio perché caldo di suo, non riesce a superare l’imbarazzo della scelta tra i mille climax ascendenti dell’Autore e risulta quindi a volte un po’ dispersivo.
Qui (preludi di Rachmaninov) Ashkenazy riesce a rendere l’anima romantica profonda di questo Autore, rendendolo pienamente equiparabile ai grandi romantici come Schumann.
Che poi Ashkenazy interpreti tutti gli autori – anche quelli classici e romantici mitteleuropei – con l’allure del grande nichilismo russo, come sembra sostenere il grande Piero Rattalino, è altra faccenda, anch’essa molto affascinante, specialmente nel momento in cui il grande musicologo Rattalino afferma a più riprese ed esplicitamente che questo pianista, e con lui tutti i grandi interpreti, contribuisce alla storia della cultura e, nel dare una lettura di uno e più autori, traccia una direttrice interpretativa e quindi culturale insieme: con buona pace di Benedetto Croce.

21) La follia di Rachmaninov

Carlo Maria Cella scriveva un bellissimo “Elogio della follia” in Musica Viva, Anno VIII n.6, giugno 1984.
E’ vero che nessun musicista nello scrivere una propria versione di questo tema e variazioni, ne ha stravolto il tema e Rachmaninov non fa eccezione.
Interessante anche la tesi della Variazione come forma musicale la più universale.
La storia della follia come genere musicale offre un’affascinante lettura della storia della musica, proprio perché dal rinascimento all’età contemporanea se ne sono occuparti una moltitudine di compositori.
E in tutti i casi, lo stupore sta nel riconoscere quel tema, che lega tutti nella storia perché sembra attraversare tutta la storia.

22) Il “suono Ashkenazy”

Premesso che sonorità e tocco valgono per quanto mi riguarda in funzione espressiva e non come fine a sé stessi (intendo con ciò: in direzione della musica e non in funzione dello strumento che la esegue; tratteremo poi, al riguardo, in termini non sempre adoranti, di Benedetti Michelangeli), mi permetto di fare una considerazione, come da titolo.
Alcuni post su internet, sparsi qua e là, in parte non a torto, tacciano il Nostro di suono metallico e martellante (curioso a tal proposito l’inciso di Rattalino che tace riguardo a tale possibile appunto e, in parte in direzione contraria, parla invece della sonorità non fortissima, in termini puramente dinamici, di Ashkenazy).
Molto spesso però (e con ciò intendo in numerose incisioni: penso a Schumann, ma anche a Rachmaninoff e a Prokofiev) il suono è dolce e caldissimo, più che gradevole, bello.
Allora? La mia teoria è che chi ama ha sempre ragione e chi ama esprime il bello e lo comunica perciostesso agli altri, mentre chi non ama ha sempre torto (mi sto riferendo evidentemente all’interpretazione musicale).
Perciò, laddove Ashkenazy ama (per esempio, nei tre autori citati, per numerosissimi, sterminati brani), l’interpretazione ed anche la qualità del suono (le due cose sono tutt’altro che prive di correlazioni) sono bellissime.
Laddove invece Ashkenazy non ama (secondo me per esempio ama un po’ meno Mozart e Chopin), l’interpretazione sarà meno bella e anche il suono potrà risultare, a tratti, un po’ metallico e martellante.

23) Per una geografia musicale

Partiamo dal presupposto di un’estetica regionale, un’estetica geografica (è chiaro che il riferimento spaziale nulla ha a che vedere con la geografia vera e propria del mondo, ma bensì con quella degli affetti).
Ossia: ogni autore (meglio, ogni brano) esprime un’angolazione dell’universo (affettivo), come tale localizzabile e misurabile nella sua distanza dalle porzioni di universo illuminate ed espresse da tutti gli altri autori (brani).
La geografia estetica suddetta è necessariamente quadridimensionale, nel senso che riguarda distanze tra regioni (affettive) non solamente contemporanee, ma anche diacroniche (deve essere sempre possibile collegare, ad esempio, l’estetica di Vivaldi a quella di Beethoven).
E’ appena il caso di notare che due brani, o autori, o singoli passaggi all’interno di brani, o gruppi di composizioni di due autori, molto distanti a livello di spazio reale e/o tempo reale, possono invece essere molto vicini a livello geografico estetico.
Per esempio il romanticismo universale di Bach, molto distante a livello temporale reale dal romanticismo ottocentesco, come riconosciuto nella storia della musica, è però vicino per taluni aspetti a quella dimensione estetica, mentre per altri aspetti ne è lontanissimo.
La quadridimensionalità della geografia estetica (ossia una geografia estetica che unisce insieme i concetti di spazio e tempo) riflette peraltro un’analoga quadridimensionalità del mondo reale, ad oggi misconosciuta (spazio e tempo non sono in effetti due dimensioni separate come molti ritengono, ma bensì un’unica dimensione: lontano nello spazio è anche lontano nel tempo e vicino nello spazio è anche vicino nel tempo, e viceversa, come Borges ci ha insegnato).
Esistono naturalmente dei criteri di lettura diacronici, tali da identificare delle “porte” tra gruppi di autori di epoche (affettive) diverse. Ciascuna porta apre su regioni affettive dove si collocano più autori insieme, appartenenti ad un’epoca successiva (o precedente). Uso i termini “epoca” e “regione” in modo intercambiabile, come spiegato nel capoverso precedente.
Faccio l’esempio di una porta: il passaggio dalla Teoria degli affetti all’Empfindsamer Stil. (Gli autori più affascinanti sono quelli che stanno sulla soglia tra due ere-regioni affettive: penso a CPE Bach, ma anche a J. Quantz, solo per fare due esempi).
Se una tale geografia estetica è possibile, noi dovremmo poter definire ciascun autore (o periodo nella produzione di un autore, o brano all’interno della produzione di ciascun autore) in termini di connotazione (regionale-estetica).
Un esempio di connotazione regionale-estetica è: sonata in sol minore per violino e cembalo di CPE Bach (o BWV 1020 di J.S.Bach) = (uguale a) dialogo familiare.

24) Trii con pianoforte

Devo tirare le orecchie a D.E.U.M.M. che dedica sterminate pagine alle più lontane perle dell’etnomusicologia e poi al genere Trio dedica poco più di un trafiletto.
Siamo d’accordo sul fatto che sia il genere romantico (uno dei generi romantici) par excellence.
Sulla funzione romantizzante del violoncello (spesso accompagnante il pianoforte) già abbiamo detto. Aggiungiamo che l’inserimento del violino rende il dialogo tra strumenti diversi così colloquiale e appassionato allo stesso tempo, da stemperare senz’altro quel tanto di brutalità e noia che a volte, dopo molte ore di ascolto continuato, il pianoforte ci riserva, rendendone la parte (spesso la sua parte è quella principale) viva e vitale.
Gli esempi del genere sono sterminati. Qui ricordo il trio elegiaco di Rachmaninov (il primo della serie, in particolare) e il trio di Ciaikovsky.
Entrambi aprono con un tema articolato, nostalgico, appassionato, carico di un afflato esaltante: di una bellezza assoluta (languore).
Il difficile viene con la parte centrale (o sviluppo, se vogliamo chiamarlo così) come per tutti i romantici che volevano andare oltre la forma (classica) ed esprimere il contenuto (il sentimento), non sempre riuscendo a concepire che non vi è contenuto senza forma (e viceversa, ovviamente).
Il primo (Rachmaninov) riesce a tenere quel meraviglioso afflato e tensione emotiva, pur non sempre con vette poetiche esaltanti in tutti i passaggi, per l’intera durata del brano, a costo di renderne la forma aggrovigliata e densa.
Al secondo citato (Ciaikovsky) non riesce secondo me l’impresa e la parte centrale diventa dispersiva, come se l’ispirazione dell’inizio non trovasse un seguito, forse perché il materiale tematico dell’incipit è fin troppo esteso e definito nella sua statura poetica, sicché, dopo di lui è difficile proseguire il discorso, come dopo la parola di un grande oratore.
A proposito dell’ultima riflessione di cui sopra, non meraviglia il fatto che – per un’inevitabile complementarità formale – gli sviluppi di Beethoven fossero estremamente convincenti, articolati e incisivi, proprio in virtù del fatto che il materiale tematico dell’inizio era scarno ed essenziale.

25) La sonata per viola di Brahms

Oltre al trio con pianoforte, anche la sonata per uno strumento e pianoforte può annoverarsi tra i generi romantici par excellence.
Tra le migliaia di composizioni del genere, cito – più o meno a casaccio – due capolavori che per il loro tenore affettivo (mi riferisco sempre in special modo al primo movimento che in qualche modo è secondo me la testa dell’ispirazione) hanno un afflato romantico commovente (e mille altri aggettivi qualificativi per i quali occorre essere poeti): la sonata per viola e pianoforte di Brahms e la sonata per violino di Franck.
Il registro tendente al medio e il colore brunastro del suono dello strumento solista prescelto (la viola), nella prima sonata citata, fanno di quest’opera qualcosa di speciale.
La meravigliosa ispirazione formale (accanto ad un corposo ed armonicamente aggrovigliato accompagnamento del pianoforte) sta nel tema con gli intervalli di settima discendente (come anche in Schumann, gli intervalli di settima discendente sono una meraviglia dell’ispirazione romantica).
Credo che uno degli aspetti tipici dei temi, nelle sonate e negli altri generi utilizzati dai romantici e già utilizzati prima di loro dai classici (in primis le sinfonie) sia l’utilizzo degli intervalli di settima discendente.
Nella connotazione da me inventata in 23), chiamerei i temi che presentano tale intervallo in molti modi che richiamano un aspetto del ricordo, nostalgico eppure ancora vivo (per esempio, del sentimento amoroso perduto, ma non soltanto, forse una sorta di lutto vivo, tanto per darci agli ossimori).
L’altra sonata citata, quella di Franck (di cui esiste un’incisione alquanto passionale anche per flauto e pianoforte con la Argherich e James Galway), è connotabile come segue: il risveglio al mattino di una coppia di amanti, tra tende bianche e cielo terso. La coppia di amanti è rappresentabile come i due strumenti coinvolti nella sonata.
Lo stile languoroso di Franck, solitamente improntato al passato o tutt’al più al presente (come ad esempio nella sinfonia in re minore) pare qui costituire invece un’apertura al futuro.
Per apertura al futuro intendo l’immagine mattutina che ho citato sopra, suscitata dall’incipit della sonata, con il meraviglioso tema del violino.

26) Boulez e il ‘900 sono morti?

Con il suo articolo “Schoenberg è morto!”, il grande Pierre Boulez, scomparso l’altro ieri, accusava il padre della musica contemporanea di non essersi spinto fin dove avrebbe dovuto nella rottura con il vecchio sistema musicale.
In un certo senso lo rimproverava di usare, e non fino in fondo, un linguaggio nuovo con l’unico obiettivo di riproporre in forma mascherata stilemi, temi e contenuti dei classico-romantici.
In una versione estrema, la tesi di Boulez, anzi il motivo del suo rimprovero a Schoenberg era di non essersi liberato della concezione romantica della musica come espressione del sentimento, anziché aderire all’ideale (bouleziano) della musica come ricerca e strumento di conoscenza del nuovo (musica come sperimentazione).
In effetti, si potrebbe anche descrivere l'incipit della musica contemporanea, con l'atonalità e la dodecafonia, come l'invenzione di un codice segreto fatto di suoni che a tutta prima è difficile capire e messo lì a protezione sia del nucleo romantico della musica, sia della più alta espressione della dignità dell'uomo e della sua libertà.
Alla fine di tutta la tonalità, quando il cromatismo divenne ipertrofico ("quando tutto ormai era divenuto insopportabile" per citare l'inizio del racconto di Kafka intitolato "Essere infelici"), quando cioè la melodia si prestò al sentimentalismo prima e poi all'ideologia totalitaria, quello atonale e poi dodecafonico fu un linguaggio che protesse l'uomo, la sua dignità e la sua libertà.
Perciò fu identificato dal regime nazista come linguaggio degenerato, in quanto non si prestava ad essere strumentalizzato dall'ideologia trionfalistica o sentimentalistica (che è lo stesso) di regime.
Ora, il novecento incarnato da Boulez (con il Bartok da lui diretto, per esempio, ma non solo) è il ‘900 delle fabbriche, dell’acciaio, della freddezza post-atomica, della rimozione del romantico come adesione ad uno sperimentalismo estremo, nella convinzione che fosse partito proprio dal romanticismo il germe della guerra.
Vero o possibile? Ed ora, possiamo dire che il ‘900 così inteso (in termini bouleziani, anti-schoenbergiani ed anti-romantici) è morto? E che siamo agli albori di un nuovo romanticismo?

27) La cavatina di Barbarina

Come tutte le cose universali che sono anche molto piccole, la cavatina di Barbarina risponde al concetto di perfezione di Galileo: nel piccolo può esservi perfezione universale assoluta.
Nel piccolo, che tale deve restare: bene Muti, quindi e male tutti coloro che ne dilatano l’andamento a dismisura, facendone una sorta di sbrodolata melodrammatica incongruente rispetto alle dimensioni ed al tipo di brano (ché di cavatina trattasi, non di aria, e di Barbarina, l’umile servetta, non della Regina della notte).

28) La necessità del secondo concerto per pianoforte di Rachmaninov

Eccoci al cuore della produzione di un autore, del pianoforte e della musica romantica. Centrale.
Bellissima l’edizione con Ashkenazy al piano e Previn sul podio (esprime, ed esprime, ed è espressivo, espressivo e per esserlo strascica tutti i suoni, li plasma e li dilata, li dilata).
Connotazione (forse anche in virtù dell’immagine di Quando la moglie è in vacanza): umidità, acqua, vento, mare, porto, città di mare, tempo piovoso, pioggia.
(la connotazione del paragrafo 23 non è però, né una mera traduzione in immagini di impressioni che si hanno all’ascolto della musica, né tanto meno un adattamento musicologico della tecnica freudiana delle libere associazioni).

29) Il probabile motivo dell’insuccesso di pubblico delle sinfonie di Rachmaninoff rispetto ai suoi concerti per pianoforte

Nelle sinfonie Rachmaninoff dà voce alla sua anima più complicata, anziché, come nei concerti, dare espressione ai sentimenti tramite melodie orecchiabili.

30) L’importanza della musica da camera

Si tratta di un genere tanto importante nel Barocco, quanto nel Romanticismo (forse maggiore importanza ha la sinfonia nel periodo classico). E’ alla base della musica strumentale.
Tutta la musica che non si basa su grandi complessi e che si può suonare ed ascoltare in una camera incarna l’ideale della musica intima, in cui le emozioni espresse corrispondono a qualcosa di celato con pudore, in quanto molto importante per il singolo individuo.
In tal senso la musica da camera richiama il nucleo familiare e rappresenta il cuore della cultura e della bellezza.
Dal punto di vista tecnico ed estetico, la sua espressività non si basa sul contrasto tra piano e forte.
Non rappresenta la battaglia tra bene e male di cui alla dialettica hegeliana che pure informa di sé la forma sonata, ma bensì sul dialogo familiare che è proprio dello stile galante maturo.
Tale è la “connotazione” prevalente da dare al genere della musica da camera, nell’accezione della parola “connotazione” ideata e presentata al paragrafo 23 (v. supra).

31) Due parole sulla musica sinfonica di Rachmaninov

Si inscrive nel solco della linea Bruckner, Mahler, Richard Strauss, ma manca una chiara idea del climax.
Né vi è la concezione visionaria di Scriabin.
E’ come un grande organismo cui manca un poco di energia di fondo.
Notevole la negazione della vena melodica che invece l’Autore lascia così libera di esprimersi nei concerti per pianoforte.
Gli è che il sinfonismo di Beethoven ha condizionato psicologicamente tutti gli autori successivi, con la sua perfezione quadrata, portandoli a cimentarsi in modo forzato e inutilmente complicato con il genere sinfonico, anche nel caso di forme apparentemente lontane dalla sinfonia classica, come il poema sinfonico.

32) Il tema del primo movimento del concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff e di quello di Ciaikovsky

I temi dei primi movimenti dei due più famosi concerti per pianoforte dei due Autori hanno in comune lo schema ritmico del tema principale e in certo grado anche la radice melodica del tema stesso.
Quello di Ciaikovsky si presenta più luminoso, ma la linea melodica è talmente estesa da divenire parossistica.
Quello di Rachmaninov è più ombroso, ma nel prosieguo la linea melodica diviene sontuosa.
Credo siano – a livello di connotazione poetica – nella stessa regione sentimentale, o comunque in due regioni assai contigue.

33) Bastien und Bastienne di Mozart e l’Eroica di Beethoven

Non so se sia più interessante la teoria della copiatura o quella della coincidenza.
Quella della coincidenza fa pensare ad uno scenario del tipo un’astronave di alieni che atterra nel ‘700 e sparge motivi e melodie fertili che i compositori recepiscono ognuno a suo modo e vi compongono grandi capolavori.
La teoria della copiatura implicherebbe che in un incontro tra Mozart e Beethoven, magari Mozart stesse fischiettando il motivo dell’opera e Beethoven, captatolo, decidesse di farne il motivo del primo movimento della sua terza sinfonia.
Sta di fatto che io che conoscevo ed ho così amato il motivo dell’Eroica, appena ho sentito il motivo dell’ouverture di Bastien und Bastienne sono rimasto senza fiato dallo sgomento e dalla gioia perché credo che, in un modo o nell’altro, sia una splendida coincidenza.

34) Monna Vanna di Rachmaninov

Chiarisco che per connotazioni ai sensi del paragrafo 23), intendo topoi, luoghi della geografia estetica musicale.
A differenza delle nebulose, molto sfumate e a tratti sonnacchiose opere sacre per coro di Rachmaninov, l’incipit di Monna Vanna è fulminante e anche il prosieguo, in una forma di canto che mi ricorda il semi-recitativo declamato.
Qui la connotazione, o il topos, è la brughiera, o meglio: la corsa nella notte in una strada costeggiata dalla brughiera o all’interno della brughiera stessa.
Questo topos fa parte della situazione tipica del romanticismo di allontanamento dalla villa (o dalla città) e dell’addentrarsi progressivo, di sera e di notte, nella natura, nella brughiera o nel bosco: in questo caso nella brughiera (che implica una maggiore apertura e mobilità del cielo sopra di sé, non coperto da fronde, un tono generale più arioso, ma non meno misterioso e oscuro di quello della selva).

35) Il quintetto in sol minore di Mozart

Bisognerebbe lasciare la pagina bianca.
Potrei dire che quell’affaccendarsi e quell’andirivieni non sono che il contenitore esteriore di un contenuto molto più intimo che riguarda il dialogo familiare, analogamente alla sonata per violino e clavicembalo in sol minore di CPE Bach.
La cosa impressionante di questo quintetto (mi riferisco in particolare al primo movimento che, come sempre, mi sembra la “testa” dell’ispirazione) è la sua frenesia inarrestabile e interminabile.
Una sorta di moto perpetuo del sentimento di “cura”, nell'accezione heideggeriana del termine.
La perfezione sta inoltre in tutte le parti della forma sonata: l’esposizione mozzafiato, lo sviluppo e la coda.
Tutto è massimamente concentrato, come un tessuto dalla trama fittissima. Come connotazione, o topos, potrei dire una carrozza in partenza e qualcuno che non sa se partire o non partire.

36) La Argerich nel secondo di Rachmaninov

La luce del sole nei campi dell’andante spianato di Chopin pare brillare di meno, nell’incipit argherichiano di questo concerto.
E’ come se lei in Chopin avesse scoperto una regione nuova, a mio avviso, che non ritrova qui, ragione per la quale qui esercita una “normalità” della perfezione cui non si aggiungono l’ispirazione e l’intenzionalità espressiva colà presenti.
Con ciò naturalmente, non ne è una brutta edizione: ma allora, qui, preferisco Ashkenazy.

37) Porfido

Occorre arrivare alle regioni del porfido, dov’era il pomeriggio (la sera le vetrine). Forse ci arriveremo nel secondo movimento del concerto per flauto e archi in sol maggiore di Giovanni Battista Pergolesi.

38) Il canone estetico della dolcezza

Vivaldi, come Bach, Mozart e pochi altri, incarna tale ideale estetico, che nella sua declinazione tecnico-pratica implica – tra l’altro – il fatto di non utilizzare lo strumento espressivo e retorico-stilistico del contrasto tra il piano e il forte (pur con alcune illustri eccezioni come Le quattro stagioni).
Ciò corrisponde a quell’ideale contemplativo, a-dialettico (cui Glenn Gould dedicò numerose riflessioni, nonché le sue preferenze estetiche) che è tipico del Barocco, ma non solo e che non sostiene, a differenza di Beethoven e del beethovenismo, l’immagine dell’arte (e dell’arte in quanto rappresentante della storia umana) quale conflitto tra opposti, come problema fondamentale da risolvere.

39) Estetica regionale

Se l’estetica regionale ha un senso, allora le immagini, le sensazioni, i vissuti che accompagnano la musica non sono mere e soggettive fantasie, o processi psicologici privati che si instaurano a posteriori nel singolo soggetto all’ascolto, ma sono altrettante regioni di un mondo parallelo disvelato dai frammenti (i vari brani) di quell’unico brano musicale costituito da tutta la musica composta in tutti i tempi.
Pertanto, all’ascolto di ogni brano, viene svelata una regione, fino a che, ascoltata tutta la musica esistente, sarà possibile mappare l’intero mondo parallelo, istituendo collegamenti fra tutte le regioni estetiche toccate.
Ogni brano è una porta di accesso a una regione estetica, o meglio ne è un rappresentante.

40) L’inizio della Patetica

Qui è lo stagno.
Una regione remota della natura, dove è andato a nascondersi chi, quasi morto, ha attraversato il momento peggiore della disperazione.
Anche se non può dirsi un risveglio, ma casomai il sogno di un risveglio (simmetricamente all’incipt della Fantastique, vi è certamente un presagio dell’incredibile primo tema (il risveglio reale, bianco tanto quanto questo inizio invece è scuro).

41) Bruckner

La connotazione (o rappresentanza regionale) è qui la natura.
A differenza che nella musica di Mahler, in cui essa fa da contraltare ad una condizione umana disperata, la natura in Bruckner campeggia solitaria e ciò che vi viene espresso è la vita stessa della natura al suo interno.
Un bosco popolato casomai da animali e forze magiche e misteriose, ma in cui l’uomo non ha ancora messo piede.
Essa rappresenta il fascino e il mistero della natura profonda e segreta, incontaminata.
E tranquilla.

42) L’adagio della seconda di Schumann

Qui si rivela la natura profonda del romanticismo schumanniano, siamo in un cortile con ghiaietta bianca fuori dalla villa, in un pomeriggio nebbioso.
L’intera produzione sinfonica schumanniana può dirsi un incessante avvicendarsi dentro e fuori dalla villa, di giorno e di notte.
L’uomo sente il richiamo della natura, potente, ma è incatenato alla civiltà che pure ama.
In particolare questo adagio, con i suoi intervalli di settima discendente, è un'apoteosi nostalgica dell’espressione amorosa.
La rappresentanza regionale è la ghiaia fuori dalla villa.

43) Schumann

In Schumann vi sono vie argentee costellate di vetrine di negozi illuminati.
Si badi che questa rappresentanza regionale non è un anacronismo.
Noi attraverso la rappresentanza regionale non scopriamo luoghi fisici che furono allora, ma luoghi estetici che sono.
Ciò significa che io non devo ritradurre le immagini delle rappresentanze regionali: esse sono.
E questa non è neanche metafisica (né ipostatizzazione) dell’estetica: è la risonanza del mondo parallelo.

44) L’importanza della coda

Come un cambio di scena improvviso o un attore che irrompe improvvisamente sulla scena alla fine d un atto, la coda riveste un’importanza fondamentale in ogni brano.
Essa non solo ricapitola e conclude la vicenda, ma ne dà un significato a posteriori, diverso da quello presunto e ne determina il significato profondo, per quanto inaspettato.
La rilevanza filosofica della coda sta nel fatto che il significato è diverso dalle apparenze.
Vi sono migliaia di esempi: su tutti, a me piace ricordare la coda del primo movimento del concerto per piano di Schumann, che ci parla di chi vive su di un’impalcatura piena di luce (e non sto pensando al finale di Amerika di Franz Kafka).

45) La coda stretta

Nell’irruzione sulla scena finale della coda, spesso grande ruolo gioca il cambio di ritmo, nuovo e diverso.
Nel caso in cui questo si accompagni ad un andamento più veloce si ha la cosiddetta stretta, che secondo me è la coda par excellence.
Ne è un esempio famoso il finale del primo movimento della Quarta di Ciaikovsky, forse una delle più belle code mai scritte, che riassume il senso del destino imminente che grava su tutto il brano e che trova il suo compimento in questo finale, così inaspettato eppure così atteso.
Qui la tragicità chiude ogni prospettiva proprio quando si sperava di avercela fatta, con una melodia, quella della coda appunto, che si presenta prima come nuova e dolce, poi invece si rovescia nella sua versione accelerata e improvvisa, con la memorabile chiusa della nota finale che si abbatte addosso all’ascoltatore.

46) La sonata per violino n. 1 di Schumann

Come per la sonata per viola di Brahms, qui siamo all’apoteosi del mitico.
Il mitico si esprime nel romanticismo e nella musica da camera e stiamo attraversando quel filone.
Non esistono modi migliori o mezze misure: siamo alla radice dell’espressione del sentimento.

47) Ispirazione

Come la trasmissione di un contagio, l’ispirazione tocca vari capi i quali traducono in musica una medesima regione estetica.
Ciò si vede molto bene nel “passaggio di mano” della medesima ispirazione romantico cameristica nelle sonate per viola di Brahms e per violino in la minore di Schumann (solo per fare un esempio).
Un episodio di Star Trek serie classica ipotizza che un alieno immortale abbia lungo la sua vita millenaria incarnato vari geni dell’arte e della musica: ritengo l’ipotesi, in un certo senso, plausibile sulla base dell’evidenza fenomenologica della trasversalità interpersonale dell’”entità-ispirazione”.

48) Epopea fragile

La fragile epopea schumanniana, come anche nella prima sonata per pianoforte, è quella di chi tenta di risollevarsi e viene rovesciato dal destino.
Anche nella Kreisleriana notiamo degli aneliti incompiuti.
Il brulichio vitale però non s’interrompe ed il fanciullo porta a termine una grande impresa: è il romanticismo statu nascenti.

49) Humoresque

Qui, come in Kreisleriana, Schumann giunge all’apice, al cuore della sua musica.
Ashkenazy suona questi brani (in ispecie, ma non solo, il brano con l’indicazione “Semplice e delicata”) con una semplicità dolente e diretta.
E’ una coincidenza: trovarsi sulla porta di accesso alla regione estetica e potervi entrare direttamente.
Non si ripete la magia con altri esecutori.

50) Franck

Non mi curo delle alterne fortune della Sinfonia in re minore.
Essa è meravigliosamente composta in forma ciclica, il che è un tratto comune al Mahler sinfonista e al Wagner autore di melodrammi (i famosi leitmotiv).
I temi di Franck però non nascono, vivono, godono, soffrono, invecchiano e muoiono come i temi mahleriani e non hanno quella accentuata (e per certi versi eccessiva) valenza simbolica che hanno invece i temi wagneriani.
La regione estetica della sinfonia è – direi – gli anelli di Saturno.
E’ una musica che sorge da uno scrigno antico, ma che – a differenza della sua sonata per violino – guarda più al passato che al futuro ed ha un colore che invece che sul bianco, come la sonata per violino, dà sul giallo intenso.

51) Scene infantili e Album per la gioventù

E’ pur sempre urbano (attinente alla villa, intesa come rappresentanza estetico-regionale) l’anelito alla purezza e semplicità delle Scene infantili, come anche dell’Album per la gioventù.
Il nucleo dolente è invece in Humoresque e, in parte, in Kreisleriana, ed attiene all’allontanamento dalla città, verso il mistero della campagna di notte.
Se è vera la tesi, non stupisce il fatto che – come scrive Rattalino – Horowitz eccella nelle Scene infantili (tipicamente: Traumerei), in quanto virtuoso ed esponente di un nucleo estetico-regionale urbano (inerente alla città, o alla villa, altri direbbero “al salotto”), mentre Ashkenazy eccelle in Kreisleriana e Humoresque, in quanto virtuoso dalla dolente anima russa che anela alla natura della campagna di notte e al bosco.

52) Poetiche

Potremmo affermare che la poetica di Schumann è l’espressione della filosofia di Schelling sul contrasto/connubio (allontanamento e riunificazione) tra uomo e natura (villa e bosco, città e campagna, fuga dalla villa – pur tanto amata – verso la campagna, di sera e verso il bosco di notte), così come la poetica di Beethoven è l’espressione della filosofia di Schiller delle anime belle (coincidenza di passione e virtù, tale per cui le anime belle – appunto – agiscono virtuosamente per istinto).

53) Schumann e Chopin

Nella loro musica per piano, in ispecie quella solistica, vi è la dimensione – per entrambi – della villa, oltre a quella della campagna di sera e del bosco di notte.
Tale dimensione può essere detta “cameristica” senz’altro, quindi domestica.
A differenza però degli autori precedenti, dell’Empfindsamer Stil (stile galante maturo, pre-romanticismo, quindi Quantz, CPE Bach, Telemann e altri), per i quali il dialogo familiare era nell’androne di casa, o comunque affacciati sulla strada (dimensione familiare intima e sociale insieme, come quando a fine giornata si riepilogano con i propri cari le situazioni che sono fuori di casa), in Schumann e Chopin (nelle opere per piano solo), s’intravvede a volte il salotto.
La dimensione salottiera è quella di un isolamento casalingo che rischia a volte di sfociare nel dialogo compiaciuto con sé stessi, a volte più leggero e superficiale rispetto a quell’altro dialogo di cui sopra.

54) L’antidoto (e gli antipodi) di Schumann

Qual è l’opposto (in termini di rappresentanza estetico-regionale) della musica di Schumann?
L’espressione romantica del sentimento, in forma intimistica, diretta, semplice e interiore, trova il suo opposto in una musica che è sì romantica, ma in senso esteriore, esibito e non intimo, non semplice, ma perverso, non diretta, ma mediata da una recita di “burattini sanguinari” (parole del suo autore), non strumentale, ma vocale, non tedesca, ma italiana: la musica di Giacomo Puccini.
Diciamo pure, quella della sua opera più drammatica e intensamente melodica: Tosca. Gli antipodi di Schumann.

55) Il tocco di Pollini

Non c’è che dire: Pollini negli Etudes di Chopin raggiunge quell’apice dell’umanesimo segnalato dal grande Piero Rattalino.
E’ interessante notare che lo fa attraverso il tocco.
L’intimità, l’interiorità (non la remissività in termini esteriori) del suo tocco, gli fanno attraversare la porta (attraverso il brano stesso) e giungere dentro la regione estetica chopiniana.
Molto importante la coincidenza di brano e interprete per varcare la porta ed entrare nella regione estetica.
Per questo aveva torto Benedetto Croce a ritenere ininfluente il ruolo dell’interprete.
Come indicato molto bene anche, tra gli altri, da Michelangelo Zurletti, senza interprete la musica non esiste e la poetica di un brano si disvela attraverso l’interprete.

56) Intimismo organistico

Anche nella musica sacra per organo, Schumann segue la via intimistica.
Anziché esaltare la magnificenza dello strumento (o la lode ai cieli attraverso di esso), ne fa il rappresentante di un messaggio pastorale umile e schivo, in ciò in linea con la sua migliore produzione pianistica.
La melodia è una presenza in bassorilievo che rende molto particolare e gradevole un genere di musica per solito così austero.

57) Lieder

Con i lieder di Schumann siamo proprio entrati nella campagna (v. dualismo “villa illuminata-campagna di notte”) e sentiamo la voce del romanticismo originario.
La voce è quella del popolo, un popolo a sua volta originario, ancestrale.
Qui, come nei lieder di Schubert, siamo nel cuore del romanticismo musicale, direi non solo del romanticismo intimistico, ma (proprio in quanto intimistico) di quello universale, intendendo con ciò un’essenza archetipica e astorica.
Nella campagna abita il contadino nel quale si è trasformato l’uomo fuggito dalla villa illuminata di sera. O meglio: ha sempre abitato lì.

58) Boscaiolo

La rappresentanza dell’essenza romantica dell’eroe contadino boscaiolo in cui la musica di Schumann consiste è disvelata attraverso il sentire fenomenologico.
(Come la dodecafonia di Schoenberg, come il complicato linguaggio di Heidegger, anche noi creiamo un linguaggio sistematico per proteggere un cuore fragile).
La poetica schumanniana rivelata nei lieder ha anche una sua traduzione filosofica nel binomio uomo-natura di Schelling, cui siamo giunti anche noi col nostro pensare sentito, attraverso la citazione della rappresentanza villa-illuminata (città, androne, camera da letto, salotto) e fuga di sera lungo il ciglio della strada che costeggia la campagna, di poi nella campagna, di poi nel bosco di notte, fino a trovarvi dimora, anzi scoprendo che si era già stati (da sempre) contadino e boscaiolo abitanti nel bosco.

59) Altri personaggi

Possiamo immaginare che nello stesso bosco del contadino di Schumann, poco distante, abiti quello di Schubert.
Anche quello del Das Lied Von der Erde di Gustav Mahler (e dei lieder Eines Farenden Gesellen), con la differenza che quello di Mahler è un contadino più disperato.
In Das Klagende Lied, lied giovanile mahleriano, si ha invece una veduta aerea del castello, si è ancora in una dimensione mitica, epica, eroica e come tale più gotica che romantica.

60) Tende

La musica corale di Schumann ha come rappresentanza estetica fasci di luce paralleli tra loro e perpendicolari al terreno, o altrimenti tende bianche.
Può essere anche luce che passa (proviene), unita e non franta, da un rosone o da un abbaino posto in alto.
Per tale motivo è una rappresentanza acquosa e mattutina.

61) Ouverture di Genoveva

Uno splendido inizio che richiama la Fantastique di Berlioz.
Non è possibile condensare qui né i richiami (molteplici), né tanto meno una disamina della Fantastique stessa (che verrà affrontata a parte, più oltre).
Basti ricordare qui la croce e delizia in generale delle ouvertures: spesso sono il miglior brano dell’opera lirica di cui fanno parte, ma scorporate dall’opera stessa non sembrano altrettanto significative, forse proprio perché la loro forza sta nella valenza allusiva di una vicenda, nel prefigurarne premesse, personaggi, sviluppo e finale.

62) Filosofia Fantastica

La Fantastique rappresenta un unicum filosofico nella storia della musica.
Le melodie romantiche sono in realtà una parodia grottesca e deformante della melodia amorosa.
Non un espressionismo ante litteram, ma pur sempre un romanticismo allucinato.
E’ l’allucinosi data dal sonnifero a determinare un sonno ipnotico, tale per cui il romanticismo – rappresentato dalle melodie - ne risulta deformato.

63) Mahler e Proust

Come in Proust, la musica di Mahler porta alla ribalta un io passato, incompatibile con l’io presente e quindi determinante un salto di coscienza, a differenza che nella memoria involontaria di Bergson, in cui la durata reale – il flusso di coscienza di James – non viene interrotta dal sopraggiungere del ricordo, pur pervasivo e involontario.
In Mahler si ha una discontinuità di stati dell’io, in quanto gli stessi temi (parenti dei leitmotiv wagneriani), quando si ripresentano, risultano inaspettatamente modificati.
Come se non fossero più loro: una persona dallo stesso aspetto e dalla personalità completamente diversa.

64) Debussy e la musica del presente

Nella regione più lontana da Beethoven (Jankelevitch dirà: “musica per avvocati”, ossia coloro che quando parlano lo fanno per dimostrare qualcosa), vi è la musica di Debussy, incentrata sul presente.
I suoni nascono e muoiono come le onde del mare o gli zampilli di una fontana colorata.
Il colore infatti vi è parte integrante e forse, come sosteneva Boulez, si tratta di un fertile contraltare alla forma sonata.

65) Le sonate per violino di CPE Bach

Sorpresa e divertimento nella forma, cui si aggiungono gli affetti nel dialogo.
Come si disse: dialogo familiare, con cambiamenti di tono (modulazioni) dovuti non al capriccio, ma al fatto che nella più accesa discussione compare all’improvviso il tono affettivo, come un sostrato sostanziale che emerge a dispetto della dialettica del momento.
Dialogo familiare che non manca mai di stupire, dunque, per la sua affettività.

66) Vincenti e perdenti

Gustav Mahler rappresenta i travolti dal corso del mondo.
Usando lo stesso linguaggio, il suo contemporaneo Richard Strauss esalta la vitalità del mondo.
Il linguaggio comune è quello dell’ipercromatismo wagneriano, dell’allontanamento estremo dal centro tonale.
Gli esiti sono per molti versi contrapposti: la vincente volontà di potenza nietzschiana da un lato, il dolente abbraccio ai dimenticati dal mondo dall’altro (Quirino Principe docet).

67) Nietzsche

Quando si parla d Nietzsche per Richard Strauss, ci si riferisce al suo Così parlò Zarathustra, e ben a ragione.
Non bisogna però dimenticare l’Alexander Scrjabin del Poeme de l’extase.
Il finale (del primo brano, nel primo caso e dell’intero brano, nel secondo caso) esprime una nietzschiana volontà di potenza.
Occorre precisare che la volontà di potenza in musica è un sentirsi bene ed esprimere appieno la propria vitalità e uno spirito d’avventura proprio degli esploratori e non dei conquistatori: aldilà di qualsiasi strumentalizzazione politica (nel senso della prevaricazione nazista) del pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche.

68) Né sublimazione, né sovrastruttura

E’ quanto ho sempre sostenuto ed affermo con forza per l’arte in generale e in particolare per la musica.
Sebbene Freud e Marx abbiano inteso in tal senso l’arte, io ritengo che essa costituisca una sfera autonoma, sia rispetto alle istanze pulsionali e alle dinamiche intrapsichiche e interpersonali, sia rispetto ad una visione del mondo che mette al centro l’aspetto economico e produttivo quali motori (struttura) della società, della storia e della politica.
E’ invece un mondo a sé, né subordinato, né superiore (come nella metafisica), ma direi invece parallelo, nel senso che tutti i brani di tutte le musiche del mondo costituiscono le rappresentanze regionali di un universo estetico parallelo al nostro, analogo al nostro ed infinitamente sublime.

69) Notte di Natale

Vi sono varie rappresentanze estetiche regionali della notte di Natale.
Una delle più significative mi sembra il movimento in 5/4 della Patetica di Tchaikovsky.
Credo che si tratti di una bicicletta che scende da un pendio innevato verso il paese illuminato di sera.
Ovviamente questo fa il pari con l’incipit della Sinfonia, che è situato in uno stagno dimenticato (cupo risveglio dopo un incidente quasi mortale).

70) Una frase, una storia

Il terzo movimento del secondo concerto per pianoforte di Brahms non si apre con una frase del violoncello: è quella frase.
Quella frase è una storia di senso compiuto.
La sezione centrale dell’A-B-A serve solo a preparare il ritorno della frase in funzione di ricordo della storia.

71) Beethoven e il classico ideologico

In Beethoven non c’è solo l’amore per l’equilibrio formale e la naturalezza della simmetria: vi è anche l’intenzione (nel senso di “intenzionalità” di Franz Brentano) di tali elementi.
La simmetria, prima sparsa (esposizione) e poi riagguantata con forza (sviluppo e ripresa) assumono in Beethoven la valenza di architrave ideologica della perfezione quadrata come espressione della moralità e bellezza insieme, secondo un ideale schilleriano (le anime belle, virtuose per istinto).
Ciò è evidente nelle Sinfonie, ma anche nei quartetti e in Fidelio (nella trama, specificamente, e nelle ouvertures), mentre nelle sonate prevale un approccio di esplorazione affettiva, maggiormente orientato alla fantasia e svincolato dalla regola.

72) Rameau

Rameau costituisce una regione estetica tra le più pure e inesplorate che esistano.
Sono banchi di nebbia su promontori isolati ad elevate altitudini.
E’ tra le più gradevoli (rimando qui alla distinzione kantiana tra bello e piacevole senza che però una dimensione escluda l’altra, come in Kant, ma bensì concependole come variabili indipendenti, per cui la musica di Rameau è anche bella, oltreché gradevole).

73) Attitudine purificatrice

La musica strumentale possiede un'attitudine purificatrice.
Ciò non implica affatto che quella vocale non la possieda, ma che gli elementi (variabili) dominabili nella musica strumentale sono inferiori a quella vocale (meno inflessioni espressive) e pertanto risultano minori anche le combinazioni in grado di adulterare l’intenzionalità del compositore.
Sul perché ritengo quest’ultima coincidente con il fulcro della bellezza dell’opera (in contrasto con la concezione di “opera aperta” di Eco) dirò più oltre.

74) Paradosso

Quanto sopra può sembrare un paradosso, magari sinistramente ascetico, che cioè quanto più vi è potenza di mezzi espressivi, tanto più vi sarebbe il rischio di un inquinamento della purezza dell’idea, quasi che il fattore umano, anziché cuore dell’espressività, fornisse un ostacolo alla stessa.
Ma paradosso non v’è, in quanto si tratta di rischi reali dovuti alla oggettiva rarità del grande interprete.
Si pensi già solo al vibrato: quello a pecorella è tristemente frequente nei cantanti, mentre è impossibile anche per il peggiore dei pianisti.

75) La furtiva lagrima

Ho sempre la tentazione di cantarla (o suonarla nella mia testa) scandendo tranquillamente e nettamente il ritmo (alla maniera di Glenn Gould che odiava il rubato).
Poi mi rendo conto che grandi interpreti (soprattutto nel canto, su tutti Carreras) utilizzano una sorta di rubato a prescindere, perché dall’agogica e dal ritmo trasferiscono l’attenzione alla voce (voce – per loro, idealmente – senza tempo).
Io credo si possa rivelare l’anima più nobile di questo brano (ma di tutta la musica vocale, potenzialmente) rispettando i solchi ritmici e non impedendo, in quei confini, alla voce di espandersi.
Per me però, in buona sostanza, non dovrebbe darsi, idealmente, alcuno scarto stilistico ed esecutivo tra la voce del fagotto che intona per primo la melodia e quella del tenore che la richiama.
Sì, in fondo vorrei un canto interiore e muto. No, non credo piacerebbe ai cantanti.

76) I quartetti dello Sturm und drang di Haydn

Possiamo definire l’Op. 9, 17 e 20 come l’apoteosi dell’Empfindsamer Still e soprattutto dello Sturm und drang in musica.
Il ritmo incalzante e il brano di un’espressività tesa e drammatica ne caratterizzano lo stile (altrove Haydn sarà – pur sempre nei quartetti – apollineo).
La rappresentanza regionale è un viale alberato (lastricato di foglie, d’autunno). A sua volta tale rappresentanza costituisce una porta ulteriore, che immette nella giovinezza.

77) Rameau e l’armonia

Autore di musica aulica, raffinata e celestiale, Rameau considerava l’armonia il fulcro del comporre, e la melodia secondaria a questa.
Ciò a conferma del fatto che ciascun compositore ha bisogno di trovare un suo diktat interiore, o codice di ispirazione, per comporre capolavori (cioè un proprio stile e una motivazione alla ricerca stilistica): tale fu il caso – per esempio – di Beethoven con la forma sonata e di Schoenberg (e più ancora di lui, il suo allievo Webern) con la dodecafonia.
Si ha bisogno di teorie che ci sostengano nel nostro operato, anche se le sappiamo non vere fino in fondo, come affermava il grande Glenn Gould.

78) Fenomenologia

Gli studi fenomenologici sulla musica rischiano di rischiarare solo il dato fenomenico.
Se si parla di suono, (come giunge il suono, la corposità del suono, ecc..), si sta trattando di dati fenomenici.
Non certo perché – secondo la prospettiva fenomenologica – si dovrebbe mettere in luce solo l’aspetto (pur certamente presente) immateriale, metafisico della musica, ma perché tutti i dati inerenti al suono nella sua corposità, distanza, colore e financo forma – con i conseguenti ragionamenti che si possono fare e vanno fatti – assumono una valenza meramente fenomenica, anziché fenomenologica, se non vengono agganciati ad una prospettiva estetologica.
E quest’ultima riguarda sempre l’autore e gli interpreti, in una doppia prospettiva per la quale i secondi restituiscono sempre una versione del primo, che da solo non si dà (l’interprete restituisce una versione di un originale che non esiste, senza l’interprete stesso).
Tutto ciò non implica peraltro l’accettazione della concezione di opera d’arte aperta di Umberto Eco (con l’interprete che co-costruirebbe o creerebbe ex novo l’opera), in quanto l’interpretazione è sempre l’atto del mettersi in relazione con una versione ideale in cui intenzione dell’opera e intenzione dell’interprete coincidono (giacché è l’intenzione dell’opera che l’interprete cerca di ricreare dandone una sua versione, non già direttamente l’intenzione dell’autore la quale invece svanisce nel momento in cui, da una vaga ispirazione, egli passa alla composizione di quella musica che l’interprete andrà a interpretare).
E qui vengo al segno sulla carta che identifica quella musica.
La musica non sta nella tradizione orale (non scritta) e non perché il segno scritto (che è senz’altro significante) debba prevalere sul significato (né tanto meno costituisca significato esso stesso), ma perché quella musica sta in una regione estetica ben precisa, di cui il segno sulla carta è la porta di accesso, e ad altro segno corrisponde una porta di accesso ad un’altra regione, che potrà essere limitrofa, ma è differente dalla prima.
Senza segno, non si dà accesso ad alcuna regione estetica (ed è ciò che accade precisamente nell’improvvisazione).

79) Mendelssohn

Il primo movimento della prima sinfonia, nell’interpretazione di Abbado e della London Symphony degli anni ’80 del XX secolo è un caso esemplare di ingresso nella porta.
Quando si verifica il passaggio attraverso la porta, risulta impossibile distinguere – dell’interpretazione - i punti di forza (se la scansione del ritmo, o il fraseggio o l’andamento) da quelli di debolezza (che non appaiono), (né l'esecutore dall'autore come amava ricordare Bernstein delle proprie migliori esecuzioni).
La rappresentanza regionale qui è la spuma, le onde del mare che s’infrangono sugli scogli.

80) Il criterio dell’aderenza

Ho fatto cenno più volte all’interprete che riesce a oltrepassare la porta, entra nel mondo parallelo e coglie perfettamente la rappresentanza estetica di quel mondo parallelo, indicata dal compositore con la sua opera.
Come può fare ciò? Lo può fare grazie al criterio dell’aderenza.
Presupposto di tale criterio è l’asserzione che ogni interprete è portatore di un suo mondo parallelo, una sua poetica, un suo mondo interiore che costituisce la propria chiave di accesso privilegiata a una o più porzioni del mondo estetico parallelo (Bernstein: passione; Gould: ascetismo; Abbado, come suggerisce Zurletti: poetica e retorica mediata dall'approccio culturale; Celibidache: tagliente senso del minaccioso e del grottesco; Pollini, come afferma Rattalino: umanesimo, Michelangeli: sfumature minerali del suono; Mehta: ritmo selvaggio (pesante e ben scandito) e senso lirico leggerissimo,  ecc…).
Quando tale  mondo poetico parallelo, tale poetica, tale mondo interiore  dell’interprete, e pertanto la sua “chiave” interpretativa, coincide con il mondo poetico parallelo dell’opera, del brano, del tale passo (non già direttamente del compositore, ma di quella porzione di mondo parallelo espresso dal compositore in ogni dato passo di ogni sua composizione), l'interprete entra nella porta e accede al mondo parallelo (dà luogo cioè all'interpretazione “giusta”, che può durare anche solo una battuta, o – nei casi più fortunati - “centrare” l'intero brano).
Si verifica in tal modo anche la coincidenza – per quel brano, in quel momento – tra volontà del compositore e volontà dell'interprete, come suggeriva Bernstein.
In tal caso, interviene anche il fattore temporale estrinseco (quello del presente in cui sono immersi gli spettatori-ascoltatori), oltre a quello del brano, del mondo parallelo che viene “eseguito” nell'esecuzione-interpretazione.
In altre parole, tale coincidenza significa che in quel preciso momento si è entrati tutti nella porta (noi ascoltatori del presente e l'interprete insieme), quindi quel preciso momento (di quel concerto che stiamo ascoltando o cui stiamo assistendo) assume valenza mitica ed estetica esso stesso.
Si verifica cioè anche un incrocio e una coincidenza temporale tra l'estetica del brano e l'estetica del momento in cui il brano viene eseguito.
Ciò altro non è che il nunc stans di schopenaueriana memoria: l'istante diventa mitico e si dilata all'infinito, diventa eterno come nell'aspirazione faustiana (“fermati attimo, sei bello!”).

81) Il canto interiore

Geniale interprete del canto interiore – senza un’eccessiva differenza in termini di dinamica (volume del suono) della voce rispetto all’orchestra – è stato Dietrich Fischer-Dieskau.
Il cantante non deve prevalere in maniera fastidiosa sulla sonorità orchestrale, deve invece amalgamarvisi e dev’essere la sua voce ad adattarsi alla voce degli strumenti, invece del contrario, come fanno molti cantanti.
Dietrich Fischer-Dieskau lo sapeva e lo faceva naturalmente, come dimostrano le sue incisioni di pregio, basti citare Das Lied von der Erde di Mahler.

82) Ouvertures

E’ un fatto, da me già segnalato, che le ouvertures, prese a sé, poco hanno da dire, rispetto alla loro luminosità quando sono incastonate in capo all’opera di cui fanno parte.
E’ il caso, per esempio, del Flauto magico e del Don Giovanni.
Non mi pare si possa dire altrettanto del Matrimonio segreto che, caso alquanto isolato tra le ouvertures di Cimarosa, sembra avere valore a sé anche indipendentemente dalla bellissima opera che lo accompagna.
Né mi pare possa definirsi – quello di Cimarosa – uno stile di estrazione marcatamente mozartiana. Vi è in più, rispetto al salisburghese, un gusto del ritmo che non è così lontano dall’universo poetico di Beethoven.

83) Sonate per tastiera di Cimarosa

Il ritmo, come dicevo sopra, ma anche le continue modulazioni rendono affascinanti questi brani di Cimarosa. In questo è molto vicino allo stile galante maturo dei suoi contemporanei tedeschi e si può dire che sia un rappresentante dell’Empfindsamer Stil italiano. Peccato che spesso i clavicembalisti e i fortepianisti facciano assurgere il rubato a teorema, nel più assoluto spregio della regolarità della scansione ritmica e della metrica.

84) Ancora sulle sonate di Cimarosa

Specialmente nei movimenti lenti delle ultime sonate per tastiera, la rappresentanza regionale è una porta finestra luminosa.
Dà su una strada assolata e affollata.
Dentro, la stanza è confortevole e tranquilla.
E’ da verificare se le rappresentanze regionali estetiche esperite a un’osservazione (e ad un ascolto) di tipo fenomenologico, possano coincidere in tutto o in parte con alcune condizioni fenomeniche in cui si trovava l’autore al momento della composizione.

85) Rameau Vs. Cimarosa

Rameau è statico, ieratico, solenne.
Cimarosa è dinamico, ritmico, brillante.
L’uno stupisce con la sua semplicità e solennità ricca di contenuti, l’altro con la sua verve, il suo umorismo e la sua irrefrenabile energia e fantasia (molte modulazioni, Empfindsamer Stil, ecc…).

86) Autunno

Tra le rappresentanze regionali dell’autunno si possono annoverare: i quartetti Op. 9 e 20 di Haydn, il Quintetto in sol minore di Mozart e, poco distante, il Presto in Do minore per piano solo di Beethoven.
Ciò significa che questi (e altri brani consimili) si trovano geograficamente vicini nella rappresentanza del mondo parallelo, nel senso che descrivono (esprimono) la stessa regione di quel mondo.
Si differenziano perché, ad esempio, di uno stesso viale alberato cosparso di foglie, un brano riprende uno scorcio, un altro brano ne riprende un altro (per esempio dal lato opposto), un altro brano ancora ne riprende un altro (per esempio verso il fondo del viale). Ma la persona che gira in quel viale è la medesima (vita nell’ambito regionale estetico).

87) Le sonate per flauto di Leclair

Memori della danza, ma brani svincolati dalla coreografia pura, non immemori del ritmo.
La loro rappresentanza è in un mattino dalla luce bianca (diverso però dall’incipit della sonata per violino di Franck, in quanto queste sono sul “già era”, mentre quella è sul “sarà”).
Radioso esempio di Barocco francese.

88) La musica strumentale barocca

La musica strumentale barocca, poiché non si basa sul contrasto tra piano e forte, è sicuramente sublime.
Per sublime s’intende una veduta dall’alto delle passioni umane, un sentimento d’elevatezza nella quotidianità.
E’ meglio quella strumentale di quella vocale perché maggiormente indefinita (e quindi – romanticamente parlando – infinita) e perché troppo spesso i cantanti esagerano l’escursione dinamica, seguendo per tutti i brani (ivi compresi quelli barocchi) un’impronta interpretativa di un romanticismo esteriore, anziché interiore (e che quindi è deteriore: è l’aspetto volgare del romanticismo interpretativo).

89) Hamburger Sonate di CPE Bach per flauto e clavicembalo

La rappresentanza regionale sono le cappelle di chiese e i tetti di case e monumenti storici, in un giorno assolato.
Tenerezza e malinconia, ma anche libertà ed aria aperta.
Uno dei capolavori della letteratura flautistica.

90) Barocco

Nel Barocco le passioni umane sono viste e descritte dall’alto.
Tale bidimensionalità costituisce il presupposto della passione contenuta in confini geometricamente definiti e – a livello tecnico-stilistico – giustifica l’assenza dell’eccesso di escursione dinamica quale strumento espressivo, come invece sarà nel Romanticismo musicale.
E’ per tali motivi (la visione dall’alto) che ho parlato di sublime riferendomi al Barocco, con ciò intendendo la contemplazione della natura nella sua immane grandezza da una certa distanza, giusta la definizione di Kant.

91) Serenità

Rispetto agli autori che preferisco (quelli di musica barocca e dello stile galante strumentali), che compongono con una gran varietà di modulazioni richiamanti gli affetti e che non disdegnano, anzi utilizzano a piene mani il modo minore, W.A. Mozart rappresenta piuttosto la regione estetica della serenità.
Da qui un uso molto moderato del modo minore (che però – quando utilizzato – gli fa dare alla luce capolavori assoluti come la sinfonia 40 o il quintetto in sol minore).
Il maggior rappresentante di tale regione estetica (della serenità) è il concerto per clarinetto e orchestra (buon fratello minore il quintetto con clarinetto).

92) Volgarità in musica

Sia Karajan, sia Muti, per esempio, ritengono che non esistano musiche volgari, ma solo modi volgari di eseguirle.
La quaestio rimane aperta.
Sarei propenso a dar loro ragione per i motivi che ho già esposto altrove e cioè che in musica chi ama ha sempre ragione, perché il fatto che si ama una musica significa che si è individuata la sua corretta regione estetica, pertanto chi non ama quella musica tende a suonarla in modo volgare perché non la capisce.
Ma rimango dubbioso sul punto.

93) Il mattino di Grieg

Siamo nella regione delle grandi, sinuose, dolci, ombrose, calde e accoglienti forme orchestrali.
La rappresentanza regionale è senz'altro la foresta.
E' però una foresta diversa da quella del Klagende Lied di Mahler (umana fuga dolorosa attraverso i castelli medioevali), da quella delle sinfonie di Bruckner (foresta animale, non umana, aspra e naif), da quella delle sinfonie di Mahler (foresta umana, dolorosa che tenta di rifugiarsi nella fiaba animale), da quella dei lieder di Schumann e Schubert (foresta umana, stanziale, legata alla terra e tendenzialmente dolorosa in quanto nostalgica sia ab origine, sia, retrospettivamente, dell'origine).

94) Onde sempre più alte

La musica per piano solo di Rachmaninoff (p. es. i preludi) rimanda a questa regione.
Onde sempre più alte, una mareggiata sempre più imponente.
Vi è anche – se mai una spiaggia – una spiaggia d’inverno, con passeggiate alquanto solitarie (ritorna l’orizzontalità già citata a proposito delle cantate barocche per voce sola ed archi).

95) Rachmaninoff estatico

Come nel Liszt del Sogno d’amore, il Rachmaninoff dei Moments musicaux inclina all’estasi.
E’ questo il Rachmaninoff che preferisco.
Ma rispetto ad altri – quasi sempre – anche nel singolo brano estatico, Rachmaninoff “piazza” qualche crescendo vorticoso, come se non si potesse stare mai troppo in pace e ciò lo rende, scilicet, un minore rispetto ai grandi.

96) Melodia

Muti ricorda che la nostra tradizione musicale invita alla melodia, accennando al contraltare della complessità sinfonica.
La melodia di tradizione italiana assume un valore pregnante nella fruizione dell'opera.
Vi è disvelato un animus, secondo l'etimo latino, in autonomia rispetto alla complessità della struttura sinfonica. Là vi è la verità diacronica (bitematica tripartita, hegelianamente: tesi-antitesi-sintesi); qui vi è la verità sincronica che si disvela nell'istante, ma mentre l'istante di Debussy è un hic et nunc, quello dei grandi melodisti italiani è un nunc stans: un istante dilatato all'infinito.

97) Italia e mondo

Riprendendo il discorso di Muti di cui sopra (che è senz'altro una vexata quaestio), si potrebbe delineare una distinzione ontologica-antropologica (ma in realtà in musica non vi è mai nulla di così perentorio) tra vocazione mediterranea italica alla frase e al colore del suono (la melodia, appunto) e vocazione sinfonica (in primis germanica) alla struttura ritmico-armonica del brano, ma anche e soprattutto alla struttura di frasi, in contrapposizione all'elevatezza della singola frase (o meglio aria, melodia).
Secondo una tale (barbara) distinzione, noi potremmo riprendere gli infiniti discorsi sullo scarso appeal delle melodie beethoveniane, se prese isolatamente e invece sul loro notevole fascino all'interno della composizione nel suo complesso, mentre al contrario avremo un grande appeal delle melodie (per esempio pucciniane), se prese isolatamente e un loro scarso appeal, se considerate nell'ambito di una composizione univoca (a patto di non considerare l'opera e la sua trama, la scena, i personaggi, ecc..., come strumento di unità formale: il che non verrebbe appunto accettato dai melomani).

98) Il Don Giovanni di Giulini

Risolto in pura, aerea e vibrante lirica, il Don Giovanni di Giulini è in assoluto il migliore.
Numerosi i momenti indimenticabili (un'aria di mattino domenicale, bianca, trasparente li unisce tra di loro).
Su tutti, vince, per vigore e genialità interpretativa, l'aria “Fin ch'han dal vino”, nella quale, con uno stretti agogico finale, un accelerando, si ha la netta sensazione della mania di Don Giovanni come vertigine e squilibrio.

99) Ancòra sul Pastor fido

Se si pone l'attenzione al suono, non si pone il problema dell'andamento da scegliere e si romantizza il brano (forse è la scelta migliore).
Se invece si pone attenzione al ritmo, si pone il problema della somiglianza con una danza, un ballo qualsiasi.
Ma se si prende un andamento come di danza, da fenomenologia della danza, si passa alla fenomenica della danza: e tale scelta non ha valore estetico.
Pertanto occorre comunque prendere un andamento più lento rispetto a quello che si prenderebbe se si volesse danzare sulle note del brano.
La terza via che concilia attenzione al suono e attenzione al ritmo è quella di dimenticarsi della danza (fare finta che la melodia non si presti a essere danzata) e pensare al canto: la scansione ritmica sarà precisa, l'andamento moderato e l'espressività massima. E' importante – per scegliere l'andamento giusto – sceglierne uno che permetta che la scansione ritmica sia la medesima in tutti i brani della sonata. Se possibile, dimenticarsi che il primo tempo è in tre (scandirlo in uno, neanche in due). Quindi dimenticarsi anche della scansione (e si ritorna alla prima opzione che è poi quella di Larrieu).

100) Sera illuminata

Se dobbiamo trarre la rappresentanza regionale del Barocco che evolve nello Stile Galante, dobbiamo far riferimento a una villa illuminata di sera.
Non sarà un allontanamento drammatico, come nel romanticismo in fuga notturna verso i campi, ma sarà bensì un esser-già-dentro (un in-essere dell'Esserci, di heideggeriana memoria).
Ciò vale per Handel, Vivaldi, Benedetto Marcello (in ispecie, ma non esclusivamente, per le loro sonate per uno strumento solista e clavicembalo).

101) Falsi dilemmi

E’ falso il dilemma tra maggiore attenzione alla scansione ritmica (che richiama la danza) e maggiore attenzione al canto (idealmente senza tempo).
Ogni volta che ci troviamo di fronte a un simile dilemma interpretativo, significa che semplicemente non abbiamo scelto l’andamento giusto.
In particolare, come nel caso del primo movimento della prima sonata del Pastor fido, l’andamento da scegliersi dev’essere più lento, con il che i falsi dilemmi si risolvono da soli.

102) Un sogno

Un sogno è il primo concerto per oboe di Vivaldi (movimento lento).
Qui entriamo direttamente nella porta, in un pomeriggio nuvoloso.
La dimensione del sogno è una rappresentanza del mondo parallelo. Indica uno straniamento dovuto a un rallentamento, a uno sfasamento del tempo.

103) Un altro sogno

La sonata per flauto e piano Undine di Reinecke, in particolare l’ultimo movimento, è un altro sogno.
Ricorda il tema principale della sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorak.
Il clima mitico è rappresentato dalla sospensione del tempo (sognante).
Vi è in entrambi i brani, com’è noto, una rappresentanza fluviale.

104) I concerti per oboe di Vivaldi, Albinoni, Corelli, Torelli e Alessandro Marcello

Racchiusi in un bel LP RCA degli anni '70 del '900 con un superbo Pierlot all'oboe, costituiscono le vette della produzione musicale mondiale di tutti i tempi.
La porta qui è sempre aperta, spalancata.
Siamo direttamente in quel pomeriggio di allora.

105) Perché

Perché sono così belli i concerti per oboe dei veneziani del '600-'700? Perché lì è la summa della musica strumentale?
Possiamo solo abbozzare risposte. Uno dei motivi è che si trattava di nobili (fa eccezione Vivaldi), persone coltissime, sopra la media: quelle opere racchiudevano il meglio dell'intelligenza dell'epoca.
Questo è un aspetto fenomenico che indirettamente spiega il fenomeno fenomenologico della nobiltà di quella musica (la visione dall'alto degli umani affetti e passioni e non dall'androne di casa come in CPE Bach).

106) Adagio del concerto per oboe di Alessandro Marcello

Tra le numerose interpretazioni di questo adagio, le migliori sono quelle che rispettano la lettera del testo (su tutte quella di Pierlot e dei Solisti veneti con  Scimone).
Altre - anziché dividere in fasi (e frasi) il brano (come è scritto) - suonano solo le note base e tra una nota e l'altra (corrispondente all'inizio di ogni fase-frase) fanno una farcitura di fioriture, in omaggio a una malintesa e mai dimostrata prassi barocca.
L'unico aspetto affascinante di questo secondo tipo di interpretazione (nel quale ovviamente – poiché si unisce tutto con il legato – si deve fare uso della respirazione circolare) è che rende il brano una vera e propria frase unica dell'oboe incorniciata da due sezioni (introduttiva e conclusiva) degli archi: quasi un delirio.
Il bello dei brani belli è che comunque li stravolgi sono sempre belli.

107) Albinoni e il bombardamento di Dresda

Che sia vero oppure no che il famoso Adagio è opera di Remo Giazotto, fa rabbia che nel bombardamento di Dresda si siano perduti innumerevoli tesori di Albinoni.
In particolare i concerti (e in particolare quelli per oboe) che in quello stesso periodo tra la fine del '600 e i primi del '700 scrissero Vivaldi, Albinoni, Alessandro Marcello, Corelli, Torelli ed altri rappresentano un periodo speciale, quasi di contagio di una stessa fonte di ispirazione, come avvenne per l'evoluzione dello Stile galante maturo nello Sturm Und Drang – segnatamente con Haydn – meno di un secolo più tardi.
Un contagio, un periodo storico di pochi anni in cui si respirava un'aria particolare e riconoscibile, eppure anche una porta verso l'infinito, dal momento che – da un certo punto di vista – non c'è nulla di più universale di questi due stili: essi sono infiniti.

108) Bottega

Concerti per oboe di Vivaldi e Albinoni (e Alessandro Marcello): è un pomeriggio in una bottega artigiana.
Può darsi che il cielo sia grigio.
E’ impossibile dire quale sia lo stato d’animo.

109) Normalità

Lo stato d’animo è impossibile (o indifferente) da stabilire, in quanto afferisce alla normalità.
Nella normalità vi sono diversi stati d’animo.
Ma sono visti tutti dall’alto come normali: ecco il senso della teoria degli affetti del Barocco.

110) Teoria degli affetti

Non dunque un solo affetto per volta, ma tutti gli affetti visti dall’alto (senso del sublime) come cosa normale.
E’ questa l’essenza della teoria degli affetti del Barocco.
Nell’Empfindsamer Stil, invece, gli affetti sono visti più da vicino e se ne osservano le differenze.

111) Un piccolo universo disastrato

Perché abbiamo così poca letteratura veneziana barocca per oboe, abbiamo solo pochi sublimi concerti scritti da una manciata di autori in uno stile indescrivibile per bellezza e concezione poetica nell'arco di pochi anni?
Che cosa permise questo breve contagio di ispirazione e che cosa lo allontanò, o forse, che cosa non permise a noi di far venire alla luce altro materiale?
Nel caso di Albinoni, sappiamo che la colpa è del bombardamento di Dresda che distrusse moltissimo.
Ma gli altri? Perché, quanto a estensione del repertorio, abbiamo tantissimi brani – per esempio -  di Liszt, pubblicati e incisi, e così pochi concerti per oboe solista di Vivaldi, Albinoni, Corelli, Torelli e Alessandro Marcello? E' una domanda esistenziale, temo senza risposta.
Almeno, nel caso dei concerti per flauto di Quantz, sappiamo che giacciono, ancora non pubblicati e non incisi, in biblioteca a Berlino: colpa dell'uomo, dunque. Ma nel caso della scarsità di capolavori così assoluti come i concerti per oboe, la colpa (oltre al bombardamento, ancora colpa dell'uomo) sembrerebbe essere del destino, che portò un vento di ispirazione a un manipolo di compositori, vento passeggero che fece comporre loro solo poche opere, pure così sublimi.

112) Assolo

C'è da chiedersi se il suono dell'oboe rappresenti uno da solo o se sia il gruppo (l'epoca) a suonare.
Io credo che, se noi accogliamo quanto detto a proposito dell'apprendista artigiano, possiamo  considerare tale distinzione non pertinente.
La felicità insita nel suono dell'oboe sta nella coincidenza tra dimensione individuale e sociale dell'essere.

113) Già dentro

Quanto sopra corrisponde alla definizione di felicità, in quanto siamo tutti già dentro.
In tale accezione (che è quella dell'Ode alla gioia di Schiller ripresa da Beethoven nella nona sinfonia), l'essere già dentro rende insensata la distinzione del soggetto e il dilemma romantico io/mondo.
A tale accezione potrebbe essere paragonata la concezione del noi e dell'in-esserci di Heidegger (veniamo al mondo già in un noi).

114) Contiguità dell'ispirazione

I concerti per oboe di Vivaldi e Albinoni, in particolare quelli in modo minore, paiono avere una contiguità di ispirazione, per cui facilmente si scambierebbero gli autori, quanto a rappresentanza estetica regionale.
E' come se la regione fosse la stessa.
A livello fenomenico e non fenomenologico, è come se si fossero trovati a scrivere sugli stessi canali veneziani, parlandosi anche e dialogando su come comporre questi concerti.

115) Civiltà ellenica

Negli adagi dei concerti di Mozart si esprime un ellenismo.
Questa è la rappresentanza regionale dettata dall’evidenza fenomenologica (v. p. es., l’adagio del concerto in re maggiore per flauto, o per oboe in do maggiore).
Quanto quest’ellenismo sia di maniera e che cosa eventualmente sia mai un ellenismo non di maniera rimane quale dubbio cruciale.

116) Forma e struttura

Nell’incredibile concerto per oboe in re minore per Albinoni abbiamo la perfezione della forma unita al calore del colore, senza avere una struttura vincolante, come sarà il bitematismo tripartito della forma sonata del periodo successivo.
Per quanto riguarda invece la visione dall’alto (concetto di sublime) cui si è fatto cenno riguardo al tardo barocco strumentale veneziano (in particolare i concerti per oboe di Vivaldi, Albinoni, et al.), ossia la rappresentanza regionale del sublime (normalità degli affetti, anche cangianti, ma visti dall’alto ed “essere insieme” degli affetti stessi e delle persone), ossia la Teoria degli Affetti, in confronto invece all’Empfindsamer Stil di CPE Bach (su tutte, la sonata per violino e clavicembalo in do minore), la riflessione fatta dianzi non verteva su presunte differenze, né di struttura, né di forma tra i due stili (il concerto e la sonata citati, infatti, nel loro primo movimento, non differiscono di moltissimo, trattandosi di alternanza tra solista e orchestra in un caso e solista e clavicembalo nell’altro, dove comunque la parte dialogante di accompagnamento, id est l’orchestra in un caso e il clavicembalo nell’altro, fanno da sfondo a un “monologo dialogante” che sta in rilievo ed è appunto costituito dalla parte riservata al solista), ma bensì le differenze, cui si faceva cenno, tra i due stili (Teoria barocca degli affetti e successivo Empfindsamer Stil, una che rappresenta il sublime mondo umano visto dall’alto e l’altro che rappresenta il mondo umano che dialoga sull’androne di casa), sono differenze di tipo simbolico-affettivo, non formale o strutturale.

117) L'anatra

Possiamo interpretare dal punto di vista fenomenologico l'evoluzione dello strumento oboe come una favola.
Dalla starnazzante anatra, parente prossima dell'orribile cornamusa, con il suono in gola, appunto starnazzante, si passa al suono dolce dell'oboe “definitivo”.
E', quello dell'oboe, forse il più bel suono tra quelli degli strumenti cosiddetti “solistici”.

118) Sonate per violino op. 2 di Vivaldi

Ascoltando le sonate per violino op. 2, con i loro ritmi vorticosi come studi eppure così melodici, che girano su sé stessi e si dispiegano, a un certo punto la porta si apre.
Siamo in una strada grigia di città.
Forse accanto a noi – bimbi – vi è un signore con gli occhiali. Questa è un’esplorazione del mondo parallelo, affine, quanto a tecnica, alle libere associazioni e alla regressione.

119) Brani passepartout

L’adagio del concerto in re minore per oboe di Alessandro Marcello, così come la danza degli spiriti beati – intermezzo di Orfeo ed Euridice di Gluck – sono brani che aprono tutte le porte del mondo parallelo.
La loro rappresentanza regionale è estesa e si attiva su più scenari.
Questo perché sono brani il cui punto di riferimento è in alto (è lo Zenit) e quindi non muta al mutare della posizione geografica dell’osservatore (punto di osservazione).

120) Suites per clavicembalo di Handel al pianoforte (Richter/Gavrilov)

Qualcosa come il wittgensteiniano “di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere”.
Complice la chiarezza cristallina degli interpreti e dello strumento, quasi ad ogni brano si spalanca una voragine sotto di noi e ci si ritrova nel mondo parallelo.
La rappresentanza regionale è una bella periferia grigia, camminando accostati al muretto.

121) Chiave interpretativa

Nel concetto di “criterio dell’aderenza” e in quello di “porta che dà su una zona del mondo parallelo” è insita la presenza di un concetto cardine: quello di “chiave interpretativa”.
La poetica utilizzata dal dato interprete su quel dato brano (nella data edizione  - o preciso momento - della sua interpretazione, evidentemente e quindi in riferimento al tempo, inteso come  un evento specifico, sia che esso sia registrato e inciso, sia che esso si verifichi in un concerto) costituisce la sua chiave interpretativa del brano stesso.
Se la chiave corrisponde alla toppa (la toppa è la poetica di quell’autore per quel dato brano) la porta si apre ed entriamo nel mondo parallelo.

122) Leclair carillon o Leclair processione

Nelle sonate per flauto di Leclair, più delle fioriture e abbellimenti, conta la regolarità della scansione metrica.
I brani si spalancano ad un ritmo di regolare camminata.
Vi si celebra il tripudio della quotidianità.

123) Il Fabbro di Kempff e quello di Richter

In questo brano di Handel che racchiude i segreti del mondo occorre mettere nella giusta evidenza il prepotente e inquietante processo di accumulazione progressiva della forza.
Apre la porta quindi Kempff che va in questa direzione.
Non così Richter, che “tira via” con glaciale noncuranza.

124) Apocalisse

Ciò che sembra sfuggire al “fabbro Richter” è che il brano non ha un carattere innocente.
L’intensificazione progressiva della variazione non conosce soste o variazioni, pertanto assume un carattere minaccioso.
Di tipo apocalittico.

125) Chiesa vuota

Le suites di Handel suonate da Gavrilov e Richter sembrano risuonare in una chiesa vuota o sconsacrata.
Occorre indagare che cosa questo significhi a livello fenomenologico.
E’ come una apoteosi del profano o una sua sacralizzazione.

126) Gioiosa innocenza

L’ultimo movimento della suite n. 12 di Handel fa da contraltare al fabbro armonioso.
Tanto il primo è intriso di una sadica coazione a ripetere, catastrofica e apocalittica dietro un velo di innocenza, tanto il secondo è invece realmente innocente e dell’innocenza riproduce lo stupore e la bellezza della scoperta.
La scoperta del gioco.

127) La follia di Gavrilov

Spalancare ad ogni costo le porte del mondo parallelo può portare alla follia?
E bisognerebbe guardarsene, in nome di una non dimostrabile adesione ai canoni esecutivi dell'epoca?
Gavrilov spalanca quelle porte, facendoci ritrovare su un marciapiede grigio in città (marcia funebre in luogo di un lieve brano, andamento lento che spappola il  senso del ritornello facendo emergere colore ed armonia).
(Suites di Handel per clavicembalo: variazioni sul tema della follia).

128) Claire de lune

La musica impressionistica suggerisce già nel titolo la propria rappresentanza regionale?
Nel caso del Claire del lune di Debussy sembrerebbe di sì.
Non è possibile scacciare l'immagine di un bosco di notte e di un lago (o del mare) su cui si riflette – frastagliato – il chiaro dei raggi di luna.

129) James Levine

Leggo oggi del pensionamento dal Metropolitan per Levine.
I direttori operistici anglofoni (Levine e Solti) mi sembrano eccellere in chiarezza melodica (e di dizione) e in virtuosismo (scelta dei tempi quasi sempre elettrica).
Ricordo un buon preludio di Carmen, in cui tale elettricità dovuta (il dinamismo dell’esecuzione) venne magistralmente reso da Levine (pragmatismo a-ideologico che onora l’aspetto ritmico della musica).

130) Il secondo movimento della quarta sinfonia di Mahler

Apparentemente (come diceva spesso Bernstein) non ci sarebbe bisogno neanche di un interprete.
Si è già nel mondo parallelo quando, condotta dalle trombe, si segue una carovana di zingari, circensi, girovaghi.
Il cui colore è di un giallo oro intenso.

131) Ancora sulle armonie del fabbro

Quando parlo di coazione a ripetere per il Fabbro armonioso, mi riferisco all’insistenza e all’intensificazione subite dal tema.
Tema che si presenta all’inizio come una cantilena infantile, per poi diventare demoniaco.
E nei bambini troviamo altrettanto innocenza (come nell’altra Suite) e sadismo (come in questa), pulsione di vita e pulsione di morte, come insegnò Freud.

132) Estroversione e introversione

In Vivaldi, non solo grazie al ritmo, abbiamo una vitalità che richiama l’estroversione, mentre in CPE Bach abbiamo un discorso che tende all’introversione.
Entrambi paiono far parte di una simile corrente che nei concerti porta dalla Teoria degli affetti di un Barocco tardo e molto umano (Vivaldi) all'Empfindsamer Still dal volto umano (CPE Bach) che costituisce la terra di mezzo tra il Barocco e il Classicismo, nelle sue mille sfumature di primo stile galante che evolve in stile galante maturo, che a sua volta si trasforma in Sturm und Drang passando appunto per l'Empfindsamer Still per poi giungere al Classicismo maturo, in un vivo e bellissimo trascolorare che – in quanto periodo di transizione – costituisce uno dei periodi più affascinanti della storia della musica.

133) Complicazione al potere

Una caratteristica importante della musica di CPE Bach (per esempio nei concerti) è la complicazione.
La complicazione fa parte dell'universo poetico e ciò non solamente in relazione alle frequenti modulazioni (spostamento degli affetti) caratteristiche dell'Empfindsamer Still, ma anche in relazione all'estrema (e occulta, per l'ascoltatore) difficoltà a livello strumentale, virtuosistico, dei brani di CPE Bach.
Un virtuosismo mascherato che non è avvertibile dall'ascoltatore non musicista e che è in funzione della complicazione intesa come diramazione dell'interiorità e non in funzione dell'esibizione virtuosistica della propria bravura di esecutore, come sarà invece in Paganini e come talvolta si ha in Vivaldi.

134) Il modo del singhiozzo

Nelle sonate e nei concerti di CPE Bach, la voce del violino, nel modo minore, risulta come spezzata in un singhiozzo.
Si tratta di una caratteristica che rende struggente il fluire delle frasi.
Quasi lacrima che sgorga, in un moto affettivo liberatorio al quale persino Kant – nella sua Critica del giudizio in cui il Bello pare disegnato freddamente e gli affetti vengono relegati ad una manifestazione estemporanea– riconosce un valore.

135) Ancòra sul suono di Rampal

Nella coraggiosa edizione completa di Erato, si nota – al primo CD – come il suono di Rampal cambiasse molto, in forma, ma anche in bellezza, da un'incisione all'altra.  Forse per il gusto di una ricerca di un certo tipo di suono (anche se di rado esso è “forzato”), o forse per scarso amore nei confronti di alcuni brani (e – al contempo – senso del dovere nel riscoprirli ed eseguirli tutti, anche se spesso di autori sconosciuti), fatto sta che pare diseguale, tra un'incisione e l'altra, pure la qualità di quel meraviglioso suono.
In alcune incisioni pare un po' schiacciato, e non mancano grappoli di note “scrocchiate”.
Ma in altre – e sono la grande maggioranza – si verifica quel miracolo: un suono di una bellezza inspiegabile, perché inconcepibile.
Verrebbe da dire, data l'incredibile fluidità virtuosistica nei passaggi legati e staccati (la nonchalance, o “sprezzatura” con cui riesce ad eseguirli) che si tratta di un suono naturale come il respiro o il canto.
Ma gli è che troppo spesso è più bello, quel timbro e quella fluidità, di qualsiasi canto.
E' qualcosa che va dritto al cuore della perfezione e quindi prescinde da qualsiasi riferimento alla perfezione umana o naturale: riguarda la metafisica.

136) Letteratura per flauto

La letteratura per flauto coincide con il preromanticismo musicale?
O forse tale impressione è dovuta al fatto che si sia scavato e scoperto, nella letteratura per flauto (specialmente grazie a J.P. Rampal) tutto un mondo di autori che anche nella letteratura per altri strumenti o per orchestra sono presenti e non sono ancora stati scoperti perché non sono mai stati cercati, molti dei quali sono preromantici?
E' importante lasciare aperto tale interrogativo.

137) Il concerto di Chacaturjan

Il concerto, suonato per flauto da molti virtuosi, è sempre stato oscurato, nella sua valenza estetica, dalla sua difficoltà tecnica.
Le interpretazioni dei virtuosi di razza, come Galway, ne fanno uno spinoso e sgradevole esercizio di stile, irto di difficoltà esibite, in una concezione pseudo-paganiniana, fraintesa nel modo peggiore (esibizionismo della tecnica).
Invece, con Rampal si manifesta la poetica, ricca di bruma e di nonchalance, che lo rende indimenticabile, inquadrandolo nel post-romanticismo “metallico” novecentesco, tipico - per esempio - dei concerti per pianoforte di Prokofiev.
Questo grazie a un maestro come Rampal.

138) Il Leclair di Rampal

Brani lenti suonati con molto rispetto della regolarità di scansione (canto lontano, aura mitica, autunno dai palazzi).
Brani veloci molto veloci
Caratterizzazione dei brani molto marcata, in cui si intuiscono molte possibilità di esecuzione (libertà, piuttosto che ricerca della verità).

139) Ancòra sul Leclair di Rampal

I grandi adagi sono suonati con rispetto della metrica, come se fossero parte di un unico grande adagio universale (cfr. Borges): molto belli.
I tempi “allegro” e simili sono suonati tutti velocissimamente, come se si trattasse di un brano in cui esibire virtuosismo.
Nel Leclair di Rampal manca la dimensione intermedia del grande “Allegro” drammatico, cui pure numerosi brani di queste splendide sonate si presterebbero: sembra che per Rampal non si tratti di un compositore epico.

140) Una drammaticità necessaria (il regno dello Sturm und Drang)

L'Allegro drammatico che non vede in Leclair (risolto in frenesia agogica ed in fioriture), Rampal lo “legge” in Telemann (per esempio, nel secondo movimento della sonata in fa minore – originaria per flauto dritto – con clavicembalo).
Qui risulta chiara la tensione, l'avvincente andamento e quella peculiarità in modo minore, tipici dello Sturm Und Drang (cfr., su tutte, l'Op. 9 e 20, ossia i famosi quartetti di Haydn).
Potremmo riassumere il preromanticismo (o la grande letteratura per flauto che lo rappresenta e coincide in larga parte con esso) come l'alternanza di grandi adagi cantabili e di Allegri drammatici, dalla netta scansione ritmica e dal vorticoso andamento: in modo minore.

141) La Ballata per flauto di Reinecke

Rappresentanza regionale double face: è una foresta (ma artificiale) ed anche un viale alberato autunnale.
Misconosciuta, si tratta di uno dei capolavori del romanticismo per il flauto.
Non mi risultano esecuzioni di grandi interpreti: forse il suo tempo è a venire.

142) Libertà e rigore

Una cosa giusta hanno apportato le esecuzioni filologiche che iniziavano a farsi strada nell'ultimo ventennio del XX secolo e sono dominanti nella prima metà del XXI: il rigore, la scienza filologica (per quanto non assoluta) dell'interpretazione.
Se facciamo il paragone con le interpretazioni di Rampal (pur scopritore di una montagna di tesori barocchi e valorizzatore di compositori sconosciuti, quindi artefice di storia della cultura) notiamo che il quesito fondamentale che fa da guida alle sue interpretazioni di ogni passo, di ogni frase è il seguente: “è bello?”; “Sta bene?”.
Ciò porta a molta variabilità nelle interpretazioni e a una noncurante incoerenza interna alle interpretazioni stesse, laddove il quesito dei fautori dell'interpretazione filologica è il seguente: “è corretto questo modo di suonare questo passo, a livello storico-critico?”; “Vi è coerenza interna nel mio modo di suonare questo brano?”.
Quando i filologi, come già stanno incominciando a fare, abbineranno a questa prospettiva della giustezza storica e, soprattutto, della coerenza formale interna al brano, anche quella estetologica (della bellezza), che era l'unica prospettiva rampalliana, le esecuzioni loro saranno ancora più belle di quelle di Rampal (Bellezza = Verità).

143) Fraseggio
Anche sul fraseggio di Rampal, come sulla sua interpretazione in generale della musica, vale il discorso già fatto in precedenza.
La domanda interna di Rampal è sempre: “è bello questo modo di articolare la frase?” e non “è giusto questo modo di articolare la frase?”.
Ciò porta a delle idee geniali sulla suddivisione delle frasi, ma anche a una certa incoerenza nel mantenerle, all'interno dello stesso brano (una delle prassi esecutive più fastidiose, che Rampal non smentisce, ma anzi spesso applica, è quella di eseguire in modi diversi una stessa figura ritmica o frasi simili quando queste si ripetono: un esempio ne è l'incipit della celebre sonata in si minore di Bach, nella seconda edizione Erato, in cui i primi due fa diesis del brano (in figura di spondeo) sono suonati molto staccati tra loro e i secondi due - nell'ambito della stessa figura ritmica modificata - sono suonati legati, con scelta stilistica che sembra vieppiù gratuita, laddove invece, essendo già variate le prime note della stessa figura ritmica, sarebbe meglio mantenere le due coppie di fa simili tra di loro).

144) Non dimostrare niente

Quando Rampal affronta Luigi Gianella nel Concerto lugubre, né virtuosistico, né noto, dà il meglio di sé.
Ciò perché, non essendo virtuosistico, il concerto spinge Rampal a non voler dimostrare niente, a non pensare di essere un virtuoso.
Ed essendo il concerto sconosciuto, scovato da lui prima che da altri, non avrebbe potuto suonarlo, se non con amore.

145) Il concerto di Mercadante di Rampal

E' stato premiato e non a caso.
Qui prende radici l'aura mitica che può far dire – quanto a rappresentanza regionale – che si tratti delle vicende di un borgo medioevale romantizzato.
Dove esistono giardini all'italiana e corti con gli archi in pietra.

146) Le cantate, sonate e camminate di J.S. Bach

Quanto detto sopra sulla camminata si ritrova molto in Bach padre, anche in alcune sonate per flauto, per esempio.
E' un principio di costruzione formale, cui è sottesa una ben precisa posizione ideologica, oltreché fonte di ispirazione.
E' l'espressione della tendenza alla rivelazione immanente (orizzontale) che trova il suo correlato fenomenico nella processione.

147) Intimismo in sonate originariamente per organo e flauto

La scelta di Rampal di suonare con l'accompagnamento del clavicembalo sonate di Bach riservate all'organo, va nella direzione tracciata in molte sue incisioni, che è quella di creare una interpretazione della storia della cultura e di contribuire alla storia della cultura.
Oggi tale operazione non sembra più possibile perché i filologi hanno trionfato sul mercato dei concerti dal vivo e delle incisioni, imponendo strumenti e prassi originali, ma nel caso di Bach, da una prospettiva estetologica e non pedissequamente filologica, poiché il concetto centrale della sua musica è l'ininfluenza dello strumento scelto (può essere scelta qualsiasi voce, purché bella), si rivela una scelta quantomai opportuna.
Qui Rampal vi ritrova un intimismo cameristico addirittura superiore – a tratti – rispetto alle sonate per flauto e clavicembalo, noto cardine del repertorio bachiano.

148) Storia della cultura

Rampal fa storia della cultura, creando il preromanticismo (e romanticismo) musicale flautistico (quella certa regione oscura di sera), attraverso il modo di suonare i grandi adagi concertistici per flauto (adagio del concerto per flauto di Pergolesi, dei concerti di Mercadante, solo per citarne alcuni).
Ciò significa che la sua concezione estetica (il suo universo poetico) si sovrappone – con larghe coincidenze – con la poetica espressa in un dato numero di brani, dando accesso a vaste porzioni del mondo parallelo, che poi sono state catalogate, nella storia della musica, in modo frammentario e incoerente, sotto la falsa legge del criterio cronologico, autorale e stilistico.
La sua è la vera storia della musica.

149) Il concerto per flauto e arpa di Mozart

Qui attraverso una vetrata verde bottiglia, entriamo in un locale, di sera (sono gli anni '90 del XX secolo, la gente ancora può fumare dentro).
Si tratta di una di quelle sere in cui anche un locale umile diventa magico.
Fuori c'è profumo d'autunno.
Tale è la rappresentanza regionale.

150) I primi tre gradini

Le prime tre note (“la”, ripetuto tre volte) del flauto nel secondo movimento del concerto per flauto e arpa di Mozart (ovvero i primi tre gradini per scendere nel lago dorato all'interno di quel bosco miniaturizzato – in cui vi è riunita la dimensione della magica avventura e del salotto nel quale la si narra) dovrebbero essere profonde, ma uguali.
Rampal suona il primo “la” staccato, il secondo un po' più lungo e il terzo più lungo ancora.
Tale è il vizio denunciato sopra, di variare le medesime figure ritmiche ad libitum: così però s'inciampa un poco.

151) Valori assoluti

In termini di valori assoluti, nessuno è mai riuscito ad avere uno staccato (ma talmente dolce da apparire legato) come Rampal: ne il fenomeno Galway, né altri prima o dopo di lui.
Ne è un esempio tra mille il Prestissimo del concerto in do maggiore di Stamitz.
Si tratta di valori assoluti ed è curiosa la coincidenza (per sprezzatura, nonchalance, per moda degli anni '70 del secolo XX che dava più peso agli ideali di perfezione che alla perfezione del prodotto e della merce esibita) con le numerose, a volte clamorose note “scrocchiate” (steccate) nei passaggi invece più facili del brano, caratteristica alquanto ricorrente nel volume dei CD Erato di Rampal con le incisioni di quegli anni.

152) La migliore incisione di sempre

E' – per Rampal – quella registrata in Giappone nel 1975.
E' vero che un buon ingegnere del suono ha reso possibile un leggero riverbero “ad effetto” e la distanza dal microfono era quella ideale.
Ma nessuno staccato fu mai così, nessun adagio e nessun coacervo di passi impossibili fu mai suonato così.

153) Evoluzione nel tempo

E' possibile tracciare una linea evolutiva del suono di Rampal. Morbido, pulito, puro negli anni '50 e '60 del XX secolo (talora un pochino opaco, non sempre brillante, ma inappuntabile).
Negli anni '70 del XX secolo diventa multiforme, brillante nel registro medio e acuto, con maggiore escursione dinamica, tondo nel registro medio, a volte un po' forzato nel registro grave, talora scrocchiante nel fortissimo (forse subì la rivalità con la rivoluzione del suono di Galway, senza mai snaturarsi, però).
Comunque, a metà anni '70, in alcuni brani, complessivamente il virtuosismo sonoro di Rampal raggiunse l'apice, da lì in poi aumentò un po' la discontinuità secondo i brani eseguiti, ma non vi fu mai, neanche negli anni '80 un vero e proprio declino: permase negli adagi l'intoccabile purezza metafisica.

154) Minuetto e danza degli spiriti beati di Gluck, da Orfeo ed Euridice

Andrebbero suonati insieme, anche nei recitals? Anche l'intiera opera, volendo, insieme ad essi. Ma gli è che la danza ha una valenza propria. E' un inno al dolore o alla soavità? Forse si tratta di soavità del dolore o dolor soave. Vi è, di certo, una fotografia così dall'alto delle umane ambasce, da derivarne un senso di sublime molto  altolocato, come nella migliore tradizione barocca. E' forse la rimembranza dopo la morte di una persona cara, ma una rimembranza scevra dall'eccesso di dolore, priva di disperazione

155) Metafisica dello staccato

Sempre parlando di tecnica (ma la tecnica è sempre legata alla metafisica, com'è vero che tout se tiens) ciò che risulta – ad oggi – non solo ineguagliato, ma inspiegabile, è lo staccato di Rampal.
E' molto più di un'articolazione fluida, con la lingua molto indietro sul palato, dello staccato “doppio”.
Gli è che in certi passaggi, sembra che gli sia più facile articolare i suoni con uno staccato simile, che con il legato: è un unicum nella storia della tecnica flautistica di riproduzione dei suoni.

156) Il due e il tre

Male fa il DEUMM a criticare Scrjabin per la marcia del finale della seconda sinfonia, quasi che la marcia fosse uno stereotipo sconveniente.
L'orecchio (e il cervello) umano divide il tempo (tutti i tempi) in due o in tre, gli altri tempi (5/4, 6/8, ecc...) sono tutti derivati e si possono ridurre a combinazioni di due e/o di tre (celebre il caso dell'adagio della Patetica di Ciaikovsky, che il direttore batte come 2+3).
Pertanto – a rigore – tutti i brani di tutti gli autori di tutti i tempi possono essere ricondotti o a una marcia o a un walzer: nulla di disdicevole in ciò, anzi, il ritmo è l'essenza di tutta la musica strumentale.

157) Sonate di Quantz e Benda (esteriorità-interiorità: il suono “giusto”)

In queste sonate, Rampal ha un suono meraviglioso, perché la poetica del brano coincide con la poetica dell'interprete: è l'interiorità.
Quando l'interpretazione aderisce alla poetica del brano, il suono è il migliore (dolce, vellutato, agilissimo, leggermente malinconico, appunto come se il suono fosse rivolto verso l'interno e non verso l'esterno).
Nemmeno una nota scrocchiata nel tentativo di risultare tenori dal do di petto tonante (e quindi niente forzature di suono che non sono nella pelle di Rampal e – di conseguenza – nessuna nota scrocchiata).

158) Le sonate per flauto di J.S. Bach

Qui non si tratta né di tipo di suono (timbro, strumento utilizzato), né di espressione raggiunta tramite articolazioni diverse (virtuosismo) del fraseggio.
Abbiamo la necessità di ottenere il massimo di simmetria attraverso il massimo di semplicità: è una musica che si suona meglio se letta nella mente.
Per tali motivi qui né Rampal, né altri raggiungono vette strepitose di interpretazione.

159) Greensleeves (variazioni: forma aperta)

In questa, come in tutte le altre variazioni, la forma musicale è aperta.
Nel tema e variazioni si rinviene in nuce il mito della musica perpetua.
Esse non finiscono mai, ne ascoltiamo un pezzetto, ma non finiscono mai: c'erano prima del nostro arrivo e proseguono altrove quando abbiamo finito di ascoltarle.
Le potremo reincontrare in altro tempo-luogo: esse ci avranno preceduto e muoveranno da lì dopo che noi ce ne saremo andati.

160) Struggimento

Importante caposaldo, spesso in modo minore, le sonate per flauto di Handel, suonate da Rampal, hanno per rappresentanza regionale lo struggimento.
Incisione non a caso premiata.
Qui può essere concepibile un fraseggio talora differente da quello adottato, o dei tempi un po' più lenti o un po' più veloci, ma lo spirito ne è colto in pieno e il veicolo interpretativo ne è un suono di una purezza abbacinante.

161) Le origini dello Sturm Und Drang

Difficile stabilire questo.
Sicuramente le sonate di Handel (la sua musica da camera in generale) vi hanno un ruolo.
Di quelli che saranno i tratti caratterizzanti dello Sturm Und Drang, le sonate possiedono l'elemento ritmico, preponderante e febbrile, e il modo minore come prevalenza di fondo.

162) Concerti per clavicembalo e orchestra d'archi di J.S. Bach, trascritti per flauto e suonati da J.P. Rampal

Pur elegante, fluida ed ammirevole, l'esecuzione non può che far venire in mente il gotha, lo zenit, il top, la coincidenza assoluta tra poetica del brano e poetica dell'interpretazione del brano stesso così come svoltasi in quell'incisione: mi riferisco all'incisione con Glenn Gould al pianoforte.
E' da precisare il fatto che la rappresentanza regionale è (non può non essere) un gazebo innevato, la sera di Natale.
Fenomenicamente e non fenomenologicamente, si tratta di un carillon.

163) Terre di mezzo: tesori inaspettati

Il concerto per flauto di Hoffmeister unisce un'inventiva felice e mozartiana ad un vigore ritmico Beethoveniano.
Fenomenicamente: fu allievo dello stesso allievo di Beethoven e fu amico sia di Mozart, sia di Beethoven.
Fenomenologicamente: siamo qui in una regione estetica colorata, festosa, come lo sono tutte quelle regioni estetiche illuminate dai compositori “di mezzo”, non trascritti a chiare lettere nella Storia della musica ufficiale, ma che rendono ragione della distanza – in termini di regione estetica – tra un grande compositore e l'altro (in tal caso: la regione estetica tra Mozart e Beethoven): onore al merito di Rampal per aver scoperto tale regione estetica, tramite la riscoperta e l'incisione del concerto di questo compositore.

164) La notte di Rampal

Nel famoso concerto vivaldiano per flauto e archi, la rappresentanza regionale sono gradini di pietra dalla forma ammorbidita, la cui discesa, leggermente scivolosa, porta nelle segrete di un castello (o nel corridoio di una villa che porta al bagno).
Il fraseggio rampalliano, in questo come in altri concerti di Vivaldi, è molto ben studiato ed appropriato, perché rispetta una logica estetologica.
Non ne vien fatto luogo di virtuosismi, ma di uno stile esemplare.

165) Mattine domenicali bianche

Tutto questo richiama l direzione d'orchestra italiana tra gli anni '50 e i primi anni '60.
Per esempio Giulini e Gavazzeni.
La rappresentanza regionale potrebbe essere il percorso che dall'uscita della chiesa porta ad una trattoria lungo un bel viale molto alberato e molto trafficato.

166) Benedetto autunno

Il primo movimento del concerto per violoncello di Schumann rappresenta l'autunno (sulla funzione di collante universale del violoncello già si è detto).
Indubbiamente la rappresentanza regionale sa di ebano
E' possibile – come spesso in Schumann – che dopo aver camminato (forse persino corso e gridato) lungo un viale alberato di pomeriggio, si stia mormorando qualcosa su in casa, seduti sul letto (si sono appena accesi i lampioni e il giorno ancora non si è spento: certo si continua, sotto altra forma, a fuggire la villa e abitare la villa, sempre dentro e fuori le mura di casa).

167) Due spiagge vicine

Largo del concerto in la minore per flauto di Vivaldi e adagio del quartetto per flauto in si minore di Mozart.
Rappresentano due regioni estetiche confinanti, marine: sono due spiagge vicine fra loro, deserte.
Dalla riva del mare – guardando verso l'orizzonte – un cielo blu immenso.
Fenomenicamente: è ben possibile che Mozart  nel suo adagio si sia ispirato al largo di Vivaldi.

168) Una precisazione

Per rappresentanza regionale s'intende la regione estetica che rappresenta sé stessa in un brano musicale.
Essa si rappresenta tramite quel brano.
Viene a rovesciarsi il rapporto in base al quale la musica esprime, perché essa è invece l'espressione di qualcosa (mondo parallelo).
Il mondo parallelo si esprime attraverso la musica.

169) Incpit della Grande Sonata per flauto e chitarra di Giuliani

Qui il fenomenico e il fenomenologico (il mondo parallelo e il nostro) si fondono, dal momento che la rappresentanza regionale è, in un tardo pomeriggio estivo in un'assolata città di mare, il flautista che inizia a suonare la sonata.
L'inizio riverbera l'inizio, si crea un corto circuito estetico.
E' in casi come questi che si può attraversare la porta ed andare nel mondo parallelo.

170) Sturm Und Drang ante litteram

Solitamente attribuito – casomai – a CPE Bach, lo Sturm Und Drang può essere attribuito al padre, per la Suite in do minore per flauto e clavicembalo.
Quella nervosa e insofferente tendenza al ritmo e all'azione, quel non essere mai paghi di un ritmo, di una melodia, di un concetto.
Quell'aggrovigliarsi disposto all'eroismo (o alla prevaricazione) si ritrovano anche qui.

171) Schubert e Schumann interiori

Mentre è più consueto per il secondo, l'aggettivo non viene così spesso usato per il primo.
Ciò perché si esaspera – nell'eseguire la sua musica da camera – l'escursione dinamica (ogni pianissimo dev'essere morente, ogni fortissimo dev'essere apocalittico).
Invece nell'introduzione e variazioni per flauto e pianoforte, Rampal riesce a trovarvi la dimensione in prevalenza intima, equiparandolo a Schumann ed entrando sùbito nella porta.

172) La sonata per flauto di Prokofiev

Si può definire, al pari di altra musica da camera dell'Autore, romanticismo meccanico, o metallico.
Mentre nel concerto per pianoforte si udiva l'eco del porto (le sirene delle navi), qui pare trattarsi di un meccanismo, in cui vengono interpolati momenti di assoluta poesia.
Come avviene, per altri versi, con Stravinsky (dal barbarico al poetico con passaggio repentino e standardizzato).

173) Il corretto andamento per il primo movimento del concerto brandeburghese n° 5 di J.S. Bach

E' quello scelto da Eduard Fischer, direttore non di grande fama mediatica, ma che ha lavorato con J.P. Rampal (incisioni Erato).
Il tempo è la chiave di questo brano (e di tutta la musica).
Una volta scelto il tempo giusto, abbellimenti, rubato, ornamenti ed altri espedienti retorici non servono e il brano, secondo il rasoio di Occam, risulta semplice nella maniera più bella, bello nella maniera più semplice.

174) Un giardino con una fontana in pietra come cortile di una casa

E' la rappresentanza regionale del secondo tema del primo movimento del concerto per flauto di Reinecke.
Qui abbiamo l'esempio di un romanticismo per metà avventuroso e per metà casalingo.
Come se affrontassimo l'avventura in un bosco, che in realtà è un parco urbano allestito a bosco.

175) Meditation, (Massenet, Thais)

Qui è veramente difficile entrare nella porta.
Vi riuscii una volta, quando ero molto stanco e sovrappensiero, avevo circa 20 anni.
Penso che sia fondamentale cantarla con aria svagata, ma comunque non entrano nella porta (anzi sbattono contro il muro) né Uto Ughi (troppo veloce), né l'orchestra della Fenice di Venezia (troppo lenta: meditazione non significa ieratica staticità, ma casomai sguardo dalla riva all'orizzonte).

176) Concerto in sol maggiore di Platti per flauto, archi e continuo

La rappresentanza regionale è una strada bianca, assolata al mattino (ci possono essere zone in ombra, come nei passi ripetuti in modo minore).
L'impressione fenomenica è che si risenta in parte di Vivaldi, in parte di Telemann e in parte di Mozart.
Ma non vi è una banale insistenza nel modo maggiore, come invece avviene nella musica da camera di Locatelli.

177) La brezza sulle cime

Il concerto per flauto e archi in fa maggiore di tartini ha per rappresentanza regionale una forza ascendente.
può essere descritta come brezza sulle cime o come odore di acqua salmastra proprio di alcuni quartieri che si trovano nelle vicinanze del porto.
Il cielo è diafano, c'è molta luce, ma è nuvolo.

178) La condizione umana

Ancora una volta Schumann (3 Romances per  flauto e pianoforte, Rampal) non dimostra nulla.
Mostra la condizione umana, così come può manifestarsi in un giorno qualsiasi.
Vista con gli occhi dell'altro (che è il contadino ingenuo, il pastore o il boscaiolo della tradizione mitica del “buon selvaggio” di tradizione romantica) tale condizione quotidiana è inspiegabile, soprannaturale: la rappresentanza regionale è tanto più nitida ed eclatante quanto più il brano è languido, quasi sonnacchioso.

179) Coincidenze

Quando la regione estetica del mondo parallelo espressa da un brano coincide con la regione del “mondo di qua”, si attua un incrocio, una coincidenza tale per cui il luogo e il momento dell'esecuzione subiscono un processo di mitizzazione.
E' qui il motivo della mitizzazione di concerti, interpreti, ecc...
(N.B.: ci riferiamo con il termine “fenomenico” agli eventi del mondo di qua e con il termine “fenomenologico” alle rappresentanze estetiche regionali del mondo parallelo).

180) Vissi d'arte

Qui il coinvolgimento panico sorge dallo sfondo rispetto alla voce principale della cantante, risiede cioè nell'accompagnamento dell'orchestra.
Questo, tirato come un arco in modo infinito, assorbe e riespande interamente l'energia del brano.
La rappresentanza regionale è ancora una volta di tipo marino.

181) La matematica di Handel

La perfezione e la preconcezione della costruzione, spietata, calcolatrice, semplice eppure tagliente.
Non vi sono i cedimenti che si trovano invece in J.S. Bach.
La rappresentanza regionale di Handel è un campo aperto in pianura, mentre in Bach sono presenti – inaspettatamente - punti scoscesi, avvallamenti e salite: che nell'Empfindsamer Stil diverranno il cuore del paesaggio.

181) Adagio del concerto in sol maggiore D105 per flauto e archi di Tartini

La rappresentanza regionale non è lontana dalle notturne e lussureggianti regioni degli adagi dei concerti per flauto di Quantz.
Ma mentre questi ultimi sono probabilmente vicini a un'oasi di vegetazione rigogliosa,
quest'adagio si trova non distante da un negozio di vendita di abiti all'ingrosso.
In un tardo pomeriggio uggioso e grigio, per questo eterno, di molti anni fa.

182) Il centro misterioso

E se tutte le musiche, ossia tutte le strade del mondo parallelo, tendessero al finale misterioso della sonata di Reinecke per flauto e pianoforte? Se fosse il centro misterioso di tutto il mondo parallelo?
Se tutti i brani precedenti, contemporanei e successivi di tutti gli autori alludessero a quello?
Se una polizia segreta volesse impedire ad un investigatore privato di scoprirlo ed annunciarlo al mondo? (Ricordiamo le trame e le recensioni di romanzi immaginari del grande Borges).

183) Eroismo operistico

In attesa di risolvere il mistero ultimo (forse la verità assoluta, il centro del mondo parallelo), due parole su De Croes (concerto per flauto in si minore n° 2).
Fenomenicamente: eroismo operistico di ascendenza mercadantiana (ed in ultima istanza rossiniana).
Fenomenologicamente, la rappresentanza regionale è una statua di marmo (il riferimento ulteriore è a Foscolo).

184) La coda del primo movimento della prima sinfonia di Beethoven

Fenomenicamente è l'espressione della forza.
Tecnicamente tale effetto si raggiunge con il “tutti” che segue la frase dell'oboe  e con la scansione ritmica.
Fenomenologicamente – come in tutte le sinfonie di Beethoven – vi è lo stabilirsi, o meglio il ristabilirsi di un ordine.
La rappresentanza regionale è quadrata: è la soddisfazione per l'ottenimento di un risultato. Il punto è che Beethoven buca la porta. Ci fa prendere pezzi di mondo parallelo e ce li fa portare di qua. E' un ponte di collegamento con il mondo parallelo o, se si preferisce, una sua profanazione.

185) La sonata preferita di J.S. Bach

In mi maggiore.
Fenomenicamente, l'aspetto ritmico si compenetra con quello melodico (v. allegro del secondo movimento).
Fenomenologicamente: la rappresentanza regionale sono dei capitelli arancioni di un muretto.

186) Studi trascendentali di Arrau

In questo brano di Liszt, Arrau porta in rappresentanza regionale un suono dal tocco di chitarra argentina.
Leggerezza (acqua fresca che usciva da un rubinetto di un posto qualsiasi, negli anni '50 del secolo XX).
Non esiste la definizione per la poeticità assoluta, così come non ne esiste una per il colore rosso o per un altro colore.

187) La sonata di Vinteuil

Com'è noto, la “sonata di Vinteuil” è un artificio letterario della Recherche di Proust, cioè un brano di cui si descrivono moltissime cose (un universo intero) all'interno della narrazione del romanzo e che in realtà non esiste perché Vinteuil è un compositore immaginario.
Naturalmente sono stati fatti numerosi tentativi d'interpretare questa sonata; taluni vi scorgono il riferimento alla sonata per violino e pianoforte di Franck, in base alle descrizioni del romanzo, in particolare per il suo stile vago, indefinito e al contempo passionale e cangiante, tardoromantico e ipercromatico (singolare che si ritenga possibile arguire il riferimento storico-stilistico dalle descrizioni verbali di una sonata inesistente, ma la critica sarebbe capace di questo ed altro, come rivelò inequivocabilmente l'episodio delle finte “facce” di Modigliani recuperate dall'Arno).
Il punto vero è che tale “sonata” è borgesiana intimamente, nel senso che J.L. Borges ci ha suggerito che ciò che è sognato o immaginato non è meno reale di ciò che è toccato o “vissuto”.

188) Una giostra o una ninna nanna

E' l'aura che Rampal riesce a dare alla Siciliana della sonata in mi maggiore di J.S. Bach.
Sospetto che vi siano rimembranze della senna o del porto di Marsiglia.
E' possibile che tutto si svolga (come del resto – diceva Borges – l'intera vita) in un sogno: specialmente laddove la frase è ripetuta piano, appare nitida la meditazione.

189) Giga e Double della Suite BWV 997 di J.S. Bach

L'incredibile (infernale) effetto di tale sequenza di due brani appaiati (formalmente uno la variazione dell'altro) sta nel fatto che la seconda danza (double) riprende la prima in questi termini.
E' l'ascolto dall'altra stanza di un discorso in cui viene presa una decisione.
Ma mentre nella stanza dove si svolge il discorso (la Giga) è la scansione ritmica a definire la decisione, nella seconda stanza, oltre a sentirsi tutto più piano (attraverso la parete) il discorso si fa disarticolato, perché l'eco della scansione ritmica (della decisione) giunge disarticolata e quindi contraddice sé stessa (non più un tono deciso, ma un'eco vaga e tanto affascinante quanto flebile): tale è la rappresentanza regionale di questo doppio brano.

190) Drammaticità in J.S. Bach
La Suite in do minore per flauto (primo movimento) esprime, a livello fenomenico, con il suo ritmo in contrattempo, tale drammaticità.
A livello fenomenologico, la rappresentanza regionale è un avvallo pesante nel terreno del mondo parallelo, dove s'inciampa e che si decide di chiudere, per evitare di farsi male.
Di qui, l'urgenza narrativa che pervaderà poi l'intera Suite come una febbre.

191) Il primo movimento del concerto per flauto di Stamitz

A livello fenomenico (stilistico), è azzeccata – in questo caso - la scelta di suonare la nota successiva a quella puntata in modo stretto, anziché scandito (anche se la lettera del testo contraddice tale prassi stilistica).
Da notare il fatto che nell'incipit della prima sonata per flauto di Leclair, Rampal adotta la scelta opposta.
Ulteriore esempio è il famoso inizio della sinfonia londinese di Haydn, in cui Antal Dorati sceglie la soluzione stretta e Bernstein quella larga e scandita: la cosa curiosa è che entrambe le soluzioni non lasciano ben intravvedere quale sia la corretta forma ritmica del fluire del tempo.

192) Concerto per flauto di Benda

A livello fenomenico: squilibrio tra la parte dell'orchestra, ben costruita, e quella per flauto, che a tratti sembra di puro accompagnamento.
A livello stilistico: è l'Empfindsamer Stil statu nascenti.
A livello fenomenologico: la rappresentanza regionale è un bambino che si sta riprendendo da un quasi svenimento dovuto al caldo umido e allo sbalzo di temperatura nella sala di attesa della piscina, dopo aver fatto nuoto, e che poi uscendo all'aperto, pur debole, si rianima.

193) I pericoli del momento del risveglio

Poiché (con buona pace di Freud) il sogno non è una formazione di compromesso tra io cosciente, censura del Super-io e pulsioni inconsce, ma è una finestra sul mondo parallelo, esattamente come la musica, bisogna citare i pericoli del risveglio.
Sulla scorta di Kafka e Borges, mettiamo in guardia: poiché il risveglio è un buco nero, luogo di passaggio tra i due mondi paralleli (il nostro e l'altro, cioè quello del sogno e della musica) facilmente può succedere, come con il teletrasporto di Star Trek, che a causa di qualche oscura turbolenza, si scambino i due mondi, e rimaniamo perennemente intrappolati nell'altro, che da paradisiaco diventerebbe perciò stesso un incubo perpetuo, o che ci rimanga il dubbio se questo sia il sogno o la realtà, e viceversa.
Tale è anche il momento di maggiore probabilità di trapasso fisico-fenomenico da un mondo all'altro, cui diamo il nome di morte.

194) London Trios di Haydn

Qui la porta si apre grazie alla fusione del timbro del flauto e di quello dell'oboe.
Il procedimento è simile a quello della ninna nanna o dell'ipnosi.
La rappresentanza regionale è una strada sterrata che conduce al mare.

195) Il fascino delle epoche intermedie

I periodi della storia della musica (ma vale anche per la filosofia e – suppongo – per le altre discipline) più interessanti sono quelli di passaggio da uno stile all'altro.
E' chiaro che la premessa di quanto sopra dichiarato è senza senso (che cosa è di passaggio nella storia? Tutto).
Gli è che l'Empfindsamer Stil, per esempio, con le misteriose e magiche assonanze di CPE Bach, Quantz, Benda e gli altri, ci fa percepire un momento in cui c'era qualcosa di nuovo al quale si incominciava a lavorare (e anche, come accennavo sopra, una sorta di contagio dell'ispirazione).
Lo stesso vale – altro esempio – per i concerti per oboe dei barocchi veneziani (Albinoni, Vivaldi, Alessandro Marcello, e gli altri).
Ulteriore esempio: lo Sturm und Drang (che possiamo considerare la fase matura dell'Empfindsamer Stil, incentrato su primi tempi di un allegro agitato, teso e drammatico, con un'aura di vento prima della tempesta, in autunno).

196) La Fantasia di Doppler

Nell'edizione di Rampal (s'è già citato, del resto, il fatto che il disco che contiene questo brano è il migliore che egli abbia mai inciso), quello che è impressionante perché crea l'interpretazione è il timbro del suono e la sua fluidità.
Esistono brani per la fluidità, in cui l'elemento ritmico è un vizio nascosto e tutto si gioca sul respiro e sul timbro.
E' un brano, in questa edizione perfetta, imprendibile: la rappresentanza regionale può essere il risveglio al mattino, ma è altrettanto un gatto.

197) Il mondo di Mahler

Possiamo dire che vaste regioni del mondo parallelo, fino ai primi decenni del secolo XX sconosciute al nostro mondo di qua, disvelarono sé stesse nella musica di Mahler.
Si tratta di regioni del pianto, sicuramente, ma non del piagnisteo.
La rappresentanza regionale è l'eroismo della povertà e della fragilità.

198) Notturno in Do Minore op. KK Ivb/8 di Chopin

Opera postuma, ma considerata giovanile (in senso svalutante: si parla di estrema semplicità e di pecche strutturali), è forse invece davvero l'ultimo notturno di Chopin.
A livello fenomenico tutto è possibile: può darsi davvero che fosse il primo notturno (e che la visione assoluta del mondo parallelo, così chiara all'inizio, si sia inquinata nei notturni successivi, forzatamente intimisti e a volte dolciastri).
Potrebbe darsi invece che, intravvedendo la fine della vita, alla fine del ciclo di notturni Chopin vedesse con semplicità la verità (che bisogno c'è di usare tante parole, quando si dice la verità?).
Il punto è che con questo notturno, a livello fenomenologico, entriamo nel mondo parallelo con la stessa facilità con cui potrebbe entrarvi un bambino.

199) Hic et nunc e Nunc stans

Borges afferma che lo spazio è uno degli attributi del tempo. Cita spesso il fatto che “siamo fatti di tempo”, il che sembrerebbe far prevalere la dimensione temporale su quella spaziale.
Ci dice però – alla fine di “Storia dell'eternità” (saggio che dà il titolo all'omonima raccolta) - che il tempo è un illusione, facendo riferimento ad un episodio di estasi in cui vede un muretto rosa in una via di sera e lo concepisce come il medesimo del secolo precedente (cita, altrove, Schopenhauer che ci dice che lo stesso gatto che vedo è quello che gli egiziani venerarono secoli addietro); di seguito, definendo quest'istante eterno, ci dice che il tempo è un'illusione.
Per non pensare che Borges si contraddica, dobbiamo far ricorso all'intera dottrina del tempo che Schopenhauer abbraccia: quando Borges ha l'istante di estasi davanti al muretto rosa, ha percepito quello che per Schopenhauer è il nunc stans, l'istante che si dilata all'infinito e che coincide con l'eternità (istante eterno di faustiana memoria: “Fermati, attimo, sei bello!”).
Quando invece Borges ci dice che il tempo è un'illusione, si riferisce all'inafferrabile successione di istanti, cioè all'hic et nunc (l'”attimo fuggente”, cioè il carpe diem di Orazio).
Pertanto, riassumendo, per Borges lo spazio è un attributo del tempo, il tempo è la sostanza di cui siamo fatti, ma tale tempo scorrevole, fatto di istanti (hic et nunc, carpe diem) è a sua volta un'illusione, in quanto il vero tempo, che coincide con l'eternità, è il nunc stans, l'attimo che comprende in sé passato, presente e futuro, l'estasi.

200) Su Chopin

La critica reale a Mozart potrebbe adattarglisi.
Troppe note.
Basterebbero pochi frammenti per l'estasi poetica di un mito: essendovene troppi, viene meno la tensione.

201) Dolenzia di Arrau

Arrau aveva il dono della profondità, non della leggerezza.
Così, mentre il suo Liszt è sontuoso e dal timbro argentino, il suo Chopin, con le note rattenute e i tempi non scorrevoli, è dolente.
L'uno si prestava alla seriosizzazione più dell'altro: indimenticabile comunque l'interpretazione del notturno in Do Minore op. KK Ivb/8

202) La struttura del ricordo

Ricordo inatteso, inaspettato, come in Bergson e – in maniera più invasiva e ontologicamente determinata – in Proust.
Ciò si può rilevare dalla struttura del breve e bistrattato notturno di Chopin in Do Minore op. KK Ivb/8.
Per abbreviazione strutturale successiva prima, distrazione poi (procedimento del tipo A-B-C) e repentina, inaspettata reminiscenza della frase B (quindi A-B-C-B), come una cosa ricordata dopo innumerevoli anni: che invece, come nei sogni, è accaduta pochi istanti prima.

203) Chopin in sudamerica

Nei meglio interpretati da Arrau tra i notturni di Chopin, si sente un'aura di dialogo interno, da interno di piano bar dove a bassa voce discutono persone note in giorni sempre uguali.
Qui – dalla quotidianità che confina con l'intimità e talora con l'indolenza - si riverberano talora bagliori: ricordi o speranze.
La speranza è un ricordo del futuro.

204) Origine della teoria del sogno

Troviamo scritto in J.L. Borges, “Tlon, Uqbar, Orbis tertius”, (in Finzioni, Opere complete, Mondadori, p. 632) che “...mentre dormiamo qui, stiamo svegli da un'altra parte, e che dunque ogni uomo è due uomini”.
Qui ha origine la teoria del sogno come accesso al mondo parallelo, non meno reale di questo.
Con l'implicazione che noi qui siamo il sogno del mondo parallelo di là.

205) Onde che attraggono e onde che respingono

Il rubato in Chopin non è uno strumento stilistico esecutivo, ma bensì un elemento strutturale.
Ciò rende più difficile entrare nella porta del mondo parallelo, come se – venendo meno la regolarità agogica – occorresse infilarsi tra un'onda e l'altra, trovando il giusto modo di rubare per rendere sublime la frase che si sta suonando.
Ciò rende più difficile la chiave interpretativa, ossia la coincidenza tra il mondo poetico dell'esecutore in quel momento per quel passo di quel dato brano e la poetica del brano stesso, in quanto – essendo il rubato molto connaturato ai propri aspetti fisiologici e anche idiosincratici (il nostro modo di rubare è molto specifico per ciascuno, come il modo di respirare) - spesso nell'esecuzione-interpretazione si avverte più la personalità (mondo poetico) dell'esecutore-interprete che quella del brano.

206) La chiave di Liszt

Perché Arrau la possieda, è un mistero.
Quasi svanisce la sua sovranità in Chopin.
Forse il motivo risiede nel rubato, che segue il climax ascendente nel caso di Liszt, ed è invece un'onda imprevedibile in Chopin.

207) Liszt apodittico

Prendere sul serio Liszt come fa Arrau porta a una vertigine quasi metafisica.
Forse il connubio – come già ricordato sopra – tra caratteristiche opposte (presunte) del compositore e dell'esecutore porta alle migliori chiavi interpretative.
Qui l'interiorità dell'esecutore e la presunta esteriorità del compositore porta ad un Liszt apodittico: gli Studi trascendentali sono trascendentali per profondità prima che per tecnica virtuosistica.

208) In mezzo al turbine, il trionfo della nostalgia

Tale è la rappresentanza regionale dello Studio d'esecuzione trascendente di Liszt, S. 139 ,n° 12 (Chasse-neige).
La mano sinistra rappresenta il turbine, mentre la destra con l'insistenza finale sulla dominante, in modo minore, allude alla conclusione.
Ormai è autunno.

209) Un'espressione poetica e non diretta

Motivo della minore aderenza della chiave di Arrau per Chopin rispetto alla sua chiave per Liszt, sta a mio avviso nel fatto che Arrau non affronta i notturni scopertamente romantici di Chopin con un'interpretazione altrettanto scopertamente romantica.
La concezione di Arrau dell'interpretazione musicale non prevede la musica come espressione diretta del sentimento, come invece i romantici concepivano e come Arrau dichiarò di non concepire in un'intervista riportata dal settimanale “L'Espresso” degli anni '80 del XX Secolo.
Si può notare tale imbarazzo interpretativo soprattutto nel notturno Op. 9, n° 2.

210) “Funes” di Finzioni di Borges e la “merenda nel verde” di Descrizione di una battaglia di Kafka

Nella famosa frase di Descrizione di una battaglia, in cui due donne parlano, una sul balcone, l'altra in giardino e una chiede all'altra cosa stia facendo e l'altra le risponde “Come, non vedi cara? Merendo nel verde”, vi è una delle esemplificazioni del dubbio espressionistico, il dubbio kafkiano sull'affidabilità della percezione: una cosa non può essere la stessa se vista da due punti differenti di osservazione, da due osservatori differenti, o in momenti diversi.
Così anche Funes, il protagonista ultra-memore dell'omonimo racconto di Borges nella raccolta Finzioni, dotato di una percezione infinita, non può riconoscere lo stesso oggetto come il medesimo, se lo guarda da due punti di vista differenti (perché lo sommergono particolari infiniti e posti in una sequenza differente dello stesso oggetto visto prima).
E, in fondo, forse che entrambi non esprimono a loro volta il convincimento eracliteo che un fiume non sia mai lo stesso, perché l'acqua dentro cambia in continuazione?

211) Squartare il pianoforte

La rappresentanza regionale dello Scherzo e marcia di Liszt (1827) è una macelleria.
Lo scherzo è di un'irruenza sinistra che “ricorda” (virgolette d'obbligo, dato l'anacronismo) l'espressionismo.
E' questo che ha di incredibile Liszt: sembra agitato da forze demoniache.

212) Sogni reciproci

Sogni che dormono e che sognano il mondo parallelo, sogni che vegliano, sognati dai sogni dormienti del sogno parallelo.
Sogno e realtà è una falsa distinzione, come suggerisce Borges in Finzioni.
Appena sogniamo, si sveglia e prende vita, di là, il nostro doppio e appena lui dorme e sogna, noi ci svegliamo e conduciamo la nostra giornata.

213) L'organizzazione del delirio

Scherzo e marcia di Liszt ha una struttura A-B-A, quella classica del minuetto.
Ne è la parodia feroce.
Come il delirio, se organizzato, esprima il grottesco.

214) Il mito è la narrazione del mito

In Arrau prevale la narrazione.
Ecco spiegata l'introversione.
È ricordo. Dal passato al presente.

215) È sicuramente mattino

Gli studi trascendentali di Liszt-Arrau hanno per rappresentanza regionale sicuramente il mattino.
Il colore riguarda un bar sudamericano.
Potrebbe essere un momento di festa all'uscita di una messa.

216) Nostalgia

La narrazione che media l'espressione diretta rappresenta la nostalgia.
È il ricordo del sentimento, non la sua espressione diretta.
Così l'introverso Arrau trova la chiave di Liszt negli studi trascendentali.

217) Onde alte

Serie come Arrau le concepisce, le onde degli studi trascendentali di Liszt ricordano il sublime kantiano.
Un senso di terrore misto ad ammirazione.
Non sono meno oggettive delle sublimi melodie barocche, in cui le passioni son viste dall'alto.

218) La bottega dei concerti per oboe di CPE Bach

A differenza di quella dei concerti per oboe del tardo barocco veneziano, ha la porta aperta.
Pertanto entra il vento.
Si alza lo sguardo, mentre va il meccanismo.

219) Regione stagionale, stagione regionale

Nel mondo parallelo lo spazio-tempo è sincronico.
Pertanto le regioni si moltiplicano con le stagioni e sono contemporanee.
Per esempio, il movimento lento della patetica è sotto Natale, gli studi trascendentali di Liszt sono estivi.

220) Analogie

Correnti di pensiero dominante, ascolto, cosciente influenza reciproca.
Uno o più di tali fattori.
Certo è che le sinfonie di CPE Bach, non tanto nella forma, ma nell'alternanza di tutti e gruppi ristretti (specialmente di fiati), nonché nell'impasto timbrico, ricordano quelle di Mozart.

221) C'è CPE

Tra Mozart e Beethoven, lungo quella terra sconosciuta.
Ogni domenica mattina, tra la messa e il pranzo.
Taciuto, dimenticato, assoluto.

222) Così parlarono i timpani

Il loro ruolo nell'inizio del celebre poema sinfonico di Richard Strauss è fondamentale.
Rappresentano la nietszcheana volontà di potenza.
Sull'aspetto morale di questo tipo di espressione musicale converrebbe aprire un capitolo a parte.

223) La dimensione del sonno

Nella musica per viola da gamba di CPE Bach vi è la dimensione del risveglio.
Siamo distanti molti chilometri, nel mondo parallelo, dall'uso passionale del violoncello.
Qui lo stesso strumento, usato fenomenicamente in due momenti diversi, apre due porte differenti di due regioni differenti dello spazio-tempo del mondo parallelo.

224) Respiri sbagliati

In J.S. Bach, la fine di ogni fine frase è anche l'inizio della frase successiva, perciò non bisognerebbe mai prendere fiato.
In alternativa, si potrebbero prendere molti fiati, tutti sbagliati, nel ritornello.
Come alternativa al ritornello con abbellimenti.

225) Non offendere

Ciò che non capirono i romantici.
Non è necessario strappare serenità alle orecchie con continui, molesti passaggi dal pianissimo al fortissimo.
La foto, o la narrazione, che lasciano il fruitore a debita distanza dalle passioni e dal fastidio fenomenico dell'eccesso di escursione dinamica, aprono un portone sul mondo parallelo.

226) Intimità

Nei concerti per flauto di CPE Bach, troviamo intimità.
Questa passa, anzitutto, dal suono, che è morbido.
Poi dal fraseggio, o meglio dell'articolazione gotica e ascendente delle frasi.

227) Definizioni di J. S. Bach

Fluido, scorrevole, sereno, che fa festa,
Che non muore mai, legato, libero,
Spirituale, ascendente, immanente, trascendente, trascendentale.

228) Regressione dell'io, fenomenologia e mondo parallelo

Con il metodo psicoanalitico, il mondo parallelo ha in comune la regressione dell'io, di cui è una realizzazione.
Con la filosofia ha in comune il metodo fenomenologico, in quanto lo psicoanalitico ascolto del vissuto è anche filosofica e fenomenologica osservazione del fenomeno.
Lo scopo è la ricerca della verità.

229) L'ultimo movimento del concerto in re minore di CPE Bach

Sempre altrove grazie all'universo modulante.
Drammatico, febbrile.
Una decisione va presa subito.

230) Blu al neon

Il bar è l'ultimo avamposto del mondo di qua.
Dietro, dal lato del barista c'è solo l'orizzonte.
Dietro, di là, è il mondo parallelo.

231) Legno

A volte sul flauto, specie se lo strumento è antico, di legno, si schiaccia un po' il suono per renderlo più timbrato, specie nel registro grave, facile ad esser flebile.
Ciò rende il suono simile al legno.
La rappresentanza regionale è una sedia che cade su un piede.

232) Adagi dei concerti per flauto di CPE Bach

Regioni separate e contigue.
Sono contigue temporalmente, perché sono la notte
Notte in questa e quella regione del mondo parallelo, ma a differenza delle regioni notturne di Quantz, che rappresentano l'amore, queste sono più dolenti.

233) Adagio del concerto per flauto di Reinecke

La foresta non è tragica, è mendelssohniana.
Ma non è autoironica.
Non credo che la musica possa esserlo.
Tutto punta verso il sole.

234) La quinta di Ciaikovsky

Mentre adorava la quarta, l'autore disprezzava la quinta, oggi più ammirata.
Il motivo sta nella linfa, più mesta.
Non c'è verve trionfalistica nella sua regione.

235) Bambù

E' la rappresentanza regionale del flauto antico, di legno.
Richiama capanne su spiagge di sabbia fine, dorata.
E' una spiaggia di canne di bambù.

236) Hotel

E' la rappresentanza regionale dell'incipit del concerto per violoncello di Schumann.
L'hotel dovrebbe essere a Venezia.
E' un po' piccolo ed è caro.
Ma splende e fuori è sera.

237) Sensualità in Liszt

Per Liszt una porta privilegiata è il timbro del suono?
Da lì si percorrono le sue regioni?
Se facciamo eccezione per il Liszt apodittico-eroico di Arrau, sembrerebbe di sì.

238) Berceuse di Liszt per pianoforte

La rappresentanza regionale è l'acqua.
L'acqua scende dolcemente dal piano di sopra, da qualche parte e invade la casa, mentre dormiamo.
Ma poi ci svegliamo: era un sogno.

239) Il primo movimento della prima sinfonia di Brahms

La rappresentanza regionale è sicuramente montana (linee melodiche ascendenti e discendenti, a spirale, a terrazza).
Vi è, in più, una robusta possanza beethoveniana.
In termini di rappresentanza regionale, essa esprime la soddisfazione di vincere l'insoddisfazione tramite la forza: è come se qualcuno battesse i pugni sul confine del mondo parallelo, facendo risuonare i colpi di qua e di là.

240) Il primo movimento della quarta di Brahms

La rappresentanza regionale sembrerebbe essere un dramma medioevale.
Il timbro, il colore, ricordano il rosso amaranto e le mura di una chiesa.
C'è l'odore di umidità e di piante.

241) L'ultimo movimento della terza di Brahms

Qui vi sono strappi.
Come quando si toglie un cerotto dopo molte ore.
In un certo senso, c'è qualcuno che sta battendo i pugni sul muro di confine del mondo parallelo.

242) Primo movimento del primo quartetto per archi di Brahms

Questo è l territorio del romanticismo più fitto.
Vi è un'accesa discussione, vibrate proteste.
Alla fine della discussione, si possono notare dei fiocchi viola sul tappeto.

243) Secondo movimento

C'era quel rigoglioso cespuglio,
la fresca verzura,
l'ombra azzurrina.
Ora non c'è più nulla.

244) L'inizio della seconda di Brahms

Qui a possedere la chiave è Muti.
L'aspetto lirico-melodico è fondamentale
L'impasto di archi e ottoni dev'essere avvolgente e l'agogica asciutta, mai slabbrata.

245) La regione del primo quartetto di Brahms e quella del primo di Schoenberg

E' contigua (nonostante il periodo cronologico fenomenico e l'”etichetta” storico-musicale siano diversi).
La differenza in termini fenomenologici sembra risiedere nel fatto che mentre nel caso di Brahms (brani laterali) vi è un gruppo indigeno che s'accapiglia oltre misura, nel caso di Schoenberg vi è un gruppo che s'accapiglia un po' meno, ma si tratta di stranieri.
Tale è la rappresentanza regionale.

246) Il motivo della coda dell'ultimo movimento della Quarta di Brahms

Qui le chiavi devono essere forgiate con precisione.
Troppo facile è farlo scadere in una tranquilla melodia fuori luogo, come di uno che continua a cantare sotto le bombe, perché non ha capito la gravità della situazione.
Né dev'essere un lirico rilassarsi, che affosserebbe l'energia della stretta finale.
Per preparare tale stretta, il motivo dev'essere premonitore, come lo erano i voli degli uccelli nell'antichità; e proprio del passaggio di un uccello deve trattarsi: sorprendente nella sua grazia nostalgica, apparentemente fuori luogo rispetto alla tempesta, ma in realtà premonitore della feroce stretta finale.

247) Il finale del primo movimento della sesta di Ciaikovsky

Qui si hanno – a livello fenomenico - due moti , uno parzialmente ascendente che è la linea melodica e uno discendente che è la linea ritmica.
La rappresentanza regionale resta sospesa a mezz'aria.
Apre – come le scatole cinesi – una porta nella porta.

248) Aspetti ritmici dell'ultimo movimento della quarta di Brahms

Si tratta di precisazioni isteriche.
Puntualizzazioni gridate.
La chiave (ampiamente posseduta da Abbado) consiste nell'amplificare al massimo la loro capacità retorica, lasciandole asciutte e strette a livello agogico.

249) Le chiavi di Maazel

Penso soprattutto al concerto per violoncello di Saint-Saens.
Qui la sinuosità, la morbidezza, la sensualità, il colore e il calore del violoncello di Yo-Yo Ma sono perfettamente calibrati con il timbro e il fraseggio dell'orchestra.
Galante, leccato, superficiale?
So solo che – attraverso l'”etichetta” - Maazel entra nella porta.

250) L'importanza storica (geografica) del secondo e terzo movimento del secondo quartetto per archi di Schoenberg

In termini fenomenici, si tratta di due movimenti mahleriani, disperati, che segnano l'ultimo atto dell'umanesimo visibile nella storia della musica: ultimo atto in quanto a partire dal terzo quartetto l'umanesimo – a sua protezione – sarà reso invisibile da Schoenberg, invertendo i segni del linguaggio, come in un codice segreto dei sentimenti che non deve essere scoperto dai nazisti (per evitare la strumentalizzazione del sentimento e il suo utilizzo a fini propagandistici di regime).
A livello fenomenologico, si tratta di una moglie/madre (il soprano, scelta tecnica originale per un quartetto) che piange o teme la morte di suo figlio/marito.
E' un passaggio storico a livello fenomenico (l'ultimo affido dei sentimenti alla melodia, prima dei successivi, aggrovigliati quartetti in cui tutto è nascosto) e geografico a livello fenomenologico, in termini di universo parallelo (le due regioni – quella dei due movimenti finali di questo quartetto e quella dei due quartetti successivi, sono in realtà contigue, solo che la seconda è separata dalla prima da un burrone).
Postilla: inutile dire che Boulez, nel suo celebre saggio “Schoenberg è morto” era adirato perché voleva smascherare precisamente il romanticismo che era stato nascosto da Schoenberg nell'atonalità prima e nella dodecafonia poi (per Boulez la freddezza, non il sentimento, era garanzia unica di libertà).

251) Importanza

La preoccupazione è giustificata.
Il padre-marito-figlio è morto in guerra e la madre-moglie-figlia muore di dolore.
L'espressione fenomenologica della realtà tragica (rappresentanza regionale del tragico) è bellezza e verità.
Nulla – nell'espressionismo musicale – è contro-propaganda che strumentalizza la musica per scopi altri da sé (fossero pure quelli, nobili, della denuncia sociale e umanitaria), ma bensì è l'espressione estetica fenomenologica del dolore e del tragico nella sua pura bellezza (l'aspetto umano) che è riuscito a rappresentarsi con le opere degli autori espressionisti.

252) Cieli gelidi

L'interpretazione di Celibidache del movimento lento dell'Italiana di Mendelssohn.
La ieraticità: chiave centrata, porta aperta (anche nel mondo parallelo vi sono chiese e templi).
Gelido, cristallizzato il cielo: non tira un alito di vento per permettere al miniaturista di sistemare tutti i dettagli del presepe senza che un solo dettaglio vada fuori posto.

253) Abbado e il sacro Pergolesi

Stabat Mater, Abbado, Berliner, 1968. soprano Gundula Janowitz.
Grazie al cesello del fraseggio superbo, il bassorilievo si anima, si possono vedere figure in lontananza che si avvicinano, gruppi danteschi di narratore e ascoltatore (qualcosa è successo, sta succedendo).
E – prima che siamo giunti alla fine del brano – abbiamo passato almeno due stagioni: all'inizio era estate e siamo finiti dritti nella notte di Natale.

254) Concerto per flauto in sol maggiore n. 161 di Quantz-Galway

La chiave è il miele, l'oro, il canto.
La rappresentanza regionale sono i giardini fioriti, gli allegri drammatici (Sturm Und Drang: bisogna andare a fare qualcosa) e l'incredibile adagio.
Qui siamo in un negozio di tappeti, con luci e suoni soffusi (fuori è sera) e in un angolo vediamo uno che fa un buco enorme a un tappeto: squarcia il velo di Maya, tridimensionalizza e attraversa la storia della musica dei libri e raggiunge il romanticismo musicale.

255) Nave con murales

Come una  nave in partenza da un piccolo porto festoso per raggiungere un isolotto talmente vicino che forse si può raggiungere anche a nuoto.
Sulla fiancata della nave sono dipinti dei murales molto colorati.
Tale è la rappresentanza regionale del primo concerto per pianoforte di Prokofiev; i riferimenti fenomenici alla piccolezza hanno forse riscontro nella brevità del concerto (denunciata da Rattalino) e il riferimento alla nave è dettato dal suono come di sirena di una nave che chiude il concerto.

256) In autunno

In generale, la rappresentanza regionale dei concerti per pianoforte di Prokofiev è uno in una stanza in penombra, con le veneziane abbassate: fuori sta succedendo qualcosa, dentro c'è quiete, ombra e fresco. Fenomenicamente potrebbe essere la morte, o un sonnellino di un bambino nella camera della nonna, tanti anni fa.
L'incipit del secondo concerto per pianoforte è invece una passeggiata al rallentatore in una via moderatamente assolata d'autunno, quando si tirano su molte foglie secche camminando.
Il finale a sorpresa del primo movimento è la trasformazione di questo movimento umano in un meccanismo che s'inceppa (volutamente sciocche ripetizioni ritmiche del pianoforte, a livello fenomenico), fino all'arrivo della nave da guerra che certamente chiude un capitolo e ne apre un altro.

257) Laguna blu

Il caso vuole che il titolo di questo film per adolescenti (non è necessariamente un sottogenere) sia la rappresentanza regionale del secondo tema del primo movimento del primo concerto per pianoforte di Brahms.
La profondità raggiunta dal pianoforte nell'enunciare il tema può riguardare un parco urbano.
La stagione è la primavera inoltrata.

258) Su una poltrona

Le sirene o i tutti con ottoni dei concerti per pianoforte di Prokofiev transitano nelle vicinanze delle regioni del mondo parallelo delle sinfonie di Shostakovich.
Tuttavia, la rappresentazione fenomenica del comporre, del mondo parallelo, potrebbe essere quella di un vecchio uomo su una poltrona, visto di spalle, con un quadro di fronte, negli anni '70 del 900.
Quell'uomo è morto, ma molto tempo dopo.

259) Scatole cinesi

Quanto sopra pone una questione.
Se anche aspetti fenomenici del comporre entrano a far parte del mondo parallelo, si pone il problema di quel che rimane nel mondo di qua.
E se quel che rimane può rientrare anch'esso nel mondo parallelo, sarà come con le scatole cinesi.

260) La questione dell'agogica

Nel mondo fenomenico (e ciò avrà ripercussioni, immagino, nel mondo parallelo), grande importanza ha la questione della tenuta agogica dei pianisti.
Secondo Gould il rubato tipico del modo di suonare il pianoforte di molti era un modo per mascherare una non perfetta padronanza tecnica dello strumento, mentre secondo altri, gli unici ad avere il vero senso del tempo sono proprio i pianisti, in quanto hanno sempre presenti la mano destra e la sinistra, il canto e l'accompagnamento, o le due voci che s'intrecciano polifonicamente, o la melodia e l'armonia, o il lirismo da un lato e il ritmo dall'altro.
Certo è che, specialmente nella musica barocca, niente mi ha mai dato più fastidio di un andamento libero e rapsodico, di un abuso del rubato, mentre invece ritengo giusto quanto sostiene a proposito del rubato Barenboim, che se non erro si può riassumere come segue: affinché il rubato funzioni, ogni volta che rubi qualcosa, la devi poi restituire entro la fine della frase.

261) La porta dei brani

Fin qui si è parlato della chiave degli interpreti (per entrare nel mondo parallelo), ma occorre affermare il medesimo concetto anche per la porta dei brani interpretati, ossia per l'attitudine dei brani a essere rappresentanza di porzioni del mondo parallelo.
Possiamo ipotizzare, analogamente a quanto abbiamo fatto per le interpretazioni, che non tutte le parti di un brano (e ciò vale per ogni brano di ogni autore di ogni tempo) siano porta per il mondo parallelo, ma bensì muro.
Il muro non va inteso come barriera respingente, ma come indispensabile supporto per le porte (senza muri, le porte non stanno in piedi): fenomenicamente, possiamo descrivere i muri come parti del linguaggio musicale – ridondanti – la cui funzione è di preparazione retorica ad un momento importante del brano stresso (come per esempio i “crescendo” sono la preparazione al “tutti”).

262) Possibili conseguenze e rifiuto

Quanto sopra implicherebbe un'evoluzione importante nella nostra teoria del mondo parallelo e cioè che non vi sarebbe – schematicamente – l'interprete che sta nel mondo fenomenico e il brano interpretato che è rappresentanza del mondo parallelo, ma bensì, l'interprete potrebbe stare sia nel mondo fenomenico, sia nel mondo parallelo (v. 258 “Su una poltrona”) e altresì il brano interpretato starebbe nel mondo parallelo, ma anche nel mondo fenomenico (i cosiddetti “muri” citati in 261, “La porta dei brani”).
Ciò porterebbe però ad un'impasse per quanto riguarda la nostra teoria, perché, se spogliamo i brani della loro natura solo di mondo parallelo, rischiamo di cadere in una teoria metafisica tradizionale, indipendente dalla musica (la musica diventerebbe ininfluente nella teoria, in quanto anche la musica si dividerebbe in una parte rappresentante dell'aldiquà e in una parte rappresentante dell'aldilà, in base a ragioni estrinseche alla musica stessa, cioè in base ad una vicinanza maggiore o minore rispetto ad una dimensione metafisica ulteriore).
Pertanto, conviene rifiutare, per il momento, quanto sostenuto in 261 e mantenere (esplorare) quanto affermato in 258: diversamente rischieremmo di ridurre quella che per alcuni potrà pure essere definita una “metafisica musicale” (la nostra teoria estetologica del mondo parallelo) ad una mera porzione della metafisica tradizionale.

263) L'esplorazione di 258

L'esplorazione di ciò cui allude 258 (e il contestuale rifiuto di 261) ci porta secondo me ad un'evoluzione esaltante della nostra teoria.
Se l'interprete entra nel mondo parallelo (il compositore entra nel mondo parallelo con tutta la sua poltrona mentre sta componendo), allora può darsi che piano piano, tutta la realtà fenomenica venga risucchiata dal mondo parallelo, come gli oggetti su un tappeto, che, tirando il tappeto, se ne vengono via anche loro.
Si pongono le premesse per l'ingresso dell'intera realtà nel mondo parallelo, attraverso la musica e quindi per un processo di poetizzazione di tutta la realtà.

264) Precisazione importante

Per “interprete”, in 258, 262 e 263, intendo “interprete del mondo parallelo”, non distinguendo tra interprete inteso come esecutore, strumentista, direttore d'orchestra, ecc..., e compositore.
Infatti – a rigor di termini – entrambi (l'interprete inteso come esecutore e l'interprete inteso come compositore) sono interpreti, cioè interpretano la realtà del mondo parallelo.
Quanto enunciato qui sopra spiega il rifiuto di 261, espresso in 262: il compositore è strumento di rappresentanza del mondo parallelo, pertanto non possono esservi parti fenomeniche nelle sue composizioni, ma è bensì sul piano fenomenologico del mondo parallelo che vanno spiegate le parti apparentemente ridondanti, chiamate “muri” in 261.

265) L'Andante della quarta sinfonia di Haydn

Qui siamo in una regione della pace e della tranquillità, vicina a quella dell'Aria sulla quarta corda di Bach.
Come del resto in tutte le prime sinfonie di Haydn, i cui movimenti intermedi contengono splendide serenate per archi che ricordano il mondo dei quartetti.
Quello splendido parco di una villa settecentesca (possibile coincidenza di luogo fenomenico e fenomenologico).

266) Il Minuetto e Trio della sinfonia n. 6 di Haydn (e anche della n. 7 e n. 8)

Il minuetto è meccanismo (sarà molto importante riprendere il discorso sul valore del meccanismo).
Il Trio è voce dall'altra stanza (qualcuno risponde dall'altra stanza).
La rappresentanza regionale, attraverso uno snodo danzante, è una regione boschiva,  territorio di caccia.

267) L'adagio cantabile della sinfonia n. 13 di Haydn

Qui vi è il diletto cello, collante del mondo.
La rappresentanza regionale è duplice (una forma di strabismo, forse, mi fa vedere come ducplice ciò che è molteplice).
Prima siamo in un negozio di mobili, poi in strada, lungo il marciapiede con a fianco il muro in lastroni di porfido della casa popolare (nel passato o nel futuro: messianesimo di periferia, forse, come suggerisce il ricordo di una lettura di Walter Benjamin).

268) L'importanza del meccanismo

Nelle sinfonie di Haydn.
Fenomenicamente, possiamo attribuirla al ritmo.
Il meccanismo ritmico potrebbe essere il cuore (il motore immobile, anzi, il cuore pulsante) del mondo parallelo: questo aprirebbe su basi fenomenologiche la disputa fenomenica cui si accennava all'inizio del libro, se cioè la musica tragga origine da un presunto canto senza tempo o da un ritmo danzante; le sinfonie di Haydn hanno come dato strutturale l'incorporamento del ritmo danzante.

269) Fioriture

Se nella musica, ad essere originario è il ritmo (cuore pulsante del mondo parallelo che rappresenta sé stesso nelle sinfonie di Haydn), allora la melodia è nata come abbellimento del ritmo.
Come la fioritura sul ramo dell'albero.
Il melos, secondo questa ipotesi, non esisterebbe senza il ritmo: quindi la musica non esisterebbe senza tempo; la centralità del tempo sarebbe in analogia con la definizione di musica come una delle forme del tempo; la definizione è di Borges che la desume da Schopenhauer (la definizione di Borges qualifica questa forma del tempo che è la musica, ma ora non ricordo che qualifica il poeta le assegna).

270) Diramazioni

A livello fenomenico, se credessimo all'evoluzionismo musicale di una pretesa storia della musica, criticata da Gould come “Sindrome di van Megeeren”, potremmo affermare che la sinfonia è centrale per la musica, la sinfonia nasce come ritmo, il padre della sinfonia è Haydn, da Haydn – o meglio dalle sue sinfonie che contengono il ritmo come fattore originario e la melodia come fioritura, o abbellimento del ritmo - si diramano (o meglio proseguono) due tradizioni: quella del melos puro che porta dritto a Mozart e quella del ritmo che porta dritto al Beethoven sinfonista (con apice  e punto di svolta storico-musicale nella terza).
Una bella schematizzazione di una diramazione imaginaria che però forse non ci dice molto, anche se a livello schematico funziona (tutto funziona sempre a livello schematico, dal momento che decidiamo noi che cosa mettere e che cosa omettere in ogni schema che creiamo e che lo schema rassicura sempre ogni spettatore sul fatto che “dietro questa spiegazione c'è una logica”, anche quando non c'è nulla da spiegare e anche quando la logica schematica con cui si spiega tale nulla si fonda su grossolani errori logici: lo schema è la quintessenza del meccanismo di difesa inconscio della razionalizzazione).
A livello fenomenologico, per ora accontentiamoci di dire che brani come il Minuetto e Trio della sinfonia n. 26 (in modo minore, con ritmo teso e vibrante) gravitano molto vicino al nucleo ritmico (meccanismo) – in quanto brani Sturm Und Drang: e poi dovremo anche dire perché i brani Sturm Und Drang gravitano secondo noi vicino al nucleo – e che una delle caratteristiche del nucleo centrale dell'universo parallelo (il mecanismo haydniano) è il ritmo anche in quanto ripetizione (ripetizione ritmica come cuore pulsante originario).

271) Prende forma

La questione della forma sonata (ma anche delle forme di tuttti i tipi): è un'organizzazione cosciente di frammenti provenienti dal mondo parallelo, ma è in quei frammenti, più o meno saggiamente organizzati, che sta l'oro.
La forma sonata attesta anzi la teoria del mondo parallelo, nel momento in cui vuole riorganizzare materiale celeste secondo la trama del romanzo della vita di qua.
Uno dei primi esempi di tale organizzazione si ha nelle sinfonie di Haydn a partire dalla n. 36, con culmine nella bellissima, dramatica 39, ancora una volta porta nella porta (a livello fenomenologico) e punto di svolta trans-storico (a livello fenomenico): basti pensare che l'aria che si respira è la stessa della sinfonia n. 40 di Mozart (mi riferisco in particolare, come sempre, ai primi movimenti di ambedue).

272) L'importanza della forma sonata

Mi sono sempre chiesto il perché del fascino della forma sonata (quintessenza del meccanismo).
Proprio il calco, che può sembrare vano (“bitematica e tripartita”, ecc...) è ciò che giustifica il mondo parallelo.
Se le parti divine sono l'oro che viene dallo spazio, il fatto di incardinarle (imbrigliarle?) nella quotidianità, nella routine quotidiana della forma detta forma sonata, definisce la felicità (l'infinita bellezza del mondo parallelo, per altro così simile al nostro) come segue: la celestiale profondità che prende vita nel quotidiano (che coincide con il quotidiano); altrimenti, possiamo anche definire le perle dell'ispirazione come persone e lo stampo della forma sonata come gli oggetti del nostro quotidiano.

273) Sturm Und Drang e forma sonata

Nelle sinfonie dalla 42 alla 45 di Haydn, abbiamo il noto corridoio di foglie autunnali.
Questa regione è vicina a quella – altrettanto nota – degli omologhi quartetti.
Non siamo distanti, chilometricamente, dall'incipit del secondo concerto per pianoforte di Prokofiev.

274) 49 e 52

Le due sinfonie di Haydn 49 e 52 sono tra le più febbrili e tutti citano a tal proposito lo Sturm Und Drang, come se si trattasse di un periodo passeggero (una febbre), mentre invece è la rappresentanza di una zona (il che non esclude che prima e dopo la composizione di tali sinfonie la cui rappresentanza regionale è quella zona, il compositore sia stato ispirato dalla rappresentanza regionale di altre zone).
Una domanda fenomenica al riguardo potrebbe essere: per Haydn fu solo una posa? (Cioè, egli in realtà non fu mai febbrile, seguiva una moda del tempo, o una febbre che era nell'aria in alcuni, pochi anni, della seconda metà del '700?).
La domanda qui sopra ne sottointenderebbe un'altra (nostalgica, forse): come si fa ad abbandonare lo Sturm Und Drang dopo averlo trovato?

275) L'andante della sinfonia n. 60 di Haydn

Il motivo è così tipizzato da rappresentare una concentrazione vitale regionale tale da poter essere identificata con una persona o con uno stato.
La rappresentanza regionale è la convalescenza.
E' come intingere al mattino un biscotto in una tazza dopo una lunga malattia, quando ancora non si sa bene se quella sensazione strana che si prova di fronte alla normalità sia da attribuirsi alla guarigione o a un assaggio della morte.

276) Presto della sinfonia n. 60 di Haydn

Di tutti i motivi e movimenti citati ad esempio dello Sturm Und Drang, questo ne è a mio modesto parere la quintessenza.
Qui c'è qualcosa da prendere.
Perciò si corre febbrilmente.

277) Il Minuetto e Trio della sinfonia n. 57 di Haydn

Qu si ha quel colore dell'autunno ancora chiaro.
Le sere hanno luce a sufficienza.
Stiamo guardando la strada attraverso la vetrina di un negozio e il caldo svapora in quel profumo umido di fine estate.


278) Minuetto e trio della sinfonia n. 58 di Haydn

Qui, come spesso nel Minuetto e trio di Haydn (e su su fino a Beethoven) vi è uno splendido cambio di passo (scena) tra la A (minuetto) e la B (trio).
La rappresentanza regionale è l'uscita di casa d'inverno.
Dentro era caldo e luminoso e fuori è freddo e il grigio ci investe subito, ma non ci dispiace e andiamo.

279) Prevedibilità

Una delle caratteristiche del mondo parallelo è la prevedibilità, nel senso elogiativo di quotidianità che – come già i grandi scrittori del passato compresero – coincide con la felicità.
In tal senso la ripetizione del meccanismo è il versamente fenomenico (tecnico-stilistico) di cui si serve la rappresentanza regionale della porzione di mondo parallelo delle sinfonie haydniane.
Io immagino che il versante fenomenico felice sia stato aiutato dagli immensi, bellissimi parchi e giardini della reggia dove Haydn viveva, ospite dei suoi mecenati.

280) Ogni metafora è un luogo comune

Sull'andante della sinfonia n. 60 di Haydn, ancora c'è da dire che si sbuca da un cespuglio di rose.
Il meccanismo è quello del secondo movimento dell'ottava di Beethoven.
Entrambi conducono su di un piroscafo che salpa per il nuovo mondo nell''800, e più precisamente al secondo movimento della sinfonia n. 9 di Dvorak.

281) Lo scrittore ipnagogico e ipnopompico

E se noi riuscissimo a scrivere come quando immaginiamo, prima di dormire, senza un freno, senza un filo, con la sola, rigorosa logica delle immagini, delle sensazioni,  dei suoni, dei sapori e degli odori?
Se riuscissimo a creare come nella sensazione dal sapore benefico che ci dà il notro volto quando – a ragione – oltrepassiamo l'ora in cui ci svegliamo presto?
Se quel sapore fosse l'unica cosa esistente, né pensiero, né parola, né fatto, né atto, né coscienza, né incoscienza, magnifico portento?

282) Il primo movimento della sinfonia n. 72 di Haydn

RR= (la rappresentanza regionale è): scale mobili a scendere e a salire in un ampio negozio di lampadari.
Oppure (RRA= rappresentanza regionale ambivalente): la casetta dei bambini da cui si entra ed esce, in quanto tana, nascondiglio, ecc...
Oppure (RRP= rappresentanza regionale polivalente): il gioco del nascondiglio in soffitta, in un cottage in cima a una salita in mezzo al bosco. (La soffitta è la rappresentanza regionale del Flauto magico di Mozart).

283) Primo movimento della sinfonia n. 80 di Haydn

C'è qualcosa che cola, o che pende, semisolido, da una grondaia grigia.
L'aria è fresca e il cielo terso.
La RR è una sensazione.

284) Sillogismo

La RR è sempre una sensazione.
La sensazione è sempre una RR.
(RR= sensazione)
La RR è imortale.
Pertanto, qualunque sensazione è imortale.
(Si tratta forse della verità ultima, nascosta, citata nella premessa?).

285) L'ultimo movimento del concerto per flauto di Pergolesi

Si tratta di scendere e salire dalle scale in ferro.
Ciò ha a che vedere con un gioco di cowboy.
Non si tratta di un soppalco: le scale, le assi in legno che fanno da libreria, sono uno spazio sconfinato (giù c'è il vuoto, la città illuminata da lontano).

286) Il secondo movimento della sinfonia n. 76 di Haydn

La rappresentanza regionale è un'insistenza esasperata.
Dopo l'ennesimo errore.
Il rimprovero continua mentre si sta pattinando sul ghiaccio.

287) La quintessenza del meccanismo

E' l'allegretto della sinfonia n. 82 di Haydn.
Qui la ripetizione vi gioca un ruolo particolare, insieme al manierismo del motivo melodico.
La R.R. È un gioco in cui tutte le miniature si muovono sincronicamente.

288) L'essenza schilleriana della forma sonata

Portata al suo apice da Beethoven, questo principio di carattere schilleriano è inaugurato da Haydn.
Si tratta di uno spirito volto a coniugare il massimo di libertà con il massimo di sistema (come le anime belle sdi Schiller, appunto, che sono virtuose lieramente, senza esservi costrette).
Se ne può notare un esempio nel primo movimento della sinfonia n. 87.

289) Maggiore e minore

Uno degli strumenti espressivi – lato fenomenico – per esprimere la libertà all'interno dello spirito di sistema è l'utilizzo del modo minore nello sviluppo (e nel trio, sezione centrale del rondeau minuetto).
Haydn lo utilizza in modo potente nelle sinfonie (all'inizio dello sviluppo il primo tema è presentato in modo minore).
Beethoven usò questo e altri segnali per significare il fatto che la ragione poteva organizzare il sentimento, secondo l'ideale schilleriano.

290) Ultimo movimento della sinfonia n. 89 di Haydn

Fenomenicamente: l'uso della sincope nella sezione B di un tradizionale minuetto,  usato in modo alquanto inusuale come forma dell'ultimo movimento (solitamente in forma sonata) rende tutto più frizzante.
Fenomenologicamente: la sezione B, con lo stacco non solo di modo (da maggiore a minore), ma anche di ritmo significa qualcosa di molto importante:
nei corridoi di un vecchio edificio abbandonato (è tardi ormai e sono andati tutti a casa) si sta scoprendo una verità ultima.

291) Il problema dell'incipit della sinfonia n. 88 di Haydn

Acciaccatura o appoggiatura per la prima nota?
Accento sulla prima (Bernstein) o sulla seconda nota (tutti gli altri direttori)?
Il dilema è un rovello incessante, perché la musica cambia completamente: è come avere ai piedi due scarpe diverse.

292) Rischio

Tra Mozart (canto) e Beethoven (ritmo), c'è il rischio di accentuare troppo, nell'interpretazione delle ultime sinfonie di Haydn, la componente beethoveniana.
Ciò perché la robustezza (volume sonoro complessivo e preponderanza dell'aspetto ritmico) inducono a vedere nell'ultimo Haydn un Beethoven ante litteram.
Secondo me invece è bene pensare al melos, senza spingere troppo sulla forza, come invece fa Bernstein (che inevitabilmente pensa a Beethoven in quanto è+ il centro della sua poetica interpretativa).

293) L'alba di un mattino di un giorno dal sole radioso

E' il finale (non il movimento intiero e nemmeno la coda, ma proprio le battute finali) della sinfonia n. 89 di Haydn.
Come ciò risulti evidente, nel passaggio da un'analisi fenomenica ad una fenomenologica, non è del tutto chiaro (“emerge” sarebbe forse il termine più adatto, se non richiamasse in modo troppo meccanico e smaccato la procedura fenomenologica husserliana).
Forse, per capirlo, serve complicare, anziché semplificare il discorso, e ciò si può fare aggiungendo qualcosa, cioè accennando ad altro: possiamo dire che questo finale è un pezzo, un lembo di paradiso del quale Mozart ci dà continui esempi, tramite le sue passeggiate nei giardini fioriti dell'eden, in cui senza soluzione di continuità e senza la concatenazione logica beethoveniana (la “ragione degli avvocati”, come ebbe a definirla il grande Jankelevitch), ma bensì tramite una successione che ha una logica del tipo “a vista” (vedo questo e poi più in là vedo quello e più in là qualcos'altro di diverso e di ancora più bello...), emerge il bello.

294) Organizzazione e Eden

Nelle ultime sinfonie di Haydn si percepiscono – con logica fenomenica a posteriori, quindi di valore solo suggestivo – le due diramazioni, Mozart e Beethoven insieme.
L'uno sceglierà Eden (nessun piano organizzato, ma successione di giardini fioriti), l'altro sceglierà l'organizzazione (devo mettere queste oasi in una logica concatenata).
Quale fosse l'anima prevalente di Haydn, non saprei.

295) Versante fenomenologico

Sul versante regionale (fenomenologico), possiamo far disendere da 294) che la regione di Haydn (la macroregione, meglio) si situa grosso modo, tra quella di Mozart e quella di Beethoven.
Non quindi, come la cronologia storica vorrebbe suggerire (e nonostante l precisazioni sull’evoluzione stilistica di Haydn e sulla lunghezza della sua vita di compositore, lo suggerisce ugulamente), prima di quella di Mozart e ancor più lontana da quella beethoveniana.
E’ proprio la regione estetica, non lo stile, ad essere intermedia e ad avere connotazioni estetiche un po’ dell’uno (Eden) e un po’ dell’altro (organizzazione concatenata logicamente).

296) La via della demenza

Fu davvero così, per Haydn?
Quali elementi vi contribuirono? Sembrerebbe infatti che la composizione e il contesto di parchi e ville bellissime non facilitassero la demenza.
Fu il cattivo rapporto con la moglie? I dispiaceri? Si potrebbe eventualmente  intuire qualcosa di questa presunta degenerazione cognitiva dai suoi ultimi brani? Sembrerebbe proprio di no.

297) L'andante della sinfonia n. 94 di Haydn

Altro cuore, forse ancor più famoso, del meccanismo.
Il procedere attraverso le variazioni lo rende unico e – probabilmente – il sentiero delle variazioni (di qualsiasi tema e variazioni di qualsiasi compositore di qualsiasi tempo) porta, come all'altro capo di un labirinto – nella medesima regione della “Follia”.
Di tutte le follie (Corelli, Handel, Rachmaninoff, ecc...) e di nessuna, ossia del tema originario e di tutte le sue possibili conseguenze, diramazioni ed evoluzioni.

298) Non offendere (2)

Nelle ultime sinfonie di Haydn, alla magniloquenza s'accompagna inevitabilmente un sentimento magmatico del brano, quasi tardoromantico.
In ciò, l'aspetto più aspro è l'alternanza continua fortissimo pianissimo (offendi-udito).
Quale discesa al miele, al confronto, i primi concerti per piano, tranquillo dialogo alternato tra strumento e piccolo gruppo orchestrale, perle cameristiche diafane, lisce, ragionevoli.

299) Don Giovanni

Nella bellissima aria del Don Giovanni mozartiano "Fin c'han dal vino”, nell'edizione di Giulini che tiene il tempo tenacemente ed adotta un accorgimento espressivo geniale (l'accelerando finale), emerge che Don Giovanni non è dominus, ma è agìto da una pulsione irrefrenabile.
Non conduce il gioco della seduzione, ma ne è condotto, non è un eroe, più o meno romantico, della libertà.

300) I concerti 20 e 21 di Mozart di Bernard Klee con Kempff

Non si tratta solo di valorizzare lo stile operistico di questi concerti, né di solamente di renderne – magnificamente – l'aspetto “dilettantistico” della parte per pianoforte (virtuosistico, ma facile e un po' impacciato).
Qui c'è anche il colore di tutti quei suoni.
I profumi di quei sentieri boschivi di montagna.

301) Fu vera gloria? (Età fenomenica ed ingresso nella porta)

L'età fenomenica (in senso soggettivo, non anagrafica) ha il suo peso nell'ingresso della porta.
Il soggetto dentro non è più lo stesso (esteriormente può essere simile, ma cambiatissimo, viceversa esteriormente può essere cambiatissimo, ossia invecchiato, e invece dentro essere il medesimo).
Così Bernstein non entrava nella porta di “Francesca da Rimini” di Ciaikovsky da giovane, all'epoca della sua registrazione del brano, in cui risultava lento, impacciatissimo, e vi entrò invece da vecchio, nella sua ultima incisione dello stesso brano; caso analogo e opposto è quello di Giulini, che centrò in pieno la porta con il suo Don Giovanni giovanile e che nelle ultime incisioni (Brahms su tutti, ma non solo) mi ha sempre fatto venire sonno.

302) Pace e serenità

E' la rappresentanza regionale dei due “Adagio” dei due concerti per corno di Haydn.
Tutto si scioglie, tutto si risolve.
Mai il corno ebbe suono più dolce, sensibile eppure così distante dal corno romantico, che pure fu giustamente ritenuto (il corno in epoca romantica) lo strumento romantico par excellence.

303) I concerti per violoncello di Haydn

La R.R. È il mattino, e non la sera, come invece sarà nell'uso romantico del violoncello.
Importante è l'identificazione dell'orario diverso con due regioni diverse.
Nel mattino possiamo mettere il preromanticismo (il mattismo già sveglio e operoso, non la fase del risveglio che è appannaggio dei romantici), mentre nella sera possiamo mettere tutto il romanticismo cameristico: testiamo sui brani tale distinzione fenomenologica regionale (orario diverso come regioni diverse, una preromantica e l'altra romantica) e verifichiamo se è vera.

304) Maggiore e minore

Questo possiamo pensare dell'alternanza tra modo maggiore e modo minore (lo stesso tema ha due facce).
Il modo maggiore potrebbe essere il velo di Maya di Schopenhauer, la realtà come istituzione, ciò che gli altri pensano di sé stessi.
Il modo minore è come noi vediamo gli altri, incuranti del freudiano “dato di realtà”, come bene esemplifica la vicinanza della morte: l'unica realtà è quella interiore.

305) Il passaggio come scoperta della verità

Il passaggio da maggiore a minore, la modulazione, potrebbero rappresentare il disvelamento della verità.
In tal senso, il maggiore è il velo di Maya di Schopenhauer, mentre il minore è la volontà schopenhaueriana.
Nel momento del disvelamento, si scopre la verità (questa metafora è la plenipotenziaria del mondo parallelo).

306) La romanza del terzo concerto per lira organizzata di Haydn

Forse il cuore del meccanismo sta qui, come del resto in tutti i concerti – bellissimi e sottovalutati – per lira organizzata.
Indimenticabile l'incisione di Rampal e Pierlot.
Sono brani luminosi, né classici, né rococò: qui forse vi è l'Haydn più vero.

307) Pace e bene

E' la R.R. Dela Missa in tempore belli di Haydn.
Così com'è e come dovrebbe essere tutta la musica sacra.
Pacificatrice, commemorativa, edificante.

308) La musica sacra in generale

Il motivo del fascino dello Stabat mater di Pergolesi sta nella vicinanza della morte?
Si tratta di un'amica morte? E' diverso dal Requiem di Verdi, ma è diverso anche da molta musica sacra rinascimentale (preghiera a Dio), o sacra del periodo classico, con grande organico orchestrale (celebrazione fastosa di Dio, come in Haydn).
Noi abbiamo confidenza con Dio o con la morte?

309) L'equivoco della tristezza

Il quintetto in sol minore di Mozart, la cavatina di Barbarina, il primo movimento della sinfonia n. 40 di Mozart non sono tristi.
Quel leggero sollevarsi da terra e, comodi come quando si era a terra, viaggiare vedendo dall'alto una serie di cose, tra le quali eventi concitati altrui, non è tristezza.
Poi si riatterra, sulla comoda poltrona, nel punto dove eravamo.

310) L'equivoco della durata

La durata in quanto bellezza dipende dall'armonia delle proporzioni e dalla lancinanza delle intuizioni, non dalla maggior durata in sé.
Cioè: non è più bello ciò che duradi più, ma ciò che manifesta proporzioni e intuizioni geniali, quale che sia la durata.
Così, la Cavatina di Barbarina non è meno bella del primo movimento della nona sinfonia di Beethoven.

311) L'inizio della Creazione

Si trova nella stessa regione dell'inizio della Fantastique.
Roba da non credervi.
Abbiamo visto cestoni pieni di pupazzi e dopo aver ingerito il not sonnifero, iniziano e visioni distorte della donna amata: alla faccia della storia della musica che vorrebbe le due composizioni divergenti quant'altre mai per stile, epoca, ecc...

312) Portato e intenzione

Se nell'Empfindsamer Stil ravvisiamo il portato e nella musica romantica l'intenzione, verrebbe fatto di decretare la superiorità del primo sulla seconda.
Il portato è la naturale ricaduta dell'azione quotidiana, come tale non intenzionale, né involontaria, in quanto già dentro.
Se tale azione è rappresentata, anziché vissuta, avremo il romanticismo musicale nella sua accezione storico-ideologica, di cui gli autori divenivano preda nella rappresentazione che essi avevano di loro stessi e del loro operato: ma non di quello, bensì necessariamente di altro, parlava la loro musica; la musica è sempre aldilà o al di qua dell'intenzione.

312) Sentire e vedere

Come Heidegger preconizzo in Essere e tempo nel 1927, il predominio della visione è diventato totale.
Prevale sul sentire, con l'implicazione che la curiosità prevale sul senso interno.
Quel senso interno che, come abbiamo accertato in queste pagine, costituisce invece la verità ultima.

313) Nebbia in una mattina domenicale d'inverno

= R.R. “Infedeltà delusa” di Haydn = R.R. “Il dissoluto punito” (Don Giovanni) di Mozart.
La storia delle infedeltà deluse e dei dissoluti puniti è un classico del melodramma ottocentesco.
Non credo che i compositori vi aderissero ideologicamente, ma penso che si trattasse di un tipo di libretto di maniera che andava di moda all'epoca: la convergenza nella stessa regione, ariosa, lirica, estremamente gioisa ha come versante fenomenologico dal lato dell'interprete alcune sessioni di prove orchestrali, viste in bianco e nero, con Giulini, alcune domeniche mattina d'inverno (cfr. l'immaginazione fenomenologica della poltrona, già vista, con il compositore sopra: poltrona con compositore sopra sono dentro il mondo parallelo).

314) Chi s'impaccia di moglie cittadina

Questa lunga e bellissima aria dall'Infedeltà delusa di Haydn ricorda i momenti più belli delle arie luminose di Mozart.
Solo che può essere pallido e mattutino, ma che intorno a mezzogiorno scalda.
E l'odore di una trattoria dove probabilmente non entreremo.

315) Altre precisazioni isteriche

La coda dell'ultimo movimento dell'Appassionata di Beethoven, un galop,  veniva definita (cito a memoria) da Gould come quel genere di brano in cui il virtuoso di razza riesce a strappare gli applausi del pubblico anhe in una delle sue serate più deludenti (a causa della sua connotazione di esaltazione, rifiutata da Gould).
D'altro canto, credo si tratti di precisazioni isteriche, al pari della coda dell'ultimo movimento della quarta di Brahms.
Se l'andamento viene mantenuto in modo pignolo, quasi pedante, e si insiste sulla precisione degli arpeggi, ecco che il brano assume quella connotazione regionale di puntualizzazione isterica.

316) La pelle e la progressione

La progressione del pianoforte nel primo movimento del secondo concerto di Brahms equivale, come la coda dell'appassionata e i passaggi del tutti orchestrale dell'ultimo movimento della Quarta, a una puntualizzazione isterica.
Potremmo definire questo come l'aspetto idiosincratico (psicosomatico) dell'interpretazione-ri-creazione atistica, ciò che permette a qualcuno di avere la chiave di accesso alla regione estetica di quel particolare brano e  qualcuno un po' meno (non esistono chiavi completamente sbagliate, anche se non è vero che “ogni accesso è un modo di possedere l'opera” come sostenuto da Eco e riportato da Zurletti).
Così ad esempio Zimerman ignora la puntualizzazione della progressione del secondo concerto e Pollini la fotografa per amplificarla, ma vedendola da lontano, quale aspetto culturale (in ciò in sintonia con un aspetto della direzione di Abbado messo in luce da Zurletti e con una connotazione umanistica, come messo in luce da Rattalino): la precisazione idiosincratica  dei passaggi strumentali-orchestrali rappresenta la pelle quale interfaccia io-mondo di schopenhaueriana memoria e costituisce il momento in cui – sulla soglia del mondo parallelo – si decide se riusciamo ad entrare dalla porta nascosta o se sbatteremo contro il muro (come in alcuni episodi del telefilm Star Trek serie classica).

317) L'incredibile op. 9 di Haydn

All'improvviso, entrando e uscendo da una porta girevole, ci ritroviamo sbalzati nell'autunno.
A fianco a noi c'è un muretto dal quale si vedono alberi dall'altro lato, e foglie che cadono.
Il cielo è diafano e il marciapiede grigio.

318) Il mistero dell'Op. 9

Io non so se questa sia stato quacosa di articolare.
Non vi è che l'idea platonica, ma è vissuta.
E' una cosa mai vissuta, ma è la quotidianità

319) Il mistero dell'Op. 9 (2)

Il mistero dell'Op. 9 riguarda la vita.
Poiché non pare esservi nulla oltre l'Op. 9, nulla che non sia compreso, in particolare, dal primo movimento del primo quartetto, nulla che non sia descritto, nessuna verità più ultima, nessuna scena più profonda.
Non si capisce perché, dopo, Haydn abbia continuato a comporre e come abbia potuto comporre ciò che ha composto dopo aver composto l'Op. 9 e non prima (possiamo pensare a una regressione).

320) L'ultimo movimento del quartetto n. 4, Op. 33

Apparentemente è un minuetto dalla normale forma  A B A C A.
Solo che nell'episodio C si trascende.
Si apre qualcosa di imprevisto, e a nulla vale il grazioso finale pizzicato, per mascherare lo squarcio sul velo.

321) Il divenire di una perpetua fioritura

= R.R. Andante del quartetto per archi n. 2, Op. 77 di Haydn.
Si tratta dell'albero del vicino.
La cui fragranza giunge fin qui.

322) Broccato

= R.R. Finale quartetto di Haydn n. 1, Op. 74.
Trame di lusso intessute finemente.
Arzigogolo della bellezza.

323) Caracollano

= R.R. Finale quartetto di Haydn n. 3 O. 74.
Forse sono obbligati a giocare.
Di qui la drammaticità.

324) Orizzonti regionali

Delle regioni possiamo dire che esse potrebbero essere tacciate di finitudine.
Ma sono infiniti gli orizzonti attorno.
Come da noi, del resto.

325) Finalmente dolenzia (secondo movimento del quartetto op. 20, n. 5)

Nonostante il girarci intorno, si arriva lì.
Quella è la regione della dolenzia, dell'Op. 9, della pioggia, del cielo diafano, del muretto, del marciapiede grigio e della porta girevole, dell'autunno e del viale lastricato di foglie, quella dei palazzi grigi, dei cortili, delle periferie (mi riferisco alla sezione A del minuetto).
Non so Sturm Und Drang è giusto termine o se sia restrittivo.

326) Quesiti di storia della musica

Mentre nell'Empfindsamer Still – a differenza che nell'età barocca della teoria degli affetti - le emozioni (modulazioni) si susseguono all'interno dello stesso tema, con Haydn inizia una partizione netta tra sezioni in modo minore e sezioni in modo maggiore.
Beethoven applicherà in modo inesorabile questo spirito di sistema che finirà per fare impuntare Brahms e che sarà rotto dai romantici (aspirazione all'eliminazione della forma).
Mozart naviga in acque sue, non essendo fedele in modo esclusivo ad alcun calco, ma bensì adottando il calco quale canovaccio.
327) Un altro autunno

Molto slanciato, quasi frettoloso (non posso starti a sentire adesso, devo fare una cosa):
sicuramente sturm und dranger.
= R.R. Primo movimento del quartetto n. 4, op. 17 di Haydn.

328) Le Ultime Sette Parole di Gesù sulla Croce

(M.f.= mondo fenomenico): in questa, che è forse una delle più belle composizioni di Haydn, gli stretti limiti imposti dalla commissione esaltano la potenza espressiva dell'Autore.
(M.F.= mondo fenomenologico, o parallelo): vi è terra arida, secca ed è quella dove accadono le cose più stupefacenti.
La mia versione preferita è quella originale con spiegazione della voce recitante, meglio se in lingua originale, in quanto meno comprensibile.

329) Arpeggione

La sonata Arpeggione di Schubert è il cuore del romanticismo notturno.
Si sta sicuramente andando nella notte, molto veloci.
Più verso qualcosa che via da qualcosa (cfr. invece il “moto da” la villa, verso la campagna di Schumann).

330) Discorsi articolati a margine di una festa

= R.R. Primo movimento del quartetto op. 55, n. 1 di Haydn.
La regione è insolitamente vicina a quella dei più luminosi quartetti di Beethoven e alla Suite lirica di Berg.
Sole, forse d'inverno, unito a molta lucidità.

331) La sonata della sete di Haydn

La quinta delle sette ultime parole di Gesù sulla croce è la mia preferita.
Note ribattute, insistenti (fantasia della pioggia, allucinazione forse).
E il sottofondo è appunto di terra arida.

332) Un buco nero nell'universo parallelo

Sono i trii per pianoforte di Haydn.
Dimensione romantica par excellence ante litteram.
Temi ben definiti, sviluppati in intreccio, un genere unico, bellissimo (ovunque dimensione della quotidianità molto lirica e alta).

333) Gli stupefacenti trii per flauto e piano di Haydn

Qui siamo veramente in una regione in perfetto equilibrio tra la forma sonata, piena e non ancora ideologizzata, la vena melodica netta (il megio di Haydn) e l'Empfindsamer Still, con il suo intimismo inteso in senso alto.
Il meglio di Haydn.
R.R. = un balcone colorato – visto da lontano e dal quale si può vedere tutto.

334) Splendido meccanismo

= R.R. Trio numero 16 di Haydn, primo movimento.
Secondo movimento: un androne scuro coloro amaranto dove si trova la verità.
Terzo movimento: frenesia e cura, ma balconi al sole, in lontananza.

335) Abbondanza

Ho definito “buco nero” i trii di Haydn perché, in particolare quelli per flauto, costituiscono secondo me un dislivello regionale strepitoso, quasi un mondo parallelo nel mondo parallelo.
Vi è abbondanza di tutto, come ho già accennato: meccanismo, forma sonata, modulazioni, motivi melodici unici, intimismo.
Soprattutto quest'ultimo tratto mi fa considerare i trii come chiave privilegiata di accesso alla verità ultima (sua rappresentanza).

336) Far capire quando inizia lo sviluppo

Vi è uno stacco che non va sottaciuto, ma anzi sottolineato.
Lo sviluppo è l'esplorazione di una terra incognita.
Ciò che prima era familiare non lo è più (spaesamento, straniamento, perturbante): altrimenti perde il suo fascino.

337) Il “Vivace assai” del trio n. 16 di Haydn

Fenomenico e fenomenologico qui coincidono.
La danza come espressione esteriore della bellezza in movimento (la grazia secondo Lessing), qui chiamata “versante fenomenico”, coincide con l'espressione interiore del sentimento (aspirazione di genesi romantica riferita all'arte in generale e soprattutto alla musica in quanto è l'arte più indefinita e quindi infinita), qui  chiamata “versante fenomenologico” (o del mondo parallelo).
Soprattutto lo stacco dalla sezione A alla B del Rondeau costituisce un “passaggio attraverso” (entriamo in una galleria di mondo parallelo mentre stiamo percorrendo una strada di “mondo di qua”).

338) Trio per piano con violino n. 13 di Haydn

Qui siamo nelle stesse regioni mozartiane dei movimenti lenti dei concerti per pianoforte.
Vi è un giardino fiorito, un posto dove si è e uno dove si va, il sole giallo, aria tiepida, buoni profumi nell'aria.
E una compagnia di persone che sono già dentro e non sono individui in relazione e nemmeno un  gruppo.

339) Precisazioni

L'oggetto di 338 è il primo movimento.
Qui abbiamo un tema e variazioni in cui il noto intreccio tra violoncello e pianoforte dà luogo al sole giallo e a quel giardino da cui si va e si viene, ma che è anche sosta e memoria di sé stesso.
Vi è il mito e i racconto del mito che è coevo al mito stesso (abolizione del tempo che scorre, cioè dell'hic et nunc, equivale a nunc stans).

340) L'importanza della sincope

La sincope è uno iato (salto, stacco, dislivello) spaziotemorale nel mondo parallelo.
A differenza del mondo geografico di qua (o forse similmente) tali iati sono possibili e sempre presenti nel mondo parallelo (se credessimo in una corrispondenza emotiva tra il mondo parallelo e quello dell'interiorità, imposteremmo una contrapposizione tra interiorità e oggettività, tra ragione e sentimento, che però è stata già smentita dalla scienza del '900).
Tale è la R.R. del  primo movimento del trio HOB XV:19 di Haydn che – insolitamente e significativamente  per un primo movimento, non è in forma sonata, ma in forma di tema e  variazioni.

341) L'importanza dei balconi

Il balcone domina, condivide, gioisce, è illuminato e luminoso ed è un piccolo buco nero nel mondo parallelo, dal momento che anche nei balconi del mondo di qua è chiaro che siamo già tutti dentro.
Tale è l'impressione – a livello letterario – dei balconi di Kafka, come quello del colloquio con lo studente e quello di Brunelda in Amerika.
Tale è anche la R.R., per esempio, del secondo movimento del concerto per flauto di Pergolesi (i movimenti lenti dei concerti del periodo Barocco della storia della musica fenomenica sono spesso balconi, e tramite la poltrona sono trasportati anch'essi, con la loro fenomenicità storicistica, nel mondo parallelo, con il risultato finale della poetizzazione del mondo).

342) L'insostenibile ritmo del finale del trio Hob XV:23 di Haydn

Qui si crea una discrasia anche se formalmente il ritmo è del tutto privo di irregolarità.
Anche per me che ho buon orecchio per il ritmo non è stato possibile comprendere il ritmo (¾ con incipit in levare), e non andando a verificare lo spartito.
Ed è questa la forza di questo semplice, incredibile brano.

343) Casa spartitraffico

= R.R. Primo movimento del trio Hob XV:21.
V. note ribattute (macchine) su cui si staglia l'arco di note della mano destra (casa).
Vedi meccanismo poetico.

344) Empfindsammer Still e Sturm Und Drang

Il primo è più vario nell'invenzione e utilizzo di mezzi espressivi (ma anche nell'imbarazzo sulla loro scelta).
Il secondo è più deciso e preciso e identifica pressoché una sola regione estetica (l'autunno agitato e mitico: questa è la sua forza e il suo limite).
Entrambi sono tra le più belle età di mezzo della storia della musica fenomenica.

345) I presentimenti (vaticini) delle code di Brahms

Così nel finale della quarta (cfr. supra) ed anche nel finale del quintetto con pianoforte.
Ciò significa che quella regione del mondo parallelo sceglie di esprimersi attraverso Brahms, oppure forse invece che Brahms ha esplorato quella regione?
La risposta sta nella poltrona, in quanto egli proviene da quella regione e detta al proprio io fenomenico l'aura e i dettagli di quella regione dal sogno, che è canale di comunicazione tra noi e il mondo parallelo.

346) Come in un sogno

Come in un sogno, vengono dettati i brani regionali al compositore.
Non necessariamente nel sogno mentre dorme, ma in quel sogno (barlumi, bagliori o frammenti del mondo di là) che ha luogo con l'ispirazione.
I meccanismi, le tecniche, lo stile, servono a dare un sostrato fenomenico alla trama del sogno.

347) Le vestigia fenomeniche dell'ispirazione

I resti della colazione, gli abiti in disordine;
la non rispettata fame, l'assillo de creditore;
un feretro, infine, e – al massimo – una targa d'ottone o una statua davanti ad un'istituzione bancaria.

348) La cartolina della perfetta forma sonata

In ciò consistendo sia il l'apice di sé stessa come simbolo ideologico (che Beethoven porterà alle sue estreme conseguenze), sia il seme della sua fine (che arriverà circa due secoli dopo nella storia della musica fenomenica).
E' cioè tutto troppo bello e ordinato per essere vero.
= R.R. Trio Hob XV:27 di Haydn.

349) Un anacronismo

La spiegazione del profumo di decadenza ante litteram di cui al 348) risiede – fenomenicamente, ossia tecnicamente – nel motivo assai orecchiabile e vagamente nostalgico del primo tema e nello sviluppo così breve e così lontano.
Nei trii di Haydn in generale, il fatto che lo sviluppo si trovi in terre così lontane e per così brevi momenti costituisce il culmine dell'esotismo che solo Beethovene e  - molto più tardi – Mahler sapranno eguagliare.
In ciò è svelato un meccanismo interno alla forma sonata, ossia il teletrasporto, che la rende così affascinante.

350) L'avventura dei romantici

Prendo ad esempio il trio Hob XV:27 di Haydn per illustrare la perfezione edenica, ma anche gli angusti limiti della forma sonata da cui i romantici cercarono di sfuggire.
Contenuto senza forma, o rottura della forma come espressione massima di libertà di espressione interiore, furono i loro idoli.
Vi riuscirono solo con forme imperfette, che in quanto tali erano e sono poetizzabili, cioè alludono ad altro, ad un mondo aperto.

351) la via nordica e quella mediterranea alla verità

Abbiamo notato l'ultimo movimento della Undine di Reinecke (via nordica).
Altrettanto dobbiamo fare per la suite delle melodie della Carmen di Bizet e per la Danza delle ore di Ponchielli (via mediterranea).
Al centro c'è probabilmente uno scrigno con più meccanismi (haydniani senz'altro e di altri autori e regioni) e all'interno dell'ultimo meccanismo vi è una poltrona (non sappiamo se la poltrona è anche una porta, stante la possibilità teorica di ridurre a significante ogni significato, ma al momento abbiamo scartato tale ipotesi).

352) La via mediterranea a Bach: risoluzione di un paradosso e non coincidenza della geografia fenomenica con quella fenomenologica

Per l'importanza della via mediterranea a Bach, si ascoltino i concerti brandeburghesi diretti dal latino Pablo Casals.
Ciò spiega la seconda parte del titolo (non coincidenza della geografia fenomenica, ossia del mondo di qua, che vorrebbe Bach, in quanto di origini nordiche, sulla via nordica alla verità, con quella fenomenologica, ossia del mondo parallelo, in cui è evidente l'aspetto mediterraneo dei concerti brandeburghesi (se non fosse vera tale non coincidenza, a nulla sarebbe valso lo studio e l'intento dell'Autore di scrivere appunto concerti in vari stili di tipo mediterraneo).
La risoluzione del paradosso, introdotto più sopra in questo libro con l'esempio del “freddo” Karajan che dirige il passionale Ciaikovsky meglio del “caldo” Bernstein, sta nel Deus ex machina, cioè nel concetto più volte enunciato di meccanismo, grazie al quale ciò che sembra più esterno e meno conforme al nostro essere fenomenico, ci proviene proprio dal mondo parallelo e costituisce la verità (in termini fenomenici: l'ispirazione giusta per la corretta interpretazione del brano che andiamo ad eseguire).

353) Regioni a differente densità estetica

Così per esempio, nel passaggio dai trii con pianoforte di Haydn ai lavori per liuto e archi: alcune regioni sono più rarefatte.
Tale è anche il motivo del fascino del genere “tema e variazioni”, dove un tema solitamente rarefatto, o comunque semplice, viene sottoposto a complicazioni e addensamenti progressivi fino a esserne stravolto nella fisionomia.
Se assumiamo l'ipotesi dell'analogia con la densità di popolazione, per regione a maggiore densità estetica possiamo definire quella in cui è maggiormente presente l'elemento umano, mentre le regioni a minore densità estetica sono meno fitte (dobbiamo includere nel concetto di densità anche i boschi non umanizzati, ma bensì appunto fitti, come quelli del boscaiolo di Schumann e Schubert, perché là l'esser fitto del bosco rimanda alla falsa antinomia uomo-natura, esaltata dai romantici come quintessenza del dramma umano).

354) La non intenzionalità come principio di una corretta interpretazione

Se è vera la tesi del mondo parallelo, allora le interpretazioni-esecuzzioni-ispirazioni vengono all'interprete quale Deus ex machina, da un meccanismo esterno (sul concetto di meccanismo già si è detto), tale per cui non sembra che l'esecutore lo voglia.
Ciò ha a che vedere con una miriade di tracce culturali, una delle quali è il concetto di memoria involontaria di Henri Bergson.
E ciò spiega anche l'apparente paradosso degli opposti che si attraggono (p. es.: il freddo Karajan che dirige meglio del caldo Bernstein il caldo Ciaikovsky).

355) Una casa con le pareti di cristallo

E con la magnifica prerogativa della perfetta forma sonata.
= R.R. Concertino Hob XIV:12 di Haydn.
Il suono del secondo movimento ricorda molto i secondi movimenti dei concerti per clavicembalo e archi di J.S. Bach (carillon a livello fenomenico che rimanda a un gazebo nella neve a livello di regione fenomenologica, come sopra ricordato).

356) Il mito della trasparenza e i suoi antipodi

Alla trasparenza della casa di Haydn (già casa dei primi movimenti dei concetti preromantici e di svariate arie del Don Giovanni di Mozart) s'apparenta il mito della villa.
La villa illuminata di sera è la casa dal paesaggio trasparente quando è sera.
A ciò si contrappone il mito dell'oscurità del bosco dei romantici.

357) Guglie e capitelli alla maniera di Handel

= finale concertino Hob XVIII:f2 di Haydn.
Non si raggiunge il demoniaco, ma vi sono numerose cadute e risalite nel tono compiacente.
L'impressione è di caramello, in cui però vi è celato l'osceno (l'osceno è l'uso improprio del meccanismo: ne è un fulgido esempio il genere “moto perpetuo”, in cui una melodia innocente viene degradata/innalzata/snaturata tramite la coazione a ripetere, spesso facendola sconfinare nel delirio di onnipotenza o nella cupio dissolvi).

358) Fauré

Jankelevitch ha mostrato le sfumature e le differenze di colore fenomenologico di alcuni grandi musicisti francesi che, a livello di storia della musica fenomenica, costituiscono una sorta di colonna alternativa al romanticismo tedesco.
Fauré è in una zona di rappresentanza regionale del mondo parallelo sicuramente di colore blu, con alcune bordature dorate.
A livello tridimensionale, è sicuramente nel negozio di tappeti con luce bassa e la sera fuori, e si trova nei paraggi dell'insegna al neon del territorio di ingresso del mondo parallelo, al di là del confine (dietro al bar di confine).

359) L'intimismo pianistico delle sonatine di Haydn per piano

Qui siamo in una regione d'oltreoceano.
In questo sono stati portatori di chiavi intimistico-quotidiane i pianisti di estrazione culturale non europea, come Gould e Perhaya.
In un certo senso, questo modo di concepire e suonare rimanda ad una situazione da pino bar con luci soffuse, non distante dalla zona di confine tra mondo parallelo e mondo di qua.

360) Una discesa

= R.R. Sonata per piano Hob XVI:41 di Haydn, primo movimento.
Frammenti di un mondo intimistico precipitano vorticosamente lungo il viale autunnale che porta a un piano bar da una trattoria che la domenica mattina dà su di un teatro.
Là, lungo la via del nord o quella mediterranea.

361) Un problema fenomenico diventa una chiave di accesso fenomenologica

L'assolo per flauto del finale dello scherzo del Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn è un moto perpetuo così lungo che anche un respiro profondo rischia di non bastare (si può usare la respirazione circolare che però crea un effetto non bello).
Prendendo a modello la naturalezza del canto bisogna risolvere il problema tecnico fenomenico di cui sopra tramite la realizzazione dell'obiettivo estetico, confidando nel fatto che risolvendo il dilemma estetico si risolverà anche il problema tecnico e viceversa.
Si può scegliere un andamento spedito, avendo come limite il fatto di avere attenzione a non sacrificare l'aspetto canoro e melodico espressivo: così si trova la risoluzione del problema tecnico e contemporaneamente la chiave di accesso al mondo parallelo per questo passo.

362) Il regno della forma sonata matura

= sonata per piano Hob XVI:33 di Haydn.
Nonostante il fatto che – livello fenomenico – sia stata composta nel cosiddetto periodo dello Sturm Und Drang (più precisamente nel 1771).
Ciò a riprova del fatto che la geostoria fenomenologi non corrisponde a quella fenomenica.

363) Il ritmo come inserto della verità

Se il ritmo è l'inserto della verità, allora la verità sta nel tempo e la sua scansione (il ritmo, appunto) ne costituisce la porta.
Poiché sono possibili infinite scansioni, ne deriva che gli accessi al mondo parallelo sono infiniti, ma devono essere ritmati.
Gli altri aspetti, melodico ed armonico, costituiscono la trama visibile degli accessi.

364) Il trionfo dell'inaspettato
Come nei ricordi involontari di Bergson, le regioni del mondo parallelo a più alta densità, cioè quelle il cui versante fenomenico offre maggiori porte, hanno un corrispettivo nell'andamento inaspettato del brano.
Ciò non nel senso della distruzione o superamento romantico della forma, ma nello scarto tra l'intenzione (la scena) manifesta della composizione e le “cadute” (aperture) espressive della stessa (intenzione inconscia, scena nascosta della composizione, per parafrasare Freud).
Né il magniloquente progetto supersinfonico tardoromantico, né l'intimismo esasperato dei primi romantici, né la forma sonata in sé e per sé, come previsto nel classicismo secondo la visione retrospettiva ottocentesca (in realtà l'unico a fare della forma sonata un'ideologia fu Beethoven) sono garanzie della maggior apertura di porte, ma bensì ciò che era a malapena nelle intenzioni del compositore, quando fu contagiato dall'ispirazione e se ne andò dalla porta con tutta la sua poltrona.

365) La pronuncia quale tema fenomenico che riflette una chiave interpretativa fenomenologica
La pronuncia, o dizione, nella voce come nello strumento (per il quale trova più spesso il nome di fraseggio) è di importanza fondamentale per l'interpretazione, come la pelle quale interfaccia tra io e mondo (così nello psicoanalista Anzieu, ma già prima di lui per il filosofo Schopenhauer).
La scelta, o posizione idiosincratica di una caratteristica personale a fine estetico, con la sua maggiore immediatezza o maggiore elaborazione, costituiscono un cardine interpretativo.
Così, per esempio, mi piacciono le dizioni elaborate e costruite di Pollini, ma in altre circostanze (altri passi musicali di altri brani e autori) vengono aperte più porte da un tipo di fraseggio più immediato e diretto come quelli di Perahia o Ashkenazy.

Epilogo

“Bizzarro, incomprensibile, noioso”. Sono solo alcune delle impressioni che forse si saranno ricavate dalla lettura di questo libro.
Può darsi, così come - d'altro canto - a chi l'ha scritto potrebbe venire in mente “unico, bellissimo, geniale, ecc...”.
Forse non sono vere né le une, né le altre, se intese come definizioni e invece, se intese come impressioni, sono vere entrambe.
Dopotutto, un libro è qualcosa di aperto, come la vita.




Altre divagazioni (2017)

Prologo

Questo scritto tratta delle sinfonie di Beethoven. Dato l'argomento, che è univoco (per quanto possa essere univoca la musica che per sua natura è intrecciata e molteplice), i capitoli sono uno solo. La lettura ne risentirà, probabilmente. Tutti amano le spezzettature in capitoli che danno la sensazione, finitone uno, di aver compiuto qualcosa. Invece io sottopongo il lettore ad uno sforzo frustrante. Ma tale è secondo me la conoscenza e l'arte, per cui non bisogna mai smettere di cercare, pertanto l'insoddisfazione ne è il motore principale. Se il lettore si sentisse sazio per aver terminato la lettura del primo capitolo, potrebbe non intraprendere mai la lettura del secondo, ritenendo di potersene andare in giro a vantarsi: "Ma io di quel libro ne ho pur letto un capitolo!" e la cosa finirebbe lì. La mia speranza è che, componendo un libro di un solo capitolo, chi ne intraprende la lettura la porti a termine.






Capitolo I: le sinfonie di Beethoven




Ritmo e melodia sono tra i parametri principali che fanno da guida a tipologie alternative di interpretazione delle sinfonie. Naturalmente si tratta di due estremi ideali, rispetto ai quali le varie interpretazioni effettive si situano lungo un continuum che va dall'uno all'altro.

Prendiamo ad esempio uno dei più bei rompicapi (ma quale non lo è?): il primo movimento della terza sinfonia. Avremo a un estremo il suono morbido, vellutato, ma anche profondo e carico di epos di Giulini con la Filarmonica della Scala, in cui si privilegia la componente melodica, ma con accento drammatico ed epico (diversa caratterizzazione interpretativa ha - per esempio - l'amore per il bel suono di Karajan); all'estremo opposto avremo colui che senza cedimenti fa della secca e precisa scansione ritmica la cifra delle sue interpretazioni: George Szell con la Cleveland Orchestra.

Nel mezzo, in tal caso, potremmo collocare una interpretazione in cui si esegue con virtuosismo la precisa scansione ritmica, ma nella quale le maglie ritmiche sono colorate di toni pregnanti e drammatici: Leonard Bernstein con i Wiener.

Ora, quanto sopra descritto a mo' di esempio per introdurre il discorso generale ci porta subito nel cuore di uno dei temi principali delle sinfonie: la loro natura di splendido rompicapo. 
Non solo ogni sinfonia di per sé e in modo differente l'una dall'altra, ma anche ogni singolo movimento di ognuna di esse rappresenta un rompicapo interpretativo ed ha natura propria oltre che far parte dell'organismo sinfonico. Prova ne sia il fatto che – con ogni evidenza – possiamo trovare un diverso campione (nel senso di interprete primo arrivato, migliore degli altri) per ogni singolo movimento di ogni sinfonia.

Occorrerà procedere quindi con ordine e descrivere tutti i movimenti di tutte le sinfonie, comparando tra loro le diverse interpretazioni, ma non solo: in ogni movimento vi sono dei momenti culminanti, cuciti tra loro da tessuto connettivo. Saranno quei momenti culminanti che andremo ad analizzare più approfonditamente paragonando le diverse interpretazioni. Vero è che anche tale concezione dei punti culminanti cuciti tra loro è già di per sé un tipo di interpretazione, mentre all'opposto troviamo chi cerca di far spiccare l'omogeneità della struttura sinfonica dando uniformità alla sinfonia stessa (su tutti, Bohm con i Wiener): e anche di tale approccio analizzeremo le conseguenze.

Anche la questione della forza e della potenza è importante e interessante. La potenza è situata nei dintorni del ritmo sull'asse parziale, immaginario e arbitrario melodia-ritmo (arbitrario, ma utile). 
Ora, dal numero complessivo di “tutti”, di passaggi repentini dal “piano” al “forte”, nonché di passaggi assai sottolineati da un'accesa scansione ritmica, non possiamo ignorare il fatto che la questione della potenza in Beethoven si ponga. 
Il rompicapo interpretativo in tal caso è: quanto dobbiamo accentuare la forza? Fino a farla divenire parossistica? O al contrario, essa va minimizzata per assorbirla nel concetto di armonia, proporzionalità, equilibrio, ecc...?

In senso lato, il rompicapo che si pone qui, come anche il precedente, presentato sopra, costituiscono parte di una quaestio alquanto vexata, se cioè accentuare i tratti romantici o quelli classici in Beethoven.

Si pensi per esempio all'incredibile finale dell'Ottava sinfonia: una delle più stupefacenti imperfezioni mai scritte da Beethoven. Qui troviamo, non limata come invece l'Autore fa al suo solito, ma lasciata allo stato grezzo, l'espressione (ma quanto volontaria?) di un parossismo ritmico e dinamico che rende questa coda imbarazzante. E pertanto, si tratta di un bellissimo rompicapo interpretativo. 
Non a caso si può ritenere verosimile la frase che pare sia stata pronunciata ad alta voce nei riguardi di Beethoven da qualcuno del pubblico, alla fine della prima rappresentazione dell'Ottava sinfonia: “Eccolo, è di nuovo senza idee!!!”. In tale frase sta tutto l'emblematico imbarazzo dell'ostensione della potenza senza una adeguata limatura all'interno dello spirito di sistema (o forma), cosa che invece Beethoven fa quasi sempre nelle altre sinfonie. 
E quindi qui che deve fare l'interprete? Lasciare andare a briglia sciolta la potenza o cercare, tramite accorgimenti agogici, dinamici, timbrici, fraseologici di farla rientrare in un disegno di maggiore armonia del tutto? 
Qui si hanno – non a caso – le soluzioni le più opposte tra i vari direttori d'orchestra. Prendiamo ad esempio Maazel e Karajan. 
Maazel sceglie, grazie anche a un andamento stretto e a un fraseggio asciutto e brillante, la strada dell'ignorare la sproporzione di questa coda e riesce mirabilmente a farla sembrare classica, depurandola dal parossismo. 
Karajan, specie nell'edizione a video, imbocca con la sua consueta decisione la strada opposta. Non solo lascia sprigionare il parossismo, ma lo accentua dandogli la connotazione dell'inaudita ferocia, gettando retrospettivamente sulla sinfonia (considerata una delle più leggere tra le sinfonie pari, quindi tra le più leggere in assoluto di Beethoven) una luce inquietante. 
Altre soluzioni costituiscono una via di mezzo. 
Bohm non ignora qui la potenza, ma essa è stata già fatta rientrare a monte, dal direttore, nello spirito di sistema tramite l'adozione di un andamento lento e ritmicamente ponderato. 
Bernstein sprigiona dalla coda la forza senza però darle la connotazione persecutoria di Karajan, nella convinzione che tutta la sinfonia possa reggersi sul paradigma della forza, quindi ignorandone volutamente gli squilibri e la sproporzione e cercando di considerare la sinfonia stessa come stilisticamente unitaria, cosa che invece in tutta evidenza non è.

Il primo movimento della terza richiama l'epos. Ma è epos narrato (Abbado, Giulini) o vissuto in diretta (Bernstein, Karajan)? Dovrebbe essere enfatizzato uno stato febbrile che funge da collante ad un continuo contrattempo ritmico, ma che alla lunga disturba, oppure al contrario dovrebbe essere minimizzato? Lo sviluppo sviluppa l'epos, ma non possiamo liberarci dell'imbarazzante inizio, scarno e ruvido. Bohm, dicevamo, omogeneizza tutto tramite un andamento lento, Giulini rende morbido l'incipit non staccando troppo le note ritmate e rendendo l'attacco dei suoni morbido,  anziché duro. Karajan enfatizza il dinamismo ritmico unitamente alla potenza del suono (molta escursione dinamica), Abbado sceglie un andamento veloce per evitare di sottolineare troppo quell'inizio così duro. A mio avviso qui il risultato migliore lo raggiunge Szell che – come Bernstein e i direttori d'oltreoceano in generale - non minimizza la componente ritmica, ma soprattutto sceglie l'andamento giusto, né troppo lento (Bohm e prima di lui Furtwangler, e poi Giulini), né troppo veloce (Abbado, Maazel). Non si preoccupa di trovare un'espressività che non c'è in quell'inizio (come tenta di fare Bernstein), trova omogeneità in questo modo tra esposizione e sviluppo (non così Abbado, per il quale l'epos si sviluppa solo nel cuore del brano). Il campione qui è Szell.

Se Giulini dà suono all'epos narrato nel primo movimento della terza, ancor più drammatico ed interiore è il suo secondo movimento. La pregnanza drammatica della marcia funebre è tra le migliori vette raggiunte, al pari suo stando solo Abbado e pochi altri. Qui in Giulini vi è il gusto per la storia, mentre in Abbado la marcia assume toni ancora più intimi e lirici. Come se con Giulini leggessimo la narrazione  di una storia collettiva e in Abbado stessimo ricordando qualcosa di individuale associato a quella storia collettiva.

Secondo movimento della settima. Karajan è l'unico a suonare il tema principale quasi legato. Con le appoggiature doppie in battere (come tutti, tranne Abbado e – in parte sì, in parte no - Karlos Kleiber), ma non troppo strette. In realtà, qui la questione delle doppie appoggiature del tema melodico principale è di cruciale importanza. Nessuno le esegue correttamente. La prima nota dell'appoggiatura dev'essere senz'altro in battere, mentre la terza nota deve cadere esattamente sul secondo quarto del battere (non più o meno sul terzo, come fa Karajan, né più o meno a caso, come fanno molti). Sia pure l'accento sull'ultima nota di tale appoggiatura, purché venga rispettata la suesposta partizione. L'effetto sarà poetico. Occorre chiedersi infatti perché le ha fatte tali doppie appoggiature, Beethoven: e la risposta non può che essere “per rompere la monotonia del legato e del ritmo, rendendo febbrile una melodia altrimenti fiacca”.
Comunque, tornando all'interpretazione di questo movimento, per Karajan tutto deve scorrere e l'obiettivo è lo sprofondamento wagneriano dell'ascoltatore. Non è un languore inquieto, ma una dolcezza avvolgente. Anche qui, come sempre, c'è il sospetto della verità negata in nome dell'edonismo. Ma questo è Karajan: che la musica sia anzitutto espressione di piacere e di potenza, le colonne della perfezione, unitamente al fascino e al senso di mistero (non già alla chiarezza).

Parte centrale del primo movimento della IX (grande rullo di timpani). Il lungo rullo di timpani contro il quale si schianta ripetutamente il tema è parte principale, non accompagnamento, rispetto agli altri strumenti che suonano contemporaneamente al rullo stesso. E' l'equivalente – nella nona – della tempesta della sesta. Così Karajan (al più alto grado), così Abbado (a sprazzi); non così Szell, né Bohm. Per questi ultimi, il tema, suonato dagli altri strumenti, è più chiaro, ma il rullo, così in sottofondo, perde ragion d'essere. Per Karajan invece esso è il momento culminante dell'intero movimento, così come per Bernstein lo è la coda, nella quale egli resta  insuperato.

In generale, e in modo avvincente nella nona, per Abbado la chiave interpretativa è il canto. Nell'ultimo movimento della nona, egli ne celebra l'apoteosi. Già l'incipit – pur strumentale – è travolgente (più veloce, tra l'altro, di tutti gli altri), probabilmente perché Abbado ha – giustamente – in mente i tempi e gli stili dell'opera, con le sue introduzioni strumentali, i cambi di scena repentini, i dispositivi retorici). Il protagonista, qui è il coro, seguito dai solisti, tutti di livello incomparabile. La metafora è una serie di balconate che si aprono verso l'alto, una poesia che si apre come una spirale ascendente, in cui protagonista è la voce nella sua bellezza. Pure il finale è memorabile, sebbene Abbado non forzi appieno l'espressività del finale strumentale. Laddove finisce il coro, si dovrebbe percepire un collasso o un'esplosione, a partire dalla quale la musica strumentale riprende il sopravvento e travolge la scena, ma Abbado tiene troppo a quel coro e a quelle voci per forzare ai suoi estremi limiti tale stacco strumentale del finale.

La prima sinfonia diretta da Giulini. Ovvero, si potrebbe dire, il ritmo non esiste. Come tutto sia risolto in morbidezza di toni e bellezza di timbri. Quel fastidio alle orecchie che avvertì alla prima esecuzione un critico musicale dell'epoca, non avrebbe avuto luogo, se a dirigerla fosse stato Giulini. Bene o male? Bello, sicuramente affascinante. Anzitutto in questa prima si sentono echi del melodramma mozartiano, che in moltissime altre esecuzioni non si sentono. E ci sovviene di quell'immenso Don Giovanni che segnò l'apice della qualità discografica di Giulini.

Certo, un simile approccio (di Giulini) nostra alcuni limiti in diverse circostanze. Si prenda ad esempio la seconda. Il primo movimento, che pure dovrebbe stagliarsi su di una scansione ritmica fluida, ma imponente, viene diluito ritmicamente. E' vero che ne risulta magnificamente valorizzato il secondo movimento, che di un simile approccio si giova, ma perché forcludere il ritmo dalla dimensione musicale dell'umano? La domanda rimane.

Può darsi che Giulini escluda l'espressione della forza, quando questa non è tipizzata all'interno di una caratterizzazione scenico-operistica, come nel Don Giovanni. A tal proposito, quale esempio tra i più belli di una forza caratterizzata scenicamente che Giulini sa sprigionare eccome, si può citare anche la sola aria “Fin ch'han dal vino”, il cui strettissimo finale, con la sua geniale accelerazione maniacale, assurge a vertice di sublime bellezza, unita a potenza (simbolo in carne della follia di Don Giovanni). In tal caso potremmo reinterpretare le interpretazioni sinfoniche di Giulini come marcate da una direttrice di senso di carattere operistico: egli trasporrebbe, cioè nella musica sinfonica solo e soltanto quanto in essa possiamo trovare del mondo estetico operistico. Non potrebbe spiegarsi altrimenti il fluire armonioso e melodicamente inarrivabile dell'ultimo movimento della stessa seconda diretta da Giulini (in cui parte indimenticabile, affettuosa e densa di memoria hanno i legni e in particolare il fagotto), dopo un così poco brillante primo movimento della stessa sinfonia. 
Un ulteriore esempio in tal senso è dato dall'ottava, il cui primo movimento diretto da Giulini non convince, perché Giulini spezza il binomio tra centralità della forma (sonata) e insistenza parossistico-paranoica che Beethoven dà a questo movimento. Il secondo movimento, che Bernstein ricorda essere stato chiamato “brano da vacanze”, acquista invece nell'interpretazione di Giulini un'importanza centrale, cui soccorrono echi operistici non solo buffi, ma anche densi di malinconia e persino drammatici. La scena, con i suoi colpi di scena, la caratterizzazione delle melodie e dei timbri dominano nelle scelte interpretative di Giulini, rispetto alla centralità della forma sonata, alla quale invece egli non concede sostenuta importanza, ma che tende a lasciar scorrere fingendo di ignorarne la precisa logica avvocatesca che Jankelevitch così bene descrisse a proposito di (certo) Beethoven (segnatamente, quello selle sinfonie).

Il fugato dell'ultimo movimento della nona. I dubbi sul rompicapo dei fugati di Beethoven (anche quello della quinta, per esempio): sembrano chiusi, statici. Allora quale chiave aprirà la porta? Farlo febbrile, quasi scomodo? Sì, ma porta a un vicolo cieco. Renderlo freddo, terrificante? Sì, ma quale Deus ex machina si autolimita, restando in un vicolo chiuso? Preferisco le interpretazioni che fanno appello alla componente umana. Dato che la chiusura, il limite fanno pure parte dell'uomo. Allora, secondo tale direttrice interpretativa, qui fanno bene bene Abbado, Giulini. Meno bene tutti gli altri, Karajan in testa.

Vengo ora alla questione dei grandi in mono. Le registrazioni in mono delle sinfonie di Beethoven, dirette da artisti pur immensi, del calibro di Furtwangler, non vengono qui commentate. Non si tratta di forclusione o delirio parziale: la ragione è nel suono. Così come posso solo arguire la bellezza dei colori di un dipinto da una sua raffigurazione fotografica gualcita e in bianco e nero, allo stesso modo posso solo immaginare le sublimi bellezze del dettaglio di ogni passo delle interpretazioni delle sinfonie beethoveniane di Furtwangler, Toscanini, Walter e altri, ma non posso averne la certificata, bramata prova reale. Certo non saranno da disprezzare, ma si tratta di reperti archeologici che non possono competere con realizzazioni di piena bellezza sonora (la musica è anche suono, così come l'amore è anche piacere della carne), come quelle dei direttori dell'epoca della stereofonia (cito tra le più belle dal punto di vista sonoro, non solo Karajan e Abbado, ma anche Giulini).

Tra le polarità importanti, mi piace ricordare qui quella tra romanticismo e illuminismo dell'interpretazione. Prima però devo premettere che il ragionare per polarità opposte lungo un continuum ideale non significa creare ad arte antinomie inconsistenti, ma bensì seguire la disciplina fondamentale del metodo filosofico che impone per ogni aspetto, di trovarne le estreme conseguenze, da un lato e dall'altro, e i pro e i contra correlati.

Tornando alle due polarità indicate, possiamo individuare in Karajan il campione del romanticismo e in Bohm quello dell'illuminismo (alcuni preferiscono il termine classicismo, al quale manca però il connotato fondamentale della priorità data alla chiarezza interpretativa). Per esempio: nella sezione B del secondo indimenticabile movimento della patetica di Ciaikovsky, Karajan, con l'ausilio del suo voluttuoso legato, sposta continuamente gli accenti ritmici e le dinamiche dei crescendo e diminuendo della bella melodia, alterando il fraseggio canonico (già di per sé reso difficile dal ritmo in cinque), per far sì che la melodia sprigioni tutto il suo fascino (il problema è che senza il testo davanti, non se ne capisce il ritmo, che pure conta, data la quantità di accenti messa dall'Autore). Karajan non chiarisce il ritmo e il fraseggio è reso altresì asimmetrico. Tutto al contrario Bohm il quale – ad esempio – nel secondo movimento della quarta di Beethoven, sempre all'insegna della chiarezza illuministica innanzitutto, fa udire (unico tra tutti) assolutamente tutte le note, anche il contrappunto dei secondi violini alla bella, difficile melodia principale, fornendole un senso (che altri faticano a trovare) proprio in quell'accompagnamento che si intreccia con la linea principale. A volte, in musica, è bene confondere, romanticamente, badando all'effetto avvolgente, altre volte è bene che tutti i dettagli, illuministicamente, emergano e che tutto sia chiaro, ritmicamente, melodicamente e armonicamente, al punto da poter riprodurre la partitura ascoltando l'esecuzione del brano.

Un'altra antinomia, o meglio polarizzazione (non artificiosa, ma pulsante e posta lungo un continuum, come di consueto) è quella tra retorica e antiretorica. Tra i campioni delle esecuzioni retoriche (id est lente e pesanti) possiamo annoverare Furtwangler e Bohm (ma anche Giulini, e solo per citare i più recenti, o meno antichi tra gli interpreti). Agli antipodi vi è una serie di direttori, tra i quali spicca Maazel. Esemplare in tal senso è la sua interpretazione della prima sinfonia, in particolare del primo movimento. Così come Zurletti ricorda che Giulini adotta tempi mediamente più lenti degli altri, ma che in tale lentezza si sentono cose che altri non fanno sentire (io estenderei il complimento a Bohm), di Maazel si potrebbe dire lo stesso per la velocità, l'andamento asciutto. Maazel ricerca due cose fondamentalmente: il virtuosismo orchestrale della sua Cleveland Orchestra (tale è il primo motivo della velocità mediamente più elevata nelle sue scelte di andamento in quasi tutti i brani) e l'eleganza, o leggerezza, o evitamento della retorica. Maazel tiene a non far dire a Beethoven ciò che è tutto da dimostrare che Beethoven volesse dire. Rifiuta la profondità, o meglio una supposta idea di profondità. Riduce l'interpretazione al minimo comune denominatore di una prassi esecutiva brillante (analoga impressione abbiamo in certi casi in Barenboim), ma ciò è tutt'altro che un'affermazione dispregiativa. In tale riduzione, Maazel ritrova la grandezza. Il problema, semmai, in Maazel, è il ferreo rigore logico con cui persegue tale obiettivo. In taluni passi di molti brani si avvertirebbe cioè il bisogno – nelle sue interpretazioni – di un maggiore lasciarsi andare, a parità di rifiuto della retorica. Se si perdona l'orrenda metafora, a volte il rasoio di Occam, se troppo affilato, può portare via anche un pezzo di guancia, oltre alla barba.

Come dicevamo Maazel evita la profondità artificiosa, ma gli fa difetto il lirismo nel senso che questo difetto gli è stato imputato in molte registrazioni ed esecuzioni pubbliche, come se si trattasse di freddezza.
Certo una cosa è evitare la profondità artificiosa e un'altra è evitare il lirismo.
Colui a cui non fa difetto il lirismo è senz'altro Muti. Ne è un esempio la sinfonia numero nove, in particolare il terzo movimento.
Qui viene espresso tutto il lirismo e si arriva là dove non arrivano altri.
Occorre anzitutto distinguere tra retorica tardo romantica, come in Furtwangler, in cui predomina il misticismo, e lirismo italiano: qui il riferimento è il belcanto.

Semplificando, potremmo definire in modo differente uno stile di belcanto per i tre direttori italiani che pure ne sono i rappresentanti.
Così, potremmo definire lo stile di Muti come contrassegnato dal lirismo, quello di Abbado come contrassegnato dalla poeticità e infine quello di Giulini come contrassegnato dall'epica.
Venendo al terzo movimento della nona, nell'interpretazione di Muti si sente l'apertura lirica che manca in altre interpretazioni. Ad esempio in Bernstein non si coglie la scansione ritmica, mentre invece in Szell e Stokovsky la scansione ritmica è così marcata e predominante da annientare il lirismo. In Muti invece si ha quell'apertura melodica che è necessaria per la resa di questo celebre brano.
Il problema con i direttori che afferiscono all'area del belcanto si pone generalmente di fronte all'elemento ritmico, inteso non solamente come scansione, ma anche come espressione della potenza. In tali casi i direttori italiani difettano un po' di potenza. Per esempio anche Muti che pure tra i direttori che afferiscono all'estetica del belcanto è il più marcato ritmicamente, nel secondo movimento della nona in alcuni passi stiracchia un po' i suoni, in una maniera che può apparire vieppiù inspiegabile. Per quanto riguarda la dilatazione dei tempi, il maestro, non solo in senso positivo, è Giulini. Le sue celebri versioni delle nove sinfonie di Beethoven, così come delle quattro di Brahms, sono senz'altro epiche, profonde, ma possono apparire prive del nerbo necessario in brani in cui l'elemento ritmico è talmente presente da non potersi ignorare una qualche implicazione con la potenza.
Per quanto riguarda Maazel vi sono due direttrici di senso, la prima riguarda la leggerezza e la seconda riguarda il virtuosismo.
In Giulini invece vi è il rifiuto del virtuosismo orchestrale unito a una certa dose di pesantezza, quale si ritrova solamente in direttori della primissima generazione, ma dei quali comunque è un esponente anche Bohm, che pure ha operato nel dopoguerra fino agli anni ’80 del XX secolo.
È importante rilevare come diversi fattori attinenti a diversi stili direttoriali si ritrovino per così dire in vantaggio o in svantaggio a seconda del brano eseguito e come all'interno di una stessa sinfonia diversi brani siano interpretati meglio da diversi direttori senza che un direttore riesca a prevalere su di un altro o su tutti gli altri per l'intera sinfonia.
Ciò significa che le direttrici di senso o meglio le poetiche direttoriali costituiscono delle chiavi interpretative non sempre valide in modo generale per un'opera intiera, ma bensì solamente per brani di essa o frammenti, passaggi, istanti.
Tale ragionamento risulta molto importante per definire un'impossibilità di fatto nello stabilire una prevalenza univoca e certa di un direttore su altri direttori per quanto riguarda l'interpretazione di un autore o di un'opera o di un brano.
Può darsi che non si tratti di un'impossibilità ontologica, ma le conseguenze pratiche sono simili a quelle previste da Umberto Eco e riprese da Zurletti, relative all'opera d'arte aperta.
È molto importante sottolineare come queste caratteristiche sopra descritte non costituiscano in nessun modo giudizi di valore. Si tratta di indagini fenomenologiche di carattere estetologico volte a individuare dei principi estetici per l'interpretazione musicale.
Da quanto sopra esposto si può evincere infatti che non esiste un campione assoluto per una sinfonia, ma che bisogna accontentarsi di alcuni sotto-campioni per ciascun brano e per ciascun passo di ogni sinfonia. Con questo naturalmente non si vuole sminuire la grandezza di alcuni interpreti in alcune loro clamorose esecuzioni. Restano indimenticabili, a titolo meramente esemplificativo, le interpretazioni della terza di Bernstein e della sesta di Karajan, Ma ciò che preme sottolineare qui è il fatto che sarebbe riduttivo cercare di definire il più grande interprete per ogni sinfonia o più ancora per tutte le sinfonie.
Certo, si potrà cercare di nominare il ciclo sinfonico preferito, ma si tratta di un gioco accademico che lascia il tempo che trova, se non supportato da minuziose e puntuali descrizioni e da non meno puntuali riferimenti ai brani, ai passi e ai punti topici di ogni brano.
Come dicevamo, l'essenza dell'interpretazione andrà trovata di volta in volta, senza pretese assolutizzanti perché nessuno possiede il passe-partout, ma molti sembrano possedere un frammento di chiave che, unito a quello degli altri, può creare la chiave intiera.
Come mostrato nelle precedenti descrizioni non esiste un indicatore univoco della corretta interpretazione senza prima aver chiarito l'estetica del brano.
Un altro elemento molto importante è il piacere del suono. Questo si può ritrovare in misura maggiore o minore nei diversi direttori. Non ci riferiamo alla cura dei dettagli sonori o alla precisione dell'intonazione che diamo per scontate in orchestre di una certa qualità, ma bensì ci riferiamo alla voluttà sonora.
Vi sono direttori con maggiore o minore attitudine a questa qualità. Tra quelli con maggiore attitudine possiamo citare tranquillamente Herbert von Karajan. Ma anche Muti, Giulini, Abbado (meno Bernstein, per il quale il parametro sonoro preferito è il colore, più che la bellezza in sé). In alcuni direttori, tipicamente quelli italiani, la bellezza del suono sembra andare in direzione contraria rispetto all'espressione della potenza. In altri direttori invece, come Herbert von Karajan, viene coniugata la potenza sonora con il piacere del suono.
Occorre ora spendere due parole sulla citata differenza tra lirismo e poeticità che caratterizzerebbero i due differenti stili interpretativi di Muti e Abbado. Nel ribadire che non viene effettuato nessun giudizio di valore, bisogna far ricorso al concetto di sublime come visione dall'alto che caratterizzerebbe maggiormente l'interpretazione di Abbado rispetto a quella di Muti, nella quale l'aspetto melodico assumerebbe un carattere maggiormente sanguigno e pertanto si rifarebbe in maniera più diretta al bel canto dal punto di vista del cantante. Esempi di una tale differenza tra i due stili si possono rinvenire per esempio nella melodia dell'ouverture del Macbeth verdiano di Abbado, nel finale della quarta sinfonia di Brahms diretta da Abbado, in cui la parte melodica assume un aspetto sublime inteso come visto dall'alto e non vissuto in presa diretta. Esempi di caratterizzazione melodica vissuta in presa diretta da parte di Muti sarebbero invece l'inizio della seconda di Brahms, ma anche il terzo movimento della nona di Beethoven. Qui il lirismo viene incontrato mentre si vive e non è una immagine struggente di un momento passato.
Come si spiegava, la capacità di Karajan di coniugare potenza e bel suono è unica in quanto in altri direttori il bel suono va a scapito della potenza e viceversa. Per esempio in in Georg Szell, non si ha un suono piacevole, ma molto secco.

Per quanto riguarda Maazel, la sua interpretazione del primo movimento della prima sinfonia è senz'altro la migliore. Ciò che Maazel riesce a suggerire con la sua interpretazione è che si tratta di un'altalena, di un gioco. Vi è il bel suono, vi è la leggerezza. Altri direttori non riescono a rendere questo aspetto fondamentale della prima sinfonia.
Il problema del piacere, in contrapposizione alla forza è in realtà un falso problema. In realtà essi si trovano lungo un continuum, in posizioni diametralmente opposte, ma in una realtà multidimensionale come la musica essi possono anche coincidere. È il caso per esempio dell'arte di Herbert von Karajan il quale è riuscito a ottenere un impasto tra la potenza e il piacere del bel suono. Non è l'unico, ovviamente, ad essere riuscito ad effettuare una sintesi di questo genere, ma è colui che vi è riuscito in misura maggiore. Trattasi, di fatto, di una sua precisa cifra stilistica. In effetti il carattere di modernità e classicità insieme dell'arte di Herbert von Karajan deriva da questa sintesi che, inoltre, rende le sue interpretazioni estremamente appetibili al grande pubblico. Non è un caso se, tutto sommato, il suo nome è associato alla fama di più grande direttore d'orchestra di tutti i tempi. A lungo, negli anni ‘80, si è discettato, da parte dei critici, sul fatto che tale fama fosse meritata o meno. Era l'epoca in cui la figura del grande direttore contava veramente molto nell'opinione pubblica che vedeva come molto importante la figura del migliore, del primo, ed anche del leader illuminato. Pertanto, anche la contrapposizione tra Herbert von Karajan e Leonard Bernstein aveva una sua ragion d'essere ben precisa in questa concezione del mondo di allora che venne a svanire dopo la caduta del muro di Berlino e, quasi, in concomitanza con la morte dell'uno e, a breve distanza di tempo, con quella dell'altro: era finita un'epoca. Queste considerazioni al giorno d'oggi potrebbero essere considerate inattuali. Si parlò, negli anni ‘90, della crisi del principio di autorità, come a giustificare un progressivo venir meno dell'interesse per la questione dei grandi direttori, e cioè di chi lo fosse, perché e in che modo. In realtà fu forse solamente la crisi economica a far passare in secondo piano o meglio a far perdere la fiducia nel trionfo del migliore, in quanto, per la verità, come dimostrò la storia mondiale di quegli anni fino ad oggi, il principio di autorità sembra godere ancora adesso di ottima salute.
Abbiamo parlato del binomio piacere potenza come se si trattasse di due polarità che si trovano agli estremi opposti lungo un continuum. Ovviamente, proseguendo la metafora visiva, potremmo rilevare altre polarità. Un fattore molto importante, in base al quale si può misurare una interpretazione, è costituito dal fraseggio. Per tale parametro prenderei a modello Claudio Abbado in quanto le sue interpretazioni si segnalano per una estrema accuratezza nel fraseggio e per la capacità di coniugare tale accuratezza del fraseggio con una capacità poetica che lo toglie dal novero dei direttori abili soprattutto e perlopiù nella concertazione e lo immette direttamente nell'empireo di quei direttori che si segnalano per la genialità e profondità delle loro interpretazioni. Questa è un'altra polarità: da un lato abbiamo una capacità di curare il dettaglio della perfezione nell'esecuzione orchestrale e dall'altra abbiamo la capacità di andare al cuore dell'interpretazione musicale e di identificarsi con la cifra poetica del brano eseguito. È chiaro anche in questo caso come non si tratti di due polarità contrapposte, ma di due polarità che si trovano lungo un continuum. Vi è una certa costante nel verificare che un direttore, ciascun direttore, appartiene più a una polarità piuttosto che all'altra. Nel novero dei direttori che si segnalano per la loro capacità di concertare metterei senz'altro Riccardo Muti, Lorin Maazel, Karl Bohm, mentre nel novero dei grandi interpreti, senza che tale distinzione comporti alcun giudizio di valore, metterei Leonard Bernstein, William furtwangler e, a metà lungo questo continuum, metterei direttori che hanno entrambe queste capacità sviluppate in eguale misura, tra questi segnatamente Herbert von Karajan. È difficile, senz'altro, scalzare l'impressione di una estrema artificiosità di tali distinzioni, ma se, anziché vederle come caratteristiche statiche e univoche, prendiamo tali distinzioni e definizioni come ingredienti di ciascun direttore, ossia qualità intrinseche che essi possiedono in un impasto volta a volta diverso, allora tali definizioni e distinzioni assumono un significato perfettamente comprensibile e utile in vista di una disamina estetica del loro stile direttoriale.
Un'altra direttrice di senso attraverso la quale si snoda l'espressione della poetica e dell'estetica di ciascun interprete direttore d'orchestra nei confronti dei brani che esegue è quella dell'andamento. L'andamento, tecnicamente agogica, banalmente il tempo che viene preso per ciascun brano e gli scostamenti da esso all'interno del brano a cura del direttore, influisce inevitabilmente sull'estetica del brano e dell'interpretazione stessa. In altre parole, nessun brano sarà uguale a se stesso, se eseguito a una velocità diversa.
Oggi ho letto un articolo di Paolo Isotta, in cui si parlava male di Abbado e bene di Riccardo Muti. Il punto non è se sia valido o meno come giudizio di valore, ma bensì il fatto che tale giudizio non sia stato motivato. Il critico musicale, se vuole porsi come musicologo, cioè come storico e filosofo dell'estetica e della musica, deve porsi su di un piano superiore rispetto ai meri giudizi di valore non motivati.
Vi possono essere decine, se non centinaia di esempi di interpretazioni di Abbado più o meno riuscite rispetto a interpretazioni di altri direttori a loro volta più o meno riuscite, ma dobbiamo riuscire nel commentarli a estrinsecare le ragioni estetiche poetiche e di struttura del brano, nonché riferite allo stile esecutivo e alla concezione interpretativa del dato brano in merito agli elementi del fraseggio, del suono, della dinamica, dell'agogica, dell’andamento, della concezione dell'armonia, della scansione ritmica, della forza o della dolcezza o di entrambe, ecc… ecc…, tali per cui un’interpretazione sarebbe meglio di un’altra per quel determinato passo, brano o opera complessiva.
Senza tali estrinsecazioni, ogni giudizio non avrà alcun valore filosofico, né di testimonianza storica. Altro sarebbe, infatti, cercare di esprimere le emozioni estetiche o financo psicologiche che motivano un tal giudizio o un tale altro. Ma senza riferimenti musicali, filosofici o psicologici, ogni giudizio di valore perde il suo valore. Esercitando la critica musicale senza spiegazioni del proprio giudizio, si degrada tale disciplina a livello della più bassa diatriba pseudo-politica. Non vi è nessuna ragione per giustificare un simile atteggiamento, né, tantomeno per leggere tali critiche immotivate, ché meglio si impiegherebbe il proprio tempo ad ascoltare le esecuzioni tanto criticate. Perciò, pur provando la massima curiosità nei confronti degli scritti, soprattutto passati, di Paolo Isotta, non ritengo giusta la liquidazione di un grande direttore, forse il più grande dei direttori italiani del secondo dopoguerra e forse nella top five dei più grandi direttori di tutti i tempi, solo perché… appunto, perché? Forse perché non era napoletano come Muti e Isotta? O forse perché non era di destra, ma bensì una bandiera della sinistra? È qui il punto. Occorre svincolarsi da un giudizio politico quando si parla di musica. E qui mi viene in mente un film, pur bello, su Furtwangler, che obbliga a porsi la domanda sull'indipendenza dell'arte e della musica dalla politica, sulle pretese manipolatorie della politica nei confronti della musica, ma anche su quella che si rivela essere una pia illusione da parte del musicista e cioè che tramite la sua arte e solo tramite essa egli possa ritenersi e dimostrarsi superiore alla politica. Di fatto, non basta, come pensava Furtwangler, esprimere grandi sentimenti tramite la propria arte, se ciò significa ignorare la barbarie della realtà. Nel caso di specie, egli avrebbe potuto espatriare come fecero molti suoi colleghi. E tale è la conclusione cui giunge il film. D'altro canto, è vero che noi non possiamo giudicare né l'artista né l'uomo. L'uno non possiamo giudicarlo perché non siamo grandi artisticamente come lui. L'altro non possiamo parimenti giudicarlo perché non ci troviamo nella condizione storica, politica, sociale e geografica in cui egli si trovò drammaticamente a vivere. Pertanto, occorre sospendere il giudizio sull'uomo e analizzare l'operato dell'artista. È così per tutti i musicisti e per tutti filosofi. La loro opera artistica o teorica vale di più del loro operato come uomini. Ciò non significa che essi siano superiori o immuni da colpe, ne che ci si debba esimere da un giudizio storico e umano, ma bensì che tale giudizio storico e umano non è collegato al giudizio estetico e non deve influenzarlo. Quando ascolto il primo movimento della prima sinfonia di Beethoven, non so se è stato diretto in un luogo o in tempo piuttosto che in un altro perché il luogo e il tempo di quel brano si trovano nel brano stesso e l'interprete che io ascolto sta cercando di entrare in quel luogo e in quel tempo, intesi quelli del brano, non quelli dai quali sta dirigendo. Rovesciare tale prospettiva sarebbe come negare validità ed autonomia al vertice osservativo estetico. Sarebbe negare la filosofia della musica, la musicologia, l’estetica musicale, la critica musicale e via discorrendo.
Il discorso appena fatto è molto importante. In questo senso la disamina delle nove sinfonie di Beethoven e delle loro interpretazioni costituisce una sorta di palestra tra le più privilegiate per cogliere la poetica e l'estetica interpretativa di ciascun direttore. Tale disamina prevede una fondazione di tipo filosofico di principi estetici che governano il clima generale dei vari brani e ogni singolo passo delle sinfonie stesse, prima di poter non solo emettere giudizi di valore sulle singole interpretazioni dei vari direttori, ma anche di poter emettere un giudizio qualsivoglia sul loro stile direttoriale. Pertanto qualsiasi conclusione affrettata in merito al valore più o meno grande di un direttore è completamente destituita di fondamento ed in particolare manca di qualsiasi senso. Tale discorso preliminare fatto qui sopra costituisce la distinzione fondante tra giornalismo spicciolo e filosofia dell'estetica. Pertanto, quando parleremo delle singole interpretazioni dei singoli brani dei singoli direttori, in generale e perlopiù eviteremo giudizi di valore ed effettueremo ragionamenti fondati sulla logica estetica. Tale prospettiva è il vertice osservativo privilegiato da cui partire e a cui tendere. Ciò non significa non poter distinguere qualitativamente direttore e direttore. Anzi, la possibilità comparativa costituisce l'esercizio privilegiato di tale disamina filosofica, ma lo è in relazione alla analisi estetica del brano, del passo, dell'autore. Pertanto gli elementi in gioco, cioè quelli descritti, saranno dal lato dell'oggetto il mondo estetico evocato, inteso in tutte le sue sfumature e per l'approssimazione al centro raggiunta o meno dall'interprete, mentre dal lato del soggetto i parametri di valutazione saranno relativi agli strumenti utilizzati per raggiungere quel centro poetico, e tali strumenti sono il suono, il fraseggio, la dinamica, l’agogica, il ritmo, la forza, ecc…
Se dovessimo fornire un giudizio complessivo sui vari cicli delle nove sinfonie di Beethoven ovviamente avremmo un certo imbarazzo a definire quello che potrebbe essere il campione. Tuttavia, mi sento di poter dire che il ciclo di Lorin Maazel è il mio preferito. Il motivo risiede proprio nel fatto che, come abbiamo anche citato sopra, Maazel riesce ad eliminare completamente l'alone retorico di pesantezza che a volte si rileva nelle interpretazioni delle nove sinfonie di Beethoven. Se prendiamo nuovamente ad esempio il primo movimento della prima sinfonia, possiamo notare come l'esposizione, nell'interpretazione di Maazel, sia senz'altro la migliore (abbiamo come riferimento i cicli di Herbert von Karajan, Leonard Bernstein, Eugen Jochum, Carlo Maria Giulini, Karl Bohm, Georg Szell, Claudio Abbado e altri). Vero è che la dimensione del gioco così ben espressa nell'esposizione trova un riscontro più fiacco nello sviluppo in cui nell'interpretazione di Maazel viene a mancare l'elemento drammatico interno alla sorpresa e la sorpresa stessa perde molto effetto.
In attesa di riprendere il discorso più avanti, notiamo qui come il fatto di avere completato l'intero ciclo delle sinfonie costituisca da parte di questi direttori e degli altri che lo hanno fatto una scelta programmatica importante che deve essere valorizzata e di cui bisogna tenere conto nel fornire un giudizio complessivo sulla qualità artistica delle loro interpretazione delle sinfonie di Beethoven. Con questo naturalmente non voglio dire che altri direttori, pur grandissimi, che non hanno fornito l'intera mole delle sinfonie di Beethoven nell'arco della loro carriera siano da meno, ma solamente che tale scelta selettiva, se pure risponde a un'umana preferenza unita a fattori pratici di gestione del proprio tempo e del proprio lavoro, non è giustificata se non viene sanata nel corso degli anni (almeno come tentativo) e se non vengono quindi completate tutte e nove le sinfonie da parte del direttore che le interpreta. Se Celibidache, per esempio, o Sinopoli (quest'ultimo però scomparso prematuramente) che sono direttori grandissimi non hanno fornito l'interpretazione dell'intero ciclo delle sinfonie di Beethoven, (tra i viventi citiamo anche Zubin Mehta), ciò non va ascritto a loro merito, ma va considerato piuttosto un limite che non sono riusciti a valicare. Ciò perché l'idea complessiva delle sinfonie di Beethoven deve trovare riscontro in prove complessive quali possono essere l'esecuzione pubblica o l'incisione. Non dubitiamo che valga anche l'esecuzione pubblica (Celibidache la preferiva in assoluto alla registrazione ed incisione), ma l'incisione come documento principe che attesta un prodotto artistico e un orientamento interpretativo è la prova regina dell'impegno di un direttore nell'interpretazione di opere così compatte e articolate in un insieme quali possono essere considerate le nove sinfonie di Beethoven.
Quindi, dobbiamo rendere onore al merito di chi si è impegnato in un programma di ricerca culturale qual è il tentativo, più o meno riuscito, di affrontare tutte e nove le sinfonie di Beethoven. Naturalmente con ciò non si vuole nulla togliere a quei direttori che hanno affrontato solo alcune delle nove meravigliose sinfonie. E’ il caso per esempio di Carlos Kleiber, considerato da alcuni critici musicali come un riferimento tra i più grandi per quanto riguarda la direzione d'orchestra del novecento, e che per quanto riguarda Beethoven ha fornito una interpretazione ritenuta molto valida della settima sinfonia. Peraltro non condividiamo tale giudizio. Le motivazioni sono le seguenti: non ci pare particolarmente brillante rispetto ad altri grandi interpreti l'interpretazione in generale che Kleiber dà della settima, né come tempi, né come fraseggio, né come colore del suono. Ma ciò che più ci disturba in realtà è il fatto che nel famoso secondo movimento egli esegua le doppia appoggiature del tema che ronza intorno al tema principale e che ha reso così celebre questo brano, parte in battere e parte in levare, ciò che a me sembra un'incoerenza stilistica imperdonabile e ingiustificabile. Su come vadano eseguite queste doppie appoggiature mi sono già espresso più sopra e ritengo che Leonard Bernstein sia colui che le dirige meglio e che quindi diriga meglio l'intero brano. Il senso di queste doppie appoggiature risiede nella vivacità che esse riescono a imprimere tramite la asimmetria ritmica, rispetto alla nota melodia principale che altrimenti suonerebbe ripetitiva. L'effetto di asimmetria però a sua volta deve essere sempre uguale a se stesso, pena un fastidioso senso di incompletezza, dal momento che principio generale in Beethoven è rappresentato dall’ostensione del massimo della creatività all'interno del massimo spirito di sistema. Pertanto, eseguire, come fa Kleiber, le doppie appoggiature parte in battere e parte in levare costituisce un fattore disturbante e distraente, per nulla in linea con la poetica beethoveniana.
Pertanto, ritengo altamente inopportuno definire come la migliore tale interpretazione della settima da parte di Kleiber, quando casomai, in particolare per quanto riguarda il secondo movimento la migliore interpretazione rispetto al principio sopra esposto risulta essere quella di Leonard Bernstein. Da ciò che si è esposto sopra risulta in modo inequivocabile come, nell'ambito dell'interpretazione ottimale, bisogna effettuare una ricerca brano per brano, passo per passo, autore per autore, interprete per interprete.
Passiamo ora alla disamina del secondo movimento della quarta sinfonia. Si tratta di una frase di ampiezza inconcepibile, tale per cui l'orecchio, inteso come la mente umana, non può cogliere l'intera frase come un tutt'uno. Anziché quindi, come l'ultimo Abbado tenta di fare, accelerare l'andamento al fine di farla percepire con una frase unica, è meglio concepirla a blocchi, anche se non necessariamente separati tra di loro, ma comunque con un andamento tale per cui il blocco successivo fa sfumare il ricordo del blocco precedente. Anziché l'illusione dialettica della ragione useremo qui una sorta di hic et nunc. Vi è una simmetria della frase e una grande ampiezza della stessa, ma esse rimangono quale traccia preconscia non direttamente udibile, mentre avvertiremo gli istanti che si susseguono svaporando l'uno nell'altro. Ci abbandoneremo all'espressività senza cercare di dimostrare l'unità della frase. Godremo dei singoli istanti lasciando per questa volta sottotraccia il mito della coerenza dell'unità del fraseggio.
In tale prospettiva, le interpretazioni migliori di tale movimento sono quelle di Leonard Bernstein, Karl Bohm, più che quelle di abbado (che confida nella velocità per far concepire la frase) o di Herbert von Karajan (che confida nel suo proverbiale legato per dare unità alla frase).
Nonostante numerose ripetizioni, non è facile trovare il fraseggio ideale per il secondo movimento della quarta sinfonia. Questo è un problema che riguarda moltissimi adagi di Beethoven, alcuni dei quali si trovano anche tra i famosi quartetti. E’ come se Beethoven volesse ammaliare con la capacità di ideare frasi ampie fino all'inverosimile, per poi tentarci a trovare il respiro migliore per tali frasi ampie, ma allo stesso tempo obbligandoci a vivere momento per momento l'espressività di tutti i micro passaggi di tali frasi. A proposito di tali frasi così lunghe mi viene in mente un espediente espressivo che si può utilizzare anche per le frasi lunghissime concatenate di Sebastian Bach: sbagliare i fiati. Rendere la frase più umana con dei fiati improbabili rinunciando a far percepire e concepire in un unico fraseggio la frase lunghissima, rende la frase stessa molto più espressiva. Potrebbe essere scambiato apparentemente per un banale trucco, ma si tratta di uno strumento espressivo. Quello dei fiati sbagliati potrebbe essere un paradigma della creatività artistica che solo apparentemente si pone contro allo spirito di sistema di Beethoven. In effetti nel Nostro convivono due spinte parallele e distinte che si intrecciano: una è quella dell'incasellamento e l'altra è quella dell'espressione. L'abilità o la profondità consistono nel non far prevalere né l'una, né l'altra, ma bensì di farle coesistere in una maniera che potremmo definire naturale. È chiaro che l'accenno al naturale è artificioso, potremmo casomai definire queste due spinte come l'eredità del classicismo e l'avvenire del romanticismo. In Beethoven vi è una consapevolezza ideologica di tali aspetti. È dunque nella dialettica tra ritmo e canto che va ricercata la chiave di volta della produzione e dell'interpretazione beethoveniana. Esistono naturalmente altri parametri che si intrecciano a questi nel definire la centratura dell'interpretazione, Primo fra tutti l'agogica. In tale direzione possiamo identificare due polarità interpretative che fanno capo alla staticità da un lato e dall'altro al dinamismo. Si veda ad esempio la già citata differenza tra l'interpretazione del primo movimento della prima sinfonia di Maazel e quella di Karl Bohm. In un caso avremo un gioco e nell'altro avremo un quadro solenne. La quintessenza retorica di Bohm ci restituisce un Beethoven immobile mentre l'agilità di Maazel ci rifornisce di gioco. Entrambi gli elementi sembrano essenziali alla vita, la prevalenza di uno o dell'altro non può costituire un'etichetta preconfezionata, né una medaglia al vincitore, ma bensì esse costituiscono sfumature lungo un continuum espressivo. Inoltre tali due interpretazioni ci restituiscono le fotografie di due mentalità afferenti a due epoche diverse le quali attraverso l'interpretazione di Beethoven danno quadri definiti di uno spaccato sociale delle epoche, culture, visioni del mondo e società cui appartengono. Riguardo alla interpretazione della prima sinfonia di Beethoven, in particolare del primo movimento, da parte di Maazel, sulla quale ho speso qualche parola per definirla la migliore, credo opportuno fare qualche precisazione. In realtà la leggerezza e il gioco scelti dal direttore si adattano magnificamente all'esposizione, meno allo sviluppo. Per lo sviluppo, ritengo che Leonhard Bernstein fornisca l'interpretazione migliore, non solo di questo movimento di questa sinfonia, ma di tutti i movimenti in forma sonata di tutte le sinfonie di Beethoven. Ciò che manca nell'interpretazione di Maazel, o meglio nello sviluppo del primo movimento della sua interpretazione della prima sinfonia è l'effetto sorpresa dello sviluppo stesso. Si tratta di un dato molto importante: lo sviluppo crea uno stacco rispetto all'esposizione e tale stacco si deve sentire perché ha un significato. Pertanto prediligo le interpretazioni in cui tale stacco e tale significato specifico dello sviluppo si sentono di più. Com'è noto infatti, lo sviluppo è il cuore della sinfonia di Beethoven, pertanto, anche se trovo estremamente azzeccato lo stile giocoso, preciso, snello dell'interpretazione di Maazel nell'esposizione, trovo carente mantenere lo stesso stile senza diversità nello sviluppo. Pensiamo anche alla funzione del ritornello dell'esposizione: quel minimo di noia che tale ripetizione provoca serve proprio a rendere ancora migliore l'effetto sorpresa dello sviluppo. In questo senso potremmo definire tutti gli sviluppi diretti e interpretati da Bernstein di tutte le sinfonie di Beethoven come le migliori interpretazioni di massima di questa porzione di tutte le sinfonie stesse. Se si potesse fare un innesto, nel caso del primo movimento della prima sinfonia, prenderemmo come migliore interpretazione dell'esposizione quella di Maazel, mentre proseguendo nello sviluppo prenderemmo l'interpretazione di Bernstein. È chiaro che quanto sopra esemplificato costituirebbe un Frankenstein, una sorta di fantasia mostruosa che ci serve solo per esprimere il concetto in base al quale ciascuna porzione anche piccola di ciascun brano di ciascuna sinfonia ha un suo campione, nel senso di miglior interprete. Naturalmente anche in questa definizione di migliore interprete di Bernstein per quanto concerne gli sviluppi delle sinfonie di Beethoven occorre operare alcune distinzioni. Se da un lato dobbiamo riconoscere l'assoluta preminenza di Bernstein come interprete, dall'altro dobbiamo anche dire che le sue doti di concertatore, nel senso dell'accuratezza delle esecuzioni da lui dirette, hanno un andamento più discontinuo: in particolare l'accuratezza esecutiva risulta carente, se così si può dire per uno dei massimi direttori di tutti i tempi, nelle esposizioni dei primi movimenti o comunque dei movimenti in forma sonata. Tale minor accuratezza viene utilizzata da Bernstein come espediente espressivo che è in funzione dello sviluppo, in quanto l'accuratezza dell'esecuzione, tenuta su di un livello medio per tutta l'esposizione, diventa massima proprio a partire dallo sviluppo, con ciò aumentando l’effetto sorpresa. Pertanto possiamo dire, come già notava del resto Michelangelo Zurletti, che Leonard Bernstein dà alle sinfonie di Beethoven da lui dirette la massima concentrazione espressiva proprio in virtù della precisione di dettaglio, quasi da cesellatore, che egli mette nello sviluppo notando così e facendo notare all'ascoltatore che si tratta del cuore della sinfonia di Beethoven. Tornando alla prima sinfonia e al suo primo movimento possiamo dunque definire le qualità della migliore interpretazione ideale elencando le virtù del gioco, della sorpresa, della snellezza, dell'energia. È importante anche notare il riferimento alle sinfonie di Mozart e di Haydn che Beethoven mette in atto in questa prima sinfonia dal momento che è come se egli volesse aggiungere del dinamismo a una serie di stilemi aggraziati di tipo settecentesco. Con ciò, senza esagerare nel porre l'accento sulla forza, l'interpretazione risulta ottimale mettendo in luce anche il solo dinamismo. Con tale termine, beninteso atecnico, intendo una assenza di pomposità retorica, un andamento asciutto e brillante, la necessità di rifuggire dalla pesantezza esecutiva, l’evitamento della noia come uno degli obiettivi primari, la sorpresa, il gioco e la gioia. Un discorso particolare andrà fatto per la coda del primo movimento di questa sinfonia. In effetti, anche per quanto riguarda non solo questa, ma in generale tutte le code, il campione interpretativo, il migliore interprete mi sembra essere Leonard Bernstein. E’ bene ricordare che la coda, come lo sviluppo, sono dei dispositivi espressivo-retorici che hanno una loro collocazione stilistica ben precisa all'interno della sinfonia di Beethoven e che costituiscono l'ossatura della sua pregnanza estetica. Nella coda del primo movimento della prima sinfonia, quindi, Leonard Bernstein fornisce un'interpretazione migliore, più pregnante, più avvincente per quanto riguarda l'effetto sorpresa rispetto a tutti gli altri interpreti, Maazel compreso. Come abbiamo detto più volte, le distinzioni che facciamo riguardo all'interpretazione, non rivestono carattere di assolutezza, né vanno prese per oro colato e questo non nel senso dell'attendibilità generale delle asserzioni qui proposte, ma bensì nel senso della loro rilevanza statistica che non può dirsi generale ma che va verificata di volta in volta. La verifica della rilevanza statistica va messa in atto su ogni passo di ogni brano e consente a sua volta la verifica della qualità dell'interpretazione di ciascun direttore: senza tali verifiche, qualsiasi teoria fenomenologica è destinata a rimanere un riferimento fantasioso, mentre invece una sorta di metodo sperimentale si impone per poter asseverare le proprie affermazioni estetiche. Tale è il senso del metodo della filosofia applicata. Non sussistono le condizioni per parlare in senso astratto, senza verifica e con un minimo di credibilità di qualsiasi argomento, tantomeno dell'estetica musicale. Pertanto prenderemo queste nostre annotazioni come appunti in vista di una verifica che l'ascoltatore può e deve fare tramite l'ascolto autonomo dei riferimenti che facciamo e che ciascuno deve poter fare nell'ascolto delle nuove esecuzioni ed interpretazioni. Anzi, il mio metodo presuppone tale verifica continua da parte dell'ascoltatore in quanto fruitore estetico di un'opera d'arte. Ripeto, senza tali verifiche, tutte le asserzioni risultano vaniloqui privi di qualsiasi fondamento ed interesse per chicchessia. In tal senso, contrariamente a quanto previsto dal dettato popperiano, valevole per la scienza, saremo felici di essere smentiti e falsificati in ogni nostra asserzione.
Posso notare qui che tali ultime mie affermazioni potrebbero somigliare pericolosamente alla teoria dell'opera d'arte aperta di Umberto Eco, ripresa da Michelangelo Zurletti, ma non è così, non si tratta di questo. In altre parole, contrariamente alla teoria dell'opera d'arte aperta, non ritengo che ogni accesso sia un modo per possedere l’opera, ma ritengo bensì l’opera d'arte un organismo così complesso che ciascun interprete può portarvi il proprio contributo contribuendo a una visione complessiva, senza che ciò escluda la possibilità che un interprete piuttosto che un altro centri maggiormente il bersaglio e che fornisca un'interpretazione molto migliore di un altro o di molti altri. Questa ricerca del campione non deve naturalmente distrarre dall'obiettivo della migliore realizzazione dell'opera che si incentra sull'opera e non sull'interprete, ma è bene sottolineare sin da subito che non si possono scindere l'opera e l'interprete.
A proposito sempre del secondo movimento della quarta sinfonia, occorre ricordare una versione video degli anni ‘80 con Abbado sul podio, molto più convincente della sua versione in disco degli anni 2000. In questa versione precedente, il direttore milanese riuscì a trovare una sublime quadratura del cerchio tra lirismo e dinamismo ritmico. Così il secondo movimento di questa sinfonia trova una sua misura eccelsa che potremmo descrivere con la metafora della ruota, una sorta di giostra in cui l'elemento ritmico incastona quello melodico. Così, quando il tema, variando, si spezzetta e diventa danzante Abbado riesce a dargli una naturalezza che non si ritroverà nella citata versione successiva. A tale proposito mi viene in mente quanto diceva Glenn Gould riguardo alle prestazioni giovanili come migliori, molto spesso, rispetto a quelle più mature. Con ciò, egli si scagliava contro lo storicismo pseudo evoluzionistico nell'arte e nella musica, sostenendo che molto spesso l'Opus 1 è migliore di quelli successivi e che la cosa vale per diversi autori. Il tema dell'attacco allo storicismo e più in generale al relativismo da parte di Glenn Gould andrà ripreso da noi più avanti quando criticheremo l'approccio teorico di Zurletti in una maniera più completa di quanto abbiamo fatto finora. Per ora limitiamoci ad osservare, riguardo all'esecuzione del secondo movimento della quarta nell'edizione in video degli anni ‘80 con Abbado sul podio, ed in riferimento anche alla necessità di sottolineare l'espressività dei singoli momenti con accorgimenti espressivi quali per esempio i fiati sbagliati, che proprio in quell'esecuzione, nella quale l'orchestra era quella della Scala, il primo flauto prendeva fiato dopo la prima nota di uno sotto-frase e non prima come richiederebbe un'esecuzione scolastica del fraseggio di tale brano. Forse la motivazione risiedeva nell'impossibilità di tenere a lungo con un solo fiato una frase tanto ampia, ma l'effetto espressivo anziché risultare difettoso diventava poetico in modo lancinante. Su queste smagliature nelle quali si infila il sublime occorrerà riflettere a lungo perché tale caratteristica fuori luogo della poesia di un brano ricorre nella musica anche presso gli autori più quadrati come Beethoven. Ci aspetteremmo un simile effetto in altri autori, forse barocchi, forse contemporanei, ma mai o comunque molto meno presso gli autori classici e men che meno presso il più classico degli autori quale è il titano Beethoven. Ma proprio tale discrasia dovrebbe aiutarci a capire che non è nella logica e nemmeno nell'assenza di logica che troveremo il bello e il sublime, ma bensì nella dialettica tra la logica e la sua assenza, purché tale dialettica sia in chiave estetica. Non la fredda logica dei ragionieri dunque, né la totale assenza di logica degli pseudo-artisti scapestrati, ma la dialettica tra le maglie del rigore e della forma e i guizzi dell'espressività e della fantasia. Tale è anche in fondo il senso profondo della musica di Beethoven. Quando tale equilibrio tra rigore formale e capacità espressiva verrà forzato fino all'inverosimile da Johannes Brahms, quel parossismo cui accennavamo molte righe sopra troverà uno sfogo, un’estasi, un eccesso che in un certo senso, bucando la storia della musica, ci porta dritto al tardo romanticismo cui Brahms allude ante litteram. In un certo senso il cuore o il nervo centrale della poetica di Brahms risiedono proprio in uno sforzo disperato, nel tentativo di tenere insieme forma ed espressione, dopo Beethoven, con la stessa forte pregnanza di Beethoven, ma in fondo con la consapevolezza che ciò non è più possibile perché l'elemento espressivo sta debordando rispetto a quello formale. Questo aspetto dell'equilibrio tra espressività e rigore è forse tra i più importanti per capire la poetica di Beethoven, senza di che ci troveremo di fronte ad interpretazioni fredde oppure ridondanti di retorica.
Ancora a proposito della prima sinfonia, giova ricordare l'approccio di Jochum in generale e i suoi effetti sul primo movimento della prima. I tempi sarebbero simili a quelli di Furtwangler: estremamente dilatata l'introduzione, privo di slancio l'incipit del primo tema. Non raffigurati in modo esaltante né lo sviluppo, né la coda. E dunque? Eppure l'interpretazione di Jochum presenta motivi di interesse in quanto ricca di slanci di lirismo, non appena il direttore può e ovunque possa permetterselo. Come se Beethoven gli stesse stretto e pensasse sempre a Bruckner, di cui è eccelso interprete. Molto gradevole la messa in primo piano dei legni. Accenti di un lirismo così accorato si hanno solo in diversi scorci delle interpretazioni di Giulini il quale però, pur scegliendo andamenti ancora più lenti di Furtwangler e di Jochum, ha una maggiore tenuta agogica rispetto a quest'ultimo. Anche un insolito e incostante, inaspettato rubato è infatti tra i segnali della cifra stilistica di Jochum, con una funzione analoga a quella che più sopra abbiamo suggerito essere quella dei "fiati sbagliati", per dar corso all'espressione in alcuni momenti del brano.
Come abbiamo più volte riferito, la messa in luce di un elemento piuttosto che di un altro da parte di un direttore piuttosto che di un altro all'interno di un brano o meglio di svariati passi in ciascun brano, sempre diseguale, sempre imprevedibile, non toglie la possibilità ontologica di rinvenire l'interpretazione ottimale, né la possibilità concreta che uno o più interpreti vi ci si avvicinino.
Pertanto anche quanto dicevamo poco sopra riguardo a Jochum trova la sua ragion d'essere in un aspetto, per esempio la messa in luce dei legni, che pur all'interno di un'interpretazione poco convincente risulta vero e dotato di significato, sicché noi dovremmo integrarlo all'interno di un'interpretazione convincente che è sempre possibile venga proposta da un interprete reale o comunque è sempre possibile venga confezionata in una sorta di Frankenstein immaginario. Allora noi non distingueremo tra migliori interpretazioni reali e migliori interpretazioni possibili o ideali, pertanto immaginarie, per quel tanto che l'immaginazione può confezionare un'interpretazione dal ritaglio e dalla somma di diverse interpretazioni reali. Dal punto di vista teorico infatti non vi è alcuna distinzione tra interpretazione possibile e interpretazione realmente esistita, anche se la prima non è reperibile in alcuna esecuzione realmente avvenuta o forse è reperibile ma è ignota, infatti non dobbiamo dimenticare che non sappiamo quali e quante interpretazioni vengono effettuate ogni giorno nel mondo e in tutti i tempi e luoghi. Così, un'interpretazione immaginaria potrebbe essere solamente un'interpretazione reale, ma non ancora ascoltata o che non ascolteremo in quanto distante geograficamente o già avvenuta nel tempo e non registrata. Essendo quindi impossibile distinguere tra interpretazioni immaginarie e interpretazioni reali, ma non ancora ascoltate tratteremo tutte le interpretazioni, anche quelle immaginarie, come se fossero reali. Questo è un punto molto importante da sottolineare in quanto l'opera non è schiava dell'interprete anche se non è assoluta e non può fare a meno dell'interprete: vi è l'interprete reale, o meglio l'interpretazione realmente avvenuta e l'interpretazione immaginaria o meglio l'interpretazione possibile. Senza tali distinzioni, noi ricadremmo nel relativismo più volte denunciato o nell'assolutismo: si tratta di due opzioni entrambe fallaci in quanto l'opera non può distinguersi dall'interpretazione di essa o meglio può distinguersi, ma non può disgiungersi.
Quanto detto finora in merito all'interpretazione merita una serie di chiarimenti aggiuntivi (forse appariranno ridondanti, a mo' di scatole cinesi, ma non si tratta di questo: ciò che sembra solo preliminare riveste anche carattere essenziale): abbiamo più volte fatto riferimento ad aspetti teorici dell'interpretazione, ma non li abbiamo mai trattati separatamente dagli aspetti pratici, con riferimento ad interpretazioni di brani, note o possibili. Ciò perché l'esercizio della teoria in sé non ha alcun senso, così come non ha senso il commento della pratica esecutiva senza il proprio correlato teorico. In effetti, qui vi è un'analogia con l'estetica del brano: come il brano non può esistere senza interprete (e quindi assolutizzare l'esistenza di un brano in sé porta a vano idealismo e assolutizzare il potere dell’interprete porta a vano relativismo), così la teoria musicale non ha senso se è disgiunta da esempi pratici di interpretazione riferiti ai passi dei vari brani.
Passerei ora a parlare (ma possiamo sempre andare avanti e indietro, perché la musica si svolge nel tempo, ma grazie al testo può essere ripresa in ogni momento, conservando magicamente tutto il suo significato che ancora appieno non ci ha svelato) del secondo movimento della prima sinfonia, solo per dire, così, piattamente, dando un'occhiata alla partitura e al ritmo che dev'essere breve, semplice, regolare, di 3/8, che tale movimento dev'essere appunto eseguito in maniera semplice, breve, regolare, il che vuol dire non troppo lento ed assolutamente a tempo, senza rubati. Sbaglia dunque Bernstein che ruba proprio nell'enunciazione della prima frase, sbagliano tutti coloro che lo affondano, il movimento, in un lago di pesantezza (Bohm, ma anche Szell, financo Maazel, in parte, ma anche Karajan, per non parlare di Furtwangler). Non dev'essere nemmeno un miracolo di leggerezza: dev'essere breve il passo, e semplice, e regolare. Faccio qui riferimento ad un'interpretazione possibile e ricordo il discorso fatto sopra: possibile vuol dire reale, altrettanto di quanto lo è l'ascoltato. Aggiungo inoltre che tale mio approccio prevede un'ulteriore conseguenza, che giova qui esplicitare: l'abolizione della differenza tra il punto di vista del direttore e quello dell'ascoltatore. Noi tutti dobbiamo - nel far riferimento a interpretazioni sia reali, sia possibili - assumere un atteggiamento di direttore e ascoltatore. Anche il direttore ascolta (ci mancherebbe), così anche l'ascoltatore deve dirigere, cioè deve  preferire che l'interpretazione vada in un senso o nell'altro, deve avere coscienza di qual è il senso dato dal direttore e deve poter immaginare direzioni (nel duplice senso di conduzioni d'orchestra e di direzioni di senso) differenti rispetto a quella scelta dal direttore che si sta ascoltando. In altre parole, l'ascoltatore dev'essere attivo e arrabbiato: deve desiderare.
Il punto importante risiede in una particolare forma di desiderio che consiste nell'abbracciare l'ipotesi che quest'esecuzione che stiamo per ascoltare, anzi che ora stiamo sentendo riveli in tutto o in parte l'esecuzione più bella, quella ideale, quella che ci aspetteremmo e che pure è inaspettata. È possibile che frammenti dell'esecuzione ideale, se possiamo descrivere così il concetto, vaghino nell'aria e siano captati ora da un direttore ora dall'altro, ora in un’esecuzione, ora in un'altra. Per tali motivi dobbiamo credere. Sembrerebbe trattarsi di un atto di fede. Ma possiamo veramente considerarlo tale? Dobbiamo quindi allontanarci dall'aspetto scientifico per raggiungere quello fideistico? O possiamo far convivere i due aspetti? Possiamo negarli entrambi? Infine, possiamo ignorarli? Si tratta di domande di non facile risposta, forse essenziali, forse meno.
L'importanza della premessa teorica risiede nell’impossibilità di scindere teoria e pratica nella disciplina musicologica e nell'ascolto. Per ascolto si intende quello finalizzato al reperimento del bello.
Così, tanto per esemplificare, diremo che la quarta nella interpretazione degli anni ‘80 di Claudio Abbado è superiore alla sua stessa degli anni 2000. Ma non ci limiteremo a giudizi generici come quelli che fanno riferimento a una presunta linfa vitale di carattere giovanile, ma cercheremo il perché e spiegheremo il perché di tale giudizio esemplificandolo con l'analisi dei brani, ma non ci limiteremo nemmeno a questo, bensì cercheremo di cogliere le due diverse poetiche interpretative e di motivare la preferenza per l’una piuttosto che per l'altra con il concetto di maggiore o minore aderenza presunta all'estetica del brano eseguito, con l'inevitabile presunzione di conoscerla meglio del direttore. A proposito di queste asserzioni generiche in merito alla vitalità, non posso non segnalare, visto che ho citato un'interpretazione video della quarta sinfonia di Beethoven diretta da Abbado risalente agli anni ’80, un incredibile CD della prima sinfonia di Mendelssohn diretta sempre da Abbado negli anni ’80. Questo a proposito di periodi d'oro, direttori d'annata, presunta linfa vitale e altre asserzioni generiche che pure hanno un perché, ma che vanno motivate in relazione a quel perché. 
Vorrei ora parlare della sesta. Qui il campione è Karajan e a mio avviso lo è (anche se sono cosciente del fatto che ciò che dico è inaudito) in ragione dei tagli. Mi riferisco al ritornello. Logica strutturale vorrebbe che, come non si toglie un pilone a un ponte solo perché tale pilone è uguale ad un altro pilone, così non si dovrebbe omettere il ritornello dell'esposizione nei brani in forma sonata, perché ciò stravolge inevitabilmente la forma prevista. E certo sarebbe presuntuoso stravolgere tale forma, come se si fosse convinti di saperne produrre una migliore di quella ideata da Beethoven. Pertanto quanto ho affermato, se intese in senso sacrale queste istruzioni, è non solo inaudito, ma inaccettabile. Eppure. Eppure, occorre dire, i tagli operati dal sicuro di sé e assai poco filologo Karajan funzionano. Con questo non si può esimersi dal denunciare (sia pure con orrore per la nostra stessa superbia) un difetto della sesta, ossia la sua prolissità.
Di fatto, nessuna delle altre interpretazioni risulta così convincente e il motivo risiede proprio nell'effettuazione, all’interno della maggior parte di queste altre interpretazioni, del ritornello che in questo caso appesantisce una sinfonia dalle proporzioni ragguardevoli. È come se la forma tornasse qui contro la forma in una sorta di groviglio per cui il ritornello non raffresca e non giova alla memoria della forma, ma sembra ritardare lo sviluppo che pure incuriosisce, ma che è come se giungesse troppo tardi. Pertanto qui, secondo me, falliscono anche i direttori d'oltreoceano che pure hanno la tendenza ad essere più freschi nell'interpretazione e meno prolissi, non perché siano meno rigorosi, ma perché danno la precedenza alla fruibilità del brano. Per esempio, Maazel effettua il ritornello e vi cade esattamente come Bernstein, Bohm, Furtwangler, Szell e quasi tutti gli altri. Non così Karajan che imbocca con decisione la via breve lungo tutti i movimenti. In tal modo, oltre a vivificare oltre misura il primo, dà un'intensità nuova al quarto, laddove dopo la festa di paese introduce senza ritardi e con enfasi drammatica inaudita la nota tempesta. Qui è la cifra stilistica di un direttore per il quale l'opera intesa nella sua bellezza deve essere sempre prontamente e pienamente fruibile all'ascoltatore. Se non servono fronzoli, non vi siano fronzoli. Pertanto la sesta sinfonia nell'interpretazione di Herbert von Karajan assume la massima concisione e determinazione divenendo la più snella, incisiva ed efficace tra le sinfonie di Beethoven. Ovviamente, anche in questo caso, non c'è una mancanza assoluta di spunti oltremodo interessanti da parte degli altri direttori nell'interpretazione di questa sinfonia, ma si tratta appunto perlopiù di spunti.
Desidero parlare ora di notazione. Con ciò, intendo la nota distinzione tra significato e significante che ritroviamo in riferimento al segno scritto e a ciò che ne traiamo in termini di significato estetico. L'affermazione che voglio fare qui è relativa all'importanza del segno scritto, non nel senso che il significante dovrebbe assorbire il significato, ma nel senso che il significato, pur essendo altro rispetto al significante, può essere correttamente trovato ed espresso solo ed esclusivamente nel rispetto assoluto del segno scritto, ossia del significante, ossia della notazione.
Con ciò, escludo dall'orizzonte di queste mie riflessioni la musica basata esclusivamente o prevalentemente sull'improvvisazione, cioè non scritta, come potrebbe essere considerato per certi versi il jazz. Questo perché non possiamo neanche per un po’ parlare di ciò che non ha un correlato scritto. È vero anche che molti ritengono che tanto poco valga la notazione che noi non possiamo considerare ciò che è scritto se non un mero appunto o brogliaccio. Andando avanti in questa direzione però finiremo per accettare l'idea che l'interpretazione possa andare contro la lettera del testo ed essere ugualmente valida.
A tale questione su enunciata si collega quella del relativismo. Accettando il presupposto che un'interpretazione possa essere ritenuta valida anche se va contro la lettera del testo, si giunge celermente ad accettare il presupposto del relativismo e cioè che esistano più interpretazioni altrettanto valide perché la migliore interpretazione non esiste o comunque non corrisponde necessariamente all'intenzione del compositore, ma potrebbe corrispondere a qualsiasi buona intenzione di qualsiasi interprete. Mi riferisco naturalmente al concetto di opera d'arte aperta ripreso da Eco e per lui in ambito musicale da Zurletti. Un'altra conseguenza o meglio sottoinsieme del relativismo è costituito dallo storicismo relativizzante. Secondo tale concezione esisterebbero opere e autori più o meno maturi secondo il periodo storico nel quale hanno operato, pertanto un'opera non dovrebbe essere giudicata esteticamente per il suo valore in sé in senso assoluto, ma bensì solamente in senso relativo in relazione allo sviluppo della storia della musica e al gusto proprio del periodo storico e della società che ne fruisce. Si tratta di uno pseudo-evoluzionismo in base al quale un'opera giovanile di un autore dovrebbe essere meno matura di un'opera tarda e la musica di un autore di un certo periodo dovrebbe essere meno matura e ricca artisticamente della musica di un autore di un periodo successivo (o addirittura - nelle versioni estreme di tale teoria - si tratterebbe dell’abolizione del concetto di validità nel senso della stabilità nel tempo ed universalità del Bello). Quanto sopra enunciato fu criticato da Glenn Gould come “sindrome di van Mac Geeren”, un falsario dell'epoca rinascimentale. Come è noto, i falsi, per esempio quelli di Modigliani, servono a smascherare una concezione del bello basata su una presunta evoluzione stilistica su base cronologica, cioè su di un relativismo storicistico (o storicismo relativistico, che è lo stesso). Secondo la critica di Glenn Gould a questo storicismo, noi non dovremmo assegnare un valore estetico a un'opera in relazione alla sua collocazione cronologica nell'ambito della storia musicale degli stili. Non esistono cioè opere più o meno mature e lo stesso concetto di maturità, qualora gli venga assegnata una valenza estetica, è completamente privo di senso. Se invece abbracciassimo lo storicismo relativizzante dovremmo considerare le sinfonie di Beethoven, per esempio, come più mature di quelle di Mozart e quelle di Mozart come più mature di quelle di Haydn, perlomeno di quelle della sua giovinezza. Il Barocco sarebbe meno maturo del Classicismo il quale a sua volta sarebbe meno maturo del Romanticismo e così via. Il tutto ovviamente non ha alcun senso. L'esempio molto calzante fatto da Glenn Gould è quello del ritrovamento immaginario di un manoscritto che, in base a una collocazione storicistica del suo stile, se fosse attribuito alla fase giovanile di un autore sarebbe considerato geniale, mentre lo stesso manoscritto, se fosse attribuito a un’età avanzata dello stesso compositore verrebbe ritenuto poco più che uno scherzo o una bagatella, una sorta di involuzione stilistica, una brutta prova della vecchiaia. È chiaro che se accettiamo la critica di Glenn Gould allo storicismo relativizzante, dobbiamo anche avere l'onestà intellettuale di esplicitare il nostr punto di vista che è idealistico ed assolutizzante. Del quale in verità non ci vergogniamo affatto. Del bello in musica, come in tutte le altre arti, secondo noi è lecito discutere se ne accettiamo un ideale astratto, Una sorta di idea platonica alla quale le interpretazioni si avvicinano più o meno efficacemente. In un altro nostro scritto precedente abbiamo già discusso se tali idee platoniche debbano essere considerate le composizioni stesse o se anche le composizioni debbano fare riferimento a un'idea platonica ulteriore. Riguardo a quest'ultimo punto, abbiamo accettato la tesi secondo la quale ad essere idee platoniche sono le composizioni stesse. Ora è chiaro che se riteniamo ogni accesso come un modo di possedere l'opera, così come se riteniamo che la bellezza di un'opera possa variare a seconda del tempo storico in cui è composta o in cui viene eseguita, interpretata o fruita, stiamo in tutti i casi citati applicando un relativismo estetico. Per quanto mi riguarda, ritengo che non ci sia niente di peggio del relativismo estetico. Esso non permette un giudizio di valore sulla qualità in quanto subordina alla variabile indipendente del tempo in cui si considera qualcosa la qualità stessa di quel qualcosa, qualunque cosa sia. Di fatto, il relativismo equipara l'arte alla moda, dal momento che elimina dall'arte la qualità che la distingue dalla moda, ossia la capacità di resistere al tempo. Non mi interesserebbe nulla di un giudizio estetico su un'opera o su un'interpretazione, se dovessi pensare che tale giudizio è sottoposto a piena mutevolezza in base al momento in cui viene espresso e che quindi domani tale giudizio potrebbe essere annullato o modificato in base al tempo trascorso e perfino il valore stesso dell’opera potrebbe mutare in relazione al trascorrere del tempo, come il vile denaro che può ben svalutarsi o rivalutarsi secondo le contingenze storiche. Se i miei parametri di giudizio estetico, o addirittura il valore in sé dell’opera (valore in sé al quale, beninteso, io credo, mentre i relativisti non vi credono) dovessero variare in base al trascorrere del tempo o a qualcosa che succede nel frattempo a me che giudico o al mio tempo inteso come ambiente sociale, culturale, ecc…, allora quei giudizi e quelle opere di valore eternamente variabile non avrebbero alcun valore artistico, per come intendo io l’aggettivo. Ciò non significa naturalmente che i giudizi siano immutabili o che io non possa affinare o modificare la mia sensibilità nel corso del tempo: non si tratta di questo. Ciò che affermo è che col passare del tempo non muta il valore dell'opera. Su questo caposaldo incentro tutta la mia riflessione musicologica ed estetica. Naturalmente, ciò non significa minimamente che io ritenga spazzatura le riflessioni di quei critici musicali, musicologi, filosofi della musica, musicisti che la pensano in maniera diversa o opposta rispetto a me e che, in altre parole, abbracciano il relativismo, lo storicismo relativizzante e tutte quelle correnti di pensiero che in filosofia fanno capo, in origine, all'empirismo, in contrapposizione all'idealismo.
Noto qui, incidentalmente, che io esplicito i miei presupposti teorici, mentre invece la maggior parte dei musicologi, dei critici musicali e degli artisti non lo fanno, non permettendo quindi al lettore meno avveduto di rintracciare la matrice teorica delle loro asserzioni. Del resto, anche i relativisti più intransigenti (definizione che dovrebbe apparire un ossimoro) non possono accettare di buon grado, se intendono parlare di estetica come di una disciplina scientifica, quell'altro tipo di relativismo che pretenderebbe che l'ascoltatore possa attribuire qualsiasi significato a ciò che sta ascoltando, in base alla sua personalissima sensibilità. Invece, anche i relativisti devono ammettere (anzi, non lo ammettono, ma lo danno surrettiziamente per implicito) che all'ascoltatore arriva un messaggio estetico dotato di un suo significato ben preciso, corrispondente alla realizzazione dell'interpretazione di un'opera. Diversamente, anche i critici musicali relativisti non potrebbero dire alcunché sulle interpretazioni musicali di nessun brano al mondo, intendo alcunché di diverso o di notevole rispetto a chiunque (quindi tutti o nessuno potrebbero fare il loro mestiere di critici, o anche un altro mestiere). Inoltre, anche relativisti più arrabbiati, se competenti non accetteranno l'equiparazione di Beethoven, Bach o Mozart a qualsiasi altro artista meno geniale di questi, non accetteranno cioè di ridurre, come si esprimerebbe Kant, il bello al piacevole (non è bello ciò che bello, ecc…). Direi che qualsiasi relativista, nel momento in cui esprime un giudizio estetico su di un'opera  o un'interpretazione, non può che rinunciare per un attimo al suo relativismo, preferendo con ciò la sua opinione a quella di un altro, senza di che non si capisce che senso avrebbe esprimerne una propria. Ed è questo uno dei motivi che mi fa dire che il relativismo nasconda dell'ipocrisia, con il che naturalmente non voglio asserire che i relativisti siano ipocriti.
Venendo ancora alla prima sinfonia, desidero parlare del terzo movimento, lo scherzo. Occorre rifarsi alla spiegazione di Leonard Bernstein sull'andamento di questo movimento che, inaugurando appunto lo scherzo al posto del minuetto, sarebbe un minuetto accelerato. Il punto è che solo lui e Maazel, con pochi altri, lo eseguono più veloce di un minuetto. Karl Bohm, ma anche Herbert von Karajan, insieme a tanti altri lo eseguono come un minuetto. La velocità migliore secondo me la prende Maazel il quale come anche nel primo movimento è l'unico a far percepire come frasi compiute le serie di ritmi scanditi. Pertanto direi che per questa prima sinfonia i migliori movimenti primo e terzo sono di Maazel mentre i migliori sviluppi e code all'interno del primo e del quarto movimento sono quelli di Leonard Bernstein. Direi che vi è generale fraintendimento sul secondo movimento, intendendo con ciò il modo di interpretarlo, per quanto dicevo sopra e cioè: nessuno lo esegue in modo piano, breve, regolare. Direi che la maggior parte dei direttori fatica a trovare in questo movimento la semplicità e la regolarità come cifre stilistiche da mantenere in tutto l'arco del brano. Per tale motivo, si rischia di cercare in questo brano più di quello che questo brano vuole darci. E così, dal più semplice e forse da brano minore della sinfonia, il secondo movimento si trasforma nel maggior rompicapo di tutta l'opera. Qui vi è una caratteristica che in musica troviamo spesso: la difficoltà di rendere la semplicità. Pensiamo a quanto questa caratteristica della semplicità sia importante per i virtuosi degli strumenti solisti: Rampal, Oistrach, solo per citarne alcuni. Nei solisti, specialmente quelli degli strumenti monodici, la ricerca della semplicità è obbligata e non solo per i grandi classici, la cui esecuzione viene danneggiata sempre da ogni personalismo e idiosincrasia esecutiva, ma per tutti i brani di tutti gli autori. Ciò in ragione della ricerca della nonchalance, o sprezzatura: si tratta dell'esigenza di far apparire semplice ciò che invece è estremamente difficile a livello esecutivo strumentale. Tale esigenza, sempre presente nella mente dei virtuosi dello strumento solista, sia esso il flauto, il violino o altro, rende imperativa la ricerca della semplicità esecutiva come cifra stilistica per tutti i virtuosi di strumento solista. Tale rasoio di Occam, se così possiamo chiamarlo, fa sì che i solisti cerchino sempre la via più breve e più fluida per eseguire qualsiasi passo di qualsiasi brano. Così, rispetto al direttore d'orchestra, ma anche rispetto al pianista che si trovano di fronte a una serie di complessi passaggi polifonici, avendo quindi sempre presente il fattore armonico come principale e determinante e avendo sempre il problema di quale voce fare emergere sulle altre come prima parte, il virtuoso di strumento solista monodico è invece facilitato nella scelta della semplicità esecutiva e interpretativa, in quanto ha solo la sua parte, la sua linea melodica da tenere a bada. 
Quanto detto sopra risulta molto importante a livello metodologico in quanto introduce quello che è il metodo del massimo risultato con il minimo sforzo, con il quale bisogna effettuare il migliore approccio interpretativo. È in altre parole quello che viene denominato il rasoio di Occam. In tal senso si può definire quella esegetica non un'arte, ma una scienza ben precisa che come tale si misura dagli effetti, può essere verificata e smentita. Ogni esecuzione è come un esperimento sulla validità interpretativa. Non mette conto qui di osservare gli accidenti esecutivi che pure vi hanno una parte rilevante e che entro certi limiti, per esempio per quanto riguarda la qualità sonora, costituiscono essi stessi una parte dell’interpretazione. Si pensi per esempio al suono proverbialmente voluttuoso dei Berliner, al suono molto timbrato dei Wiener, al suono molto secco di alcune orchestre d'oltreoceano, al suono raffinatissimo della London Symphony. È da notare il fatto che Leonard Bernstein aborriva questo discorso sul suono delle orchestre sostenendo giustamente il suono dei compositori e tuttavia questo elemento soggettivo entra a buon diritto a far parte della poetica e dell'estetica dell'interpretazione, risultando impossibile consideralo come un elemento spurio. In effetti qui, anche se si potrebbe essere accusati di psicologizzare, si prende in considerazione l'elemento umano dell'interpretazione dal quale è difficile prescindere senza falsificare in modo artificioso qualsiasi discorso musicologico.
Parlerò ora un po' del sogno: questo aspetto così misterioso che riguarda la musica anche se sembra così lontano da essa. Non diremo neanche che il sogno è l'obiettivo di tutta la musica quanto piuttosto che la sostanza della musica è sogno, come sicuramente avranno affermato mille e più mille autori. Il punto fondamentale è che tutti gli schemi compositivi, ivi compresa la forma sonata di Beethoven che egli porta al massimo livello e alla quale riesce ad annettere una connotazione ideologica di stampo ottimistico illuministico, sono solo mezzi per un fine che è quello del sogno che in realtà è un punto di partenza o meglio è la sostanza stessa della musica. Se neghiamo questo aspetto neghiamo qualsiasi ipotesi di poesia e di estetica non solo musicale ma riferita a qualsiasi arte. Di fatto la musica contribuisce ad annullare i confini già non dimostrabili né empiricamente né razionalmente tra sogno e veglia, dal momento che quando ascoltiamo la musica noi ci accingiamo ad un sogno e che tale sogno non potrebbe essere più reale, non solo a causa dei suoni che sono onde fisiche dotate di una loro tangibile entità quali-quantitativa, ma anche perché il significato, non solo il significante dato dai suoni, ma anche il significato dato dall'espressione musicale che l'autore intende presentare (peraltro tutt’uno coi suoni) sono la vera realtà dell'esperienza musicale, tale per cui gli oggetti che ci stanno attorno, il giorno o la notte, la salute o la malattia diventano non più presenti alla nostra esperienza sensoriale e razionale, mentre vi diventa onnipresente la musica e il suo significato. Tale era anche il senso dell'esperienza della Madeleine nella Recherche proustiana, capace di evocare un mondo che prende il posto di quello attuale, si sostituisce ad esso, ne rende incompatibile la coesistenza e diventa l'unico mondo reale accessibile al nostro io.
In tal modo anche la musica mira a essere l'unico mondo possibile a nostra disposizione durante la fruizione di essa. Mi rendo conto che questo genere di descrizione di un'esperienza così totalizzante possa suonare wagneriana e avrebbe suscitato l'immediata opposizione di Glenn Gould il quale mirava invece a mettere in luce l'aspetto dell'intimismo quotidiano della musica. In realtà però anche l'intimismo quotidiano propugnato da Gould risulta essere quanto mai assolutizzabile e pertanto ribadirei come pacifico e indispensabile questo aspetto essenzialmente assolutizzante della musica come connaturato alla sua natura estetica e poetica. Posso perfettamente capire che gli empiristi e i relativisti storceranno il naso di fronte a queste affermazioni, ma sono fermamente convinto che questo nocciolo duro di tipo idealistico debba permanere come credenza, se intendiamo fare, fruire e teorizzare intorno all'arte. Anche la musica aleatoria, alla cui notazione non corrisponde sempre la stessa esecuzione in termini di effetti macroscopici (in termini di effetti microscopici nessuna notazione, neanche di tipo classico, può corrispondere in modo univoco a una sola esecuzione se non a quella che abbiamo denominato come esecuzione e interpretazione ideale che però è frutto di ricerca e appunto di interpretazione) aspira inevitabilmente ad essere un evento distinguibile dal quotidiano fluire anche se vi allude massimamente e pertanto anche il massimo relativismo nasconde un nocciolo di assolutizzazione.
Ritengo queste annotazioni preliminari, ma anche fondamentali in quanto in esse risiede il nocciolo teorico ma anche pratico di qualsiasi approccio interpretativo e di ascolto della musica di tutti i tempi, non solo di quella di Beethoven, Bach, Mozart e altri, ma anche di tutte quelle di tutti i contemporanei e di tutti i creatori, interpreti e fruitori di tutti i tempi passati, presenti, futuri.
È solo grazie a una convinzione di questo genere, purché nata e maturata genuinamente (non imposta o frutto di pregiudizio), che si può fruire della bellezza della musica. Senza una convinzione di tal genere sarà del tutto casuale l'idea stessa di bello, confusa ed erroneamente identificata con quella di piacevole, secondo quanto ci ha insegnato Kant nella Critica del giudizio. Allora non varrà più di un cono gelato la fruizione estetica e già cucinieri e gelatieri ne sono intimamente convinti ed attraggono nell'orbita delle loro convinzioni numerosi clienti. Se invece siamo convinti che l'esperienza artistica si distingua dalla piacevolezza in quanto afferente alla sfera del Bello non potremo non essere convinti dell'autonomia della sfera dell'estetica e della poesia. Apro qui una parentesi: non è che non appartenere alla sfera del piacevole renda il bello avulso dal piacere, anzi esso è il massimo piacere, di cui i piacevole è solo un mero sottoinsieme. Il Bello è sempre piacevole, anzi massimamente piacevole, mentre il piacevole può non essere bello. Mi rendo conto qui che dal punto di vista strettamente logico è il piacevole a costituire un insieme più grande e il bello ne è un sottoinsieme. In effetti la quantità di cose piacevoli e non belle è molto vasta, mentre non si hanno per nulla cose belle e non piacevoli. Detta così, la nostra presentazione teorica sembrerebbe rimandare ad una concezione terribilmente elitaria della fruizione estetica, come patrimonio di minoranza più che di maggioranza, mentre invece dovrebbe essere proprio il contrario in quanto è insito nel concetto di bello di essere universale e quindi di aspirare da se stesso alla fruizione universale da parte di tutti. Possiamo usare il concetto di infinito come obiettivo che fu di Fichte e che ha trovato un suo simbolo matematico qual è quello di tendente a (infinito). Ne viene dunque che, elitaria oggi, la nostra concezione mira ad essere universalistica e di massa per il tempo di domani.
Quanto detto sopra a proposito dell'estetica del cono gelato e in definitiva della distinzione tra bello e piacevole di Kant si attaglia massimamente alla musica di Beethoven, nella fattispecie a quella sinfonica, in quanto è insito nella concezione ideologica della sinfonia di Beethoven come dialettica di tesi antitesi e sintesi il concetto di bene come universale coincidente con il bello. La sinfonia di Beethoven si apre e si presenta, se non come una lotta tra il bene e il male, certamente come un percorso per aspera ad aspra che va dall'incompiuto al compiuto, dalla sofferenza alla gioia, ben prima del terminale costituito dalla nona sinfonia, ma bensì fin da subito a partire dalla prima. La differenza tra la nona e le altre sinfonie risiede nel fatto che la nona pone il problema della teodicea. In particolare vi è una relazione tra il cupo pessimismo del primo movimento e l’ode alla gioia dell'ultimo. Vero è che anche nella quinta vi è una relazione tra il tragico primo movimento (o feroce primo movimento secondo alcuni) e il finale trionfalistico di segno opposto, ma mentre nella quinta si ha la consueta dialettica tra bene e male e trionfo del primo sul secondo, nella nona viene posto un interrogativo importante sul perché del dolore dell'uomo e del mondo che deve trovare una risposta nuova e diversa rispetto alle altre sinfonie, in quanto non si chiede solo l'esito della battaglia, con il primo movimento della nona, ma anche il perché di quella battaglia e di quel male. La risposta, come è noto, risiede nella assunzione del male nell'ambito dell'elemento umano secondo il dettato di Schiller. Ne consegue dal punto di vista formale il superamento ideale della forma sonata che com'è noto spalanca le porte al romanticismo musicale che della forma in generale (non solo della forma sonata) tentò il superamento, nel nome del contenuto, ossia del sentimento.
Quest'ultima questione è molto importante in quanto introduce un discorso di importanza centrale nel passaggio da un'epoca ad un'altra secondo il vertice osservativo della filosofia della musica. I romantici erano insofferenti della forma, in particolare delle forme e degli stilemi settecenteschi che vivevano come chiusi, contrari all'aspirazione all'infinito della musica romantica. Perciò inventarono o riutilizzarono essi stessi nuove forme che - per  usare un'espressione impropria - volevano "meno formali": il notturno, la ballata, il capriccio, la fantasia. Tutte forme che richiamavano l'apertura. E' per tale motivo che il prorompere del canto tenorile nell'ultimo movimento della nona, che si pone nel punto in cui dovrebbe esserci il ritornello dell'esposizione e che intona il canto di Schiller "O fratelli, non più questi suoni!" simboleggiando l'abbandono della forma sonata, è stato visto dai romantici come una svolta fondamentale e come l'apertura delle porte di una nuova era, quella romantica, appunto. Altro dato stilistico che contribuisce a far comprendere che si tratti di uno stacco anche "ideologico" risiede nell'uso della voce, in ciò rappresentando però un crogiolo di contraddizioni filosofiche e stilistiche dei romantici. La voce presenta un testo, in quanto tale proclama alcune cose che in quanto tali possono costituire senz'altro il manifesto di una nuova era (per l'umanità, ma anche per la musica). D'altro canto, il significato delle parole è definito, quindi finito o comunque meno infinito di quello dei soli suoni, che sono indefiniti e quindi infiniti nel loro significato. Seguendo questa idea di musica strumentale come musica infinita e quindi romantica per eccellenza, la sinfonia corale costituirebbe, con il suo portato di testo poetico e di parole e frasi dal significato definito e quindi finito, un passo indietro di Beethoven dal romanticismo e non in direzione del romanticismo. Ma del resto, la contraddizione continua con i romantici, nel momento in cui molti autori come Liszt e Berlioz, che pure sono romantici per eccellenza, attingono  molte delle loro produzioni al genere, molto definito e quindi finito, della musica a programma (con o senza la voce, si pensi alla Fantastique di Berlioz o al Pelleas et Melisande e a tutti i poemi sinfonici di Liszt). Poi, sempre nel campo del canto, abbiamo romantici d'eccellenza come il romantico Schumann che fa del Lied un genere simbolo del romanticismo (insieme anche a Schubert). Per non parlare del melodramma romantico in cui appunto uno degli autori romantici per eccellenza, Richard Wagner, ha scritto quasi esclusivamente melodrammi. Ferme restando quindi queste contraddizioni insite nel romanticismo e forse consustanziali all’essenza stessa del fenomeno, dobbiamo anche fare attenzione a non investire Beethoven e nemmeno la sua nona sinfonia di significati e aspettative che avevano i romantici sulla sua musica. La prospettiva storica o storicistica, assunta come complemento inevitabile dell’esegesi e ben lungi dal dover essere utilizzata in maniera relativistica o relativizzante, ci è invece necessaria e indispensabile per evitare un eccesso di previsione o retrodatazione durante l'interpretazione di un autore o di un brano. In altre parole sarà impossibile discernere la temperie romantica che pure si dispiegò successivamente alla nona sinfonia, perché noi abbiamo nella nostra eredità anche il romanticismo, ma ciò che non dovremo fare è assumere il vertice osservativo romantico in modo astorico, ma bensì storicizzarne le estreme conseguenze in modo da concentrarci su Beethoven come autore, come opera e come stile. Analogamente e in senso opposto, dovremo guardarci dal ritenere che esecuzioni con strumenti originali portino a una qualche verità interpretativa che non sia fenomenica e archeologica nel senso deteriore del termine, anziché storica. Non devo cioè rifarmi ai difetti del tempo e ai limiti della tecnica del tempo per ottenere l'interpretazione più vera e rendere pienamente la bellezza dell'opera, ma devo trascendere semmai quei limiti tecnici giovandomi della superiorità tecnica del mio tempo.
Mi rendo perfettamente conto che il discorso appena fatto potrebbe essere interpretato come un invito alla moderazione, e nulla più, mentre invece si tratta dell’indicazione esteriore di un metodo che ha una sua ragion d'essere ben precisa perché riguarda la ricerca dell’interpretazione corretta, intesa come veritiera, intesa come aderente all'intenzione del compositore. Pertanto essa propugna l'uso di uno storicismo a livello unicamente strumentale, cioè come strumento e non come fine, volto all'appropriazione del significato del brano, con l'attenzione rivolta in modo esclusivo al brano e nella convinzione che tale significato, quello più intimo del brano cioè, abbia un carattere universalistico e non storico storicistico, o meglio che sia storico nel senso di corrispondente all’intenzione del compositore. Perciò utilizzo lo strumento storicistico solo di esclusivamente per depennare false visioni di altre epoche da quella che ritengo possa essere l'interpretazione vera, cioè mi tolgo dagli occhi, per esempio, il velo romantico con cui i romantici potevano vedere Beethoven, senza sognarmi di dover depurare dal romanticismo Beethoven come invece pretenderebbero gli storicisti, i cosiddetti maestri delle esecuzioni filologiche, con o senza strumenti d'epoca. Non nego quindi la memoria di tutto il passato, del presente e del futuro rispetto al brano eseguito, perché so che dentro di me, dentro la mia coscienza e dentro il preconscio esiste il romanticismo musicale che io ho ascoltato e che si è ispirato a Beethoven in varie misura dilatandone e sviluppandone alcuni spunti. Io non ascolto dal punto zero, non potrò mai assistere alla prima esecuzione dell’ottava o della nona sinfonia, pertanto non posso ignorare la storia che è nella mia coscienza ed è per tale motivo che la pretesa storicistica di avvicinarsi maggiormente al bello e al vero utilizzando strumenti musicali tecnicamente più limitati rispetto a quelli di oggi è una pretesa ridicola, come se questo bastasse a farci dimenticare la storia e soprattutto come se la storia intesa come il futuro dopo Beethoven potesse essere obliterata, cancellata e dimenticata. Ritengo tutto ciò una pretesa davvero vana. Qualcuno potrebbe obiettare, mi rendo conto, a queste mie asserzioni dicendo che il suono degli strumenti d’epoca potrebbe essere più affascinante e più bello di quello degli strumenti attuali, ma io replico che questa è probabilmente una suggestione ideologica affine alla fede che si pone nei rimedi omeopatici, ben sapendo che manca la prova del nove che possa dimostrare la loro utilità e della cui inutilità peraltro intimamente siamo convinti anche se non lo ammettiamo a noi stessi. È bene invece ribadire quanto chi ha un minimo di conoscenze di storia della musica sa benissimo e cioè che gli strumenti d'epoca erano pieni di difetti, per esempio il flauto stonava in moltissime note e il suo suono era oltremodo flebile, la sua agilità nei passaggi veloci era certamente inferiore rispetto agli strumenti di oggi che sono dotati di tamponi per i tasti e non di fori da chiudere direttamente con i polpastrelli, anche se ogni flautista che si rispetti ha un flauto con tamponi a loro volta forati, nella convinzione che così lo strumento, cioè con i tamponi forati anziché chiusi, suoni meglio perché più naturale. Naturalmente vi sono mille e più mille scaramanzie, specialmente per quello che riguarda la bellezza del suono che spesso è concepita innanzitutto con l'immaginazione del musicista che lo produce e dell’ascoltatore. È noto infatti che la cura estrema del suono porta da un lato a una sorta di metafisica di quello che è un evento principalmente fisico anche se teso ad esprimere un significato, dall'altro porta a una mistica di immaginarie preferenze idiosincratiche sulle quali potranno scontrarsi artisti ed appassionati. Si vedano ad esempio le estenuanti cure dello strumento che Michelangeli riservava al pianoforte o i procedimenti tecnologici ai quali artisti come Gould o Herbert von Karajan dedicavano così tante attenzioni. Detto ciò e quindi non ignorando la storia, dovremmo cercare il significato del brano all'interno dello stilema che è stato utilizzato per quel brano. A tal proposito trovo utile la distinzione che fa Dahlhaus tra sostanza e funzione, nel momento in cui la sostanza si esplica, una volta riconosciuta la funzione di cui quel passo fa parte. Per esempio nel caso dell'effetto sorpresa dello sviluppo esso si produrrà proprio perché si trova in una posizione adatta alla sorpresa e cioè all'interno di un meccanismo come quello della forma sonata in cui dopo la doppia esposizione c’è una necessità di sorpresa. Lo stesso diremo della coda che richiama l'esigenza di compendiare mettendoli in luce nuova i temi dell'esposizione, e così via. È chiaro da tali esempi come la conoscenza della forma sonata in quanto struttura formale storica è indispensabile per apprezzare la bellezza dei vari passaggi dei brani scritti in tale forma (sonata) e in un certo senso io uso la storia quando interpreto o ascolto un'interpretazione di un brano in forma sonata. Ciò non significa minimamente che io stia storicizzando né relativizzando alcunché. Io posso fruire pienamente della bellezza di quel brano se conosco un linguaggio, come ricordò Glenn Gould e il linguaggio è inevitabilmente un prodotto storico oltre che un organismo vivente. Ne viene che lo strumento interpretativo è infarcito di storia in quanto lo è la coscienza, sia o non sia accettato anche il concetto di inconscio. Pertanto una storicizzazione relativizzante come quella che pretenderebbe di presumere in quale modo si ascoltava la musica in un'epoca remota sovrappone un tentativo astrattamente intellettualistico alla ricerca del bello e del vero nel brano che sto interpretando. Pertanto risulterà essere un pregiudizio quello storicizzante e relativizzante che non aiuta a raggiungere quella che ritengo essere l'interpretazione più bella ossia la più vera. E mi sembra che abbiamo abbondato in assolutismi idealistici. Ritengo importante però chiarire questi concetti perché altrimenti, per esempio, non avrebbe senso parlare di epos per il primo movimento dell'eroica, se non sappiamo che cos'è l'epos e ciò non come nozione scolastica, ma come universo concettuale e affettivo ossia simbolico nel senso più pieno del termine. E quindi ne verrà che l'interprete deve essere necessariamente colto, con il che ovviamente non intendo indottrinato, ma ricco, profondo di vita, storia, letteratura. Mi rendo anche perfettamente conto che ciò sembra contraddire quanto detto sopra riguardo alla possibilità che un giovane interprete, così come un giovane artista, possano fornire le prove migliori rispetto a chi è “anziano”, ma gli è che un giovane può essere molto esperto nella vita e nell'arte, oltreché carico di quello che Bergson chiama lo slancio vitale, citato anche da Dahlhaus.
Mi sembra il caso che ci accingiamo a parlare della quinta sinfonia. E' un vero rompicapo, il primo movimento, dal quale si fatica ad uscire vincitori. Qui si pongono numerosi problemi. Anzitutto l'orecchiabilità del brano è stata fatta assurgere ad emblema di non si sa cosa, sicuramente a caricatura di sé stesso. Pertanto, quando si sedimentano nell'ascolto tanti luoghi comuni risulta veramente difficile interpretare un brano, perché risulta ostico vederlo in modo originale. Ogni interpretazione sembra possedere valore - cioè - solo in quanto tende a prendere le mosse o a discostarsi da qualcun’altra. Tale è certamente il caso della quinta, sinfonia quant’altre mai fortunata e forse tra le più bistrattate dal punto di vista interpretativo. Partire prevenuti non è mai un vantaggio, ma bisogna riconoscere che qui vi è una tale quantità e diversità di qualità di interpretazioni da doversi mettere le mani nei capelli anche solo per poterle dimenticare e avvicinarsi al testo e al brano senza tonnellate di stratificazioni di memoria e tonnellate di pregiudizi interpretativi. E dunque tutto è più difficile, anche a partire dall'inizio, così noto, così stravolto, così abusato, così già sentito. Bisognerà quindi come giustamente faceva notare Leonard Bernstein, concentrarsi sullo sviluppo che è in realtà il cuore della composizione, e da lì e su quello basarsi per l'andamento, per il timbro, per la dinamica, per il fraseggio, coscienti comunque del fatto che lo sviluppo potrebbe richiedere un fraseggio diverso rispetto all’esposizione. È la scelta operata da Bernstein nella sua versione degli anni ’80 che però non si può dire convinca appieno, sebbene sia una delle migliori. Gli riesce comunque di dare un tono drammatico, tragico, ma soprattutto non scevro dell'elemento umano, mentre quel continuo riferimento al destino o alla potenza fa sì che molte altre esecuzioni siano algide. E forse è proprio l'elemento della potenza o del destino quello che manca alla sua interpretazione, in cui l'elemento umano viene invece messo in piena luce.
Credo che il modo migliore per avvicinarsi a questo primo movimento della quinta sia senz'altro la possibilità di dimenticare ciò che la quinta è stata nel corso della storia a livello ideologico, un livello di cui il primo promotore fu il Beethoven del secondo periodo, quello che secondo Glenn Gould amava rappresentare se stesso come prima cosa. Cercare quindi di dimenticare la potenza, il destino, ma anche la rappresentazione dell'umanità in lotta o in sofferenza: cercare insomma di fare in modo che Beethoven con la quinta non voglia dimostrare nulla, dimenticarsi dell'obiettivo, qualunque esso sia, che pure emergerà durante l'interpretazione e durante l’esecuzione, qualsiasi esse siano. Vederlo insomma come un pezzo leggero sebbene ciò possa sembrare oltremodo paradossale, eseguire Beethoven dimenticando Beethoven, fare a meno di tutto, primo fra tutti il desiderio di fare qualcosa di speciale, magico, unico. Come se fosse una sinfonia normale, quindi. E perché, dopotutto, non dovrebbe esserlo? In quest'ottica, come ascoltatori, escluderemo tutte quelle esecuzioni e interpretazioni che in qualche modo vorrebbero essere esemplari perché richiamate a tale ruolo dalla presunta esemplarità del testo, o meglio dell'opera così com'è stata recepita nell'accumularsi di cliché, idealizzazioni, incrostazioni interpretative, prassi esecutive, ideologizzazioni, ecc… . Escluderemo pertanto sia la secca ferocia di Herbert von Karajan, sia le raffinatezze di Claudio Abbado che dà alla corona della seconda metà del tema una durata notevolmente più lunga della corona della prima metà del tema, escluderemo altresì la voluta genericità dell'esposizione del primo tema da parte di Leonard Bernstein, in omaggio alla sua concezione della concentrazione e centralità dello sviluppo, escluderemo senz'altro l'articolazione del fraseggio e la pesante scansione ritmica che dà al primo tema Karl Bohm, l’accoratezza e quindi la lentezza attenta al colore del suono, qui fuori luogo, del pur profondo Carlo Maria Giulini nell'esposizione del primo tema, escluderemo altresì la troppo secca e asciutta articolazione del primo tema da parte di Georg Szell, e così via anche per molti altri. Non potremo che notarne il tentativo, estenuante a volte, di essere originali, in quest'incipit talmente tanto udito che, qualsiasi cosa si faccia, non si riesce a renderlo inaudito. Pertanto professeremo la necessità di non renderlo inaudito, vorremmo renderlo normale, come se fosse un brano di media bellezza e fama (che è comunque un altro modo per cercare di essere originali): solo così cercheremo di salvarlo. Tra le migliaia probabilmente di esecuzioni disponibili di questo celebre brano, non mi è finora mai capitato di trovarne alcuna che si proponesse questo specifico obiettivo: non proporsi alcun obiettivo, se non quello, comunque non irrilevante, di tentare di normalizzare l'interpretazione, l'esecuzione e l'ascolto appunto di questo celebre brano. Una sorta di reductio ad minimum, sostenuta da una fede nella capacità di auto-presentazione della grandezza di un simile brano, come se il direttore dovesse mirare a togliere più intenzioni interpretative possibili.
Riflettendo bene, in realtà, il primo movimento della quinta sinfonia presenta una facilitazione importante: la struttura drammatica è così concisa, chiara che è come se si dirigesse da sé. Quasi a contraddire tutto ciò che abbiamo detto finora, diremo che il primo movimento della quinta sinfonia è il più facile da dirigere di tutti movimenti sinfonici di Ludwig Van Beethoven. Ciò naturalmente è falso, ma aiuta a farci capire quanto sia importante liberarsi di qualsiasi stratificazione, incrostazione interpretativa, prassi esecutiva, pregiudizio ideologico, atteggiamento precostituito a livello preconscio, nell'affrontare il primo movimento della quinta sinfonia.
E allora? Chi è il campione? Chi è colui che interpreta meglio la quinta sinfonia, in particolare l'emblematico primo movimento? Assumo a mia volta un pregiudizio dettato dall'ascolto ripetuto ed ammirato della quinta sinfonia diretta da Leonard Bernstein ed asserisco che pur nell'eccesso di umanizzazione che egli conferisce a questo primo movimento, la sua interpretazione è a mio avviso la migliore. Diremo qui, in analogia con quanto abbiamo già esposto più sopra, che siamo di fronte, tra le altre, ad altre due polarità opposte. Si tratta della polarità tra divino e umano, come elementi che possono essere presi a fare da vertici osservativi prevalenti nell'interpretazione di questo primo movimento. A tale coppia, naturalmente, si associa l'altra coppia polarizzata che potremmo definire potenza da un lato e sentimento dall'altro. Così, chi privilegerà l'aspetto divino del destino che bussa alla porta, farà sua la potenza e meno il sentimento umano. Chi invece assumerà il sentimento umano quale vertice osservativo guida nell'interpretazione di questo primo movimento, esprimerà maggiormente il sentimento, appunto, a scapito della potenza. È da notare comunque che sentimento e potenza non sono due fattori incompatibili, ma è noto che spesso si trovano su due polarità contrapposte. Ricordo a riguardo un articolo del Corriere della Sera che commentava due concerti dati a breve distanza di tempo da Herbert von Karajan e da Leonard Bernstein. Il titolo suonava “Karajan incanta, Bernstein trascina”. In questo incantare di Karajan, cifra stilistica cardine e costante del suo stile interpretativo, vi è la potenza del divino, cosa che - per inciso - fa di lui un eccellente interprete di Ciaikovsky. Potremmo dunque mettere l'incanto e il divino accanto alla polarità della freddezza, non distante dalla polarità della forza, mentre potremmo mettere il trascinamento dato dall'espressione del sentimento nella polarità del calore, più distante dalla polarità della forza. È vero però che sulla forza del sentimento i romantici hanno costruito la loro poetica e della forza del sentimento i romantici sono l’emblema. Ma qui per potenza intendiamo più precisamente ferocia, quel quid di disumano che Karajan molto spesso offre nelle sue interpretazioni geniali, anche di Beethoven (si veda per esempio il finale dell’ottava sinfonia). Esempi di potenza offerti da Herbert von Karajan, a profusione, troviamo in tutte le sinfonie di Beethoven da lui interpretate. Si pensi per esempio al già citato grande rullo di tamburi nella parte centrale del primo movimento della nona sinfonia. Si pensi alla potenza, in questo caso quasi petulante, che egli scatena nella innocente quarta sinfonia. Specialmente nelle sinfonie pari, Herbert von Karajan sembra farsi un punto d'onore del fatto di renderle potenti quant’altre mai: con esiti discontinui. Se per esempio, come già asserito, risulta oltremodo convincente l'approccio di Herbert von Karajan all'ottava sinfonia, esiti molto meno brillanti si hanno a nostro parere quando si usa la stessa aggressività per accostarsi alla quarta sinfonia. E ciò non per un pregiudizio ideologico sulle sinfonie pari, la cui tranquillità non dovrebbe essere scossa, ma bensì in base a una concezione critica di quell'opera, mirante a vederla in sé stessa e per sé stessa, non come un pari o un dispari da sfatare. Invece a tratti ci sembra che Karajan cada vittima di questo pregiudizio, ossia della necessità di sfatare la presunta debolezza delle sinfonie pari. Così, se nell'ottava riesce oltremodo convincente far emergere, come fa Herbert von Karajan, il parossismo paranoide che informa di sé tutta la sinfonia ed in particolare la coda o meglio le code dell'ultimo movimento, ci sembra del tutto fuori luogo fare della continua alternanza tra piano e forte, che pure è presente in modo strutturale all'interno della quarta, un tratto aggressivo, senza che vi si riescano a trovare particolari motivazioni alla base.
Vorrei ora aprire una piccola parentesi, parlando di come le sinfonie di Beethoven ed in particolare i singoli movimenti di esse, contribuiscano a creare o comunque a codificare alcune categorie dello spirito. È così per esempio per il terzo movimento della nona sinfonia, in grado di creare un'atmosfera così tipica che definirei da notte di Natale. È il caso sicuramente anche del primo movimento dell'eroica , del quale abbiamo definito lo stanziare nella dimensione dell’epos. E’ il caso anche della seconda sezione del secondo movimento della nona sinfonia che, come anche altri brani non sinfonici di Beethoven, ruota nell'orbita folk. Naturalmente bisogna citare al riguardo anche l’articolato quadro bucolico della pastorale, anche se non si tratta senz'altro di musica descrittiva, nonostante le onomatopee. Dovremmo citare anche i celebri secondi movimenti della settima e dell'ottava sinfonia, dal carattere ugualmente tipico, anche se molto diversi tra di loro. E non si può negare, per chiudere questa breve rassegna, che, come notò tra gli altri Leonard Bernstein, il mondo poetico della prima e della seconda sinfonia molto devono agli stilemi della prima metà del settecento; in particolare essi risentono di una sorta di aspirazione mozartiana da parte del primo Beethoven, presto tradita a favore di una crescente attitudine titanica, senza che peraltro sia mai venuto meno, nemmeno nelle sinfonie dispari, l'elemento del gioco e del lirismo.
A proposito della prima e della seconda sinfonia, bisogna aggiungere alcune considerazioni molto importanti. Il mito delle cosiddette differenze tra sinfonie pari e sinfonie dispari è senz'altro errato. Piuttosto, credo sia importante rimarcare l'eredità mozartiana delle prime due sinfonie. In queste sinfonie si avverte uno sforzo ben preciso da parte di Beethoven di ricalcare uno stile classicheggiante fatto di stilemi la cui attuazione ed adesione ideale da parte del compositore sembrano frutto di uno sforzo nel mettere in pratica qualcosa di non del tutto connaturato, né congeniale. E’ come se egli si sforzasse di aderire a uno stile che gli è connaturato solo in parte. Emblematico di questo sforzo mi sembra, ad esempio, il secondo movimento della prima sinfonia. Qui vediamo come la semplicità sia ricercata, con tutto ciò che un'espressione ossimorica di tal genere comporta. Anche il secondo movimento della seconda sinfonia rientra in quest'ottica tardo mozartiana o pseudo mozartiana di Beethoven. In parte, possiamo ascrivere a tale genere di stili l'utilizzo dell'introduzione lenta prima del primo movimento in forma sonata nelle sinfonie uno, due, quattro, ma anche sette e, sotto certi punti di vista, nove. È chiaro che un simile riferimento può essere definito solo episodico, dal momento che ben diverso è il tenore dell'introduzione della nona sinfonia rispetto a quello, ad esempio, della prima e della seconda. Se però teniamo presente quanto sopra detto, non possiamo non riconoscere che non si tratta precisamente di una polarità tra sinfonie pari e sinfonie dispari, ma del progressivo, anche se non lineare abbandono di una sorta di mozartismo di maniera. Nell'abbandono di tale maniera vi è la crescita, in parallelo, e proporzionale, della consapevolezza della possibilità della perfezione nella costruzione della forma sonata. Successiva a tale consapevolezza della possibilità della perfezione nella costruzione della forma sonata è, se vogliamo, l'ideologizzazione della forma sonata stessa. Il Beethoven della cosiddetta seconda maniera, da molti identificato, sia pure erroneamente, con il Beethoven delle sinfonie dispari, è più che altro un Beethoven che ideologizza sé stesso, come già notava Glenn Gould. In tale ideologizzazione si innesca una sorta di mito della potenza che è in parte intrecciato ed in parte distinto rispetto al mito della perfezione chiusa del meccanismo della forma sonata. Per perfezione chiusa non intendo qualcosa di asfittico, bensì un mondo che è sufficiente a sé stesso, in cui certe regole consentono il massimo di libertà all'interno del massimo di rigore. Quest'ultima annotazione ritengo sia il cuore fondamentale della forma sonata alla cui apoteosi Beethoven e solo Beethoven ha contribuito. È proprio questo cuore della forma sonata ciò che più interessa, aldilà quindi e prescindendo dalle estremizzazioni date dall'aspetto ideologico della potenza da un lato e, dall'altro, dai mozartismi della prima maniera. Potremmo prendere come esempi di tali polarità opposte date da un’estremizzazione, da un lato il secondo movimento della prima sinfonia (mozartismo di maniera), dall'altro il primo, o meglio l'ultimo movimento della quinta. Ma ci sbaglieremmo ancora, se in quest'estremizzazione vedessimo il Beethoven peggiore, dal momento che esse rappresentano alcune sfaccettature di Beethoven rispetto alla centralità della perfezione della forma sonata. In tale ottica teorica, i migliori esempi di tale perfezione della forma sonata si trovano in generale nei primi movimenti delle sinfonie ed in particolare nei primi movimenti, in ordine decrescente di capacità di creare un mondo chiuso, della seconda, della prima e dell'ottava, mentre discorso a parte meritano, da un lato il primo movimento della terza, in quanto le proporzioni titaniche ne fanno una bandiera dell’epos, di una qualità rivoluzionaria, dall'altro il primo movimento della sesta, particolare per l'immaginazione bucolica, mentre il primo movimento della quarta, il primo movimento della settima e il primo movimento della nona, per motivi pur molto differenti tra loro, meritano anch’essi certamente un (ulteriore) discorso a parte, ma possiamo dire che essi non rientrano appieno, per un verso o per l'altro, in tale mondo di perfezione chiusa e quadrata della forma sonata, quale Beethoven è riuscito ad esprimere nelle sinfonie in primis, ma anche in alcuni primi movimenti dei quartetti, mentre meno evidente è l'importanza di tale forma nelle opere per pianoforte solo e meno efficace risulta tale forma (per il ben noto, stucchevole raddoppio del bitematismo tripartito, tra pianoforte da un lato ed orchestra dall'altro, che notava Glenn Gould) nei concerti per pianoforte ed orchestra o per altri strumenti ed orchestra.
È bene dunque parlare di questo incredibile mondo quadrato che abbiamo appena definito chiuso, ma che in realtà è estremamente aperto, quintessenza del bene coincidente con il bello, coincidente con il simmetrico, coincidente con la creatività. Il massimo dello spirito di sistema unito allo spirito di libertà. Un vero e proprio ideale umanistico che Ludwig van Beethoven riesce ad esprimere in maniera compatta e concentrata, prevista eppure imprevedibile, eternamente sorprendente, come ricordava Leonard Bernstein, quasi che egli volesse erigere e riuscisse ad erigere un edificio quadrato, forte, simmetrico a protezione della bellezza. La potenza dello spirito di sistema che ti fa conoscere in ogni momento in che luogo sei e in che momento stai vivendo, che cosa stai vivendo, unita al massimo dello spirito di creatività e libertà umane.
Con Beethoven si produce una rotazione di 90° rispetto all'estetica del barocco. Mentre nel barocco vi è una una visione dall'alto, di tipo sublime, di tipo divino sulle vicende degli affetti umani, in Beethoven lo sguardo è orizzontale, dall'uomo alla natura, è l'uomo che affronta le sue vicende. Per questo, analogamente a quanto si dice per Kant che passa dalla ricerca della definizione delle essenze alla definizione del fenomeno, si può parlare anche per Beethoven di rivoluzione copernicana, con questo tipo di rotazione di 90° in base alla quale la vista sugli affetti non è più dall'alto, ma orizzontale, dall'uomo sull'orizzonte dell'uomo. Ed è la forma sonata,  quest'universo chiuso in realtà aperto, a simboleggiare ed incarnare la perfezione di una lotta tra tesi ed antitesi che trova sempre la sua sintesi nel trionfo del bene e dell'umano contro le avversità che lo affliggono. È molto difficile, ma anche molto importante concentrarsi su questo aspetto di Beethoven e cercare di chiarire questo che è senz'altro il cuore della sua sinfonia e della sua poetica. La forma sonata è molto più che uno stile compositivo, è una forma mentis, è un'aspirazione poetica, ma anche filosofica, o meglio è l'incarnazione poetica di tale aspirazione filosofica. È la realizzazione di tale aspirazione. In quanto realizzazione di un'aspirazione filosofica, la forma sonata assurge con Beethoven ad una qualità di ideale. È l'ideale quello che viene sviluppato nella forma sonata. Si tratta dell'ideale dell'umanità che secondo Beethoven, sulla scorta di Schiller, attraversa i tempi e le regioni per affermare la sua universalità.
In effetti, il cuore dell'ideologia della forma sonata sta nel concetto di universalità. Usiamo qui il termine di ideologia nella sua accezione neutra e non dispregiativa, quale invece ha nella filosofia marxiana. Analogamente, come un sinonimo, utilizziamo il termine ideale. È un ideale quello della forma sonata che consiste precisamente nell'ideale di universalità.
La forma sonata, questo calco bitematico e tripartito, serve a Beethoven per esprimere tutto e per affermare il suo ideale di universalità. Ciò si vede molto bene anche nei primi movimenti di numerosi quartetti del cosiddetto stile di mezzo.
In un certo senso, ha ragione Jankelevitch, quando, criticando Beethoven e contrapponendolo a Debussy e Ravel, definisce la poetica di Beethoven come quella degli avvocati: secondo Jankelevitch, Beethoven vuole sempre dimostrare qualcosa e pertanto lo forma sonata è l'emblema di una musica per avvocati. La forma sonata in effetti è una forma dimostrativa, ma detta così, il suo cuore universalistico idealistico ne rimane escluso, quasi fosse frutto di un capriccio o di un'idiosincrasia. In tal modo si esprime, per esempio, DEUMM, quando quando usa il participio passato “imbevuto” a proposito degli ideali nei quali credeva Ludwig van Beethoven. Credo che questo tipo di definizione, oltreché offensiva e prima ancora che offensiva nei confronti di un grande genio artistico, tradisca l'incapacità di capire veramente qual è il cuore della forma sonata di Beethoven. Questi ideali si realizzano, trovano il loro pieno sviluppo ed apertura all'interno di quel sistema apparentemente chiuso che è la forma sonata. Non si tratta quindi di idiosincrasie di tipo filosofico, storicamente relativizzabili e minimizzabili, si tratta di un ideale che Beethoven riesce ad esprimere attraverso la forma sonata.
È noto, tal proposito, come ricordava tra gli altri sempre Glenn Gould, che ciascun autore, che molti grandi autori hanno bisogno di una loro formula per esprimere la creatività. Fino a che non avranno trovato tale formula, la loro creatività rimarrà come bloccata. Una volta trovata tale formula, la loro creatività, sbloccatasi, potrà esprimersi in numerose opere e capolavori. Tale è il caso, appunto, di Beethoven con la formula, o lo stile compositivo o il meccanismo della forma sonata e tale è anche il caso, altro esempio, di Arnold Schönberg con la dodecafonia. E naturalmente dovremo citare Johann Sebastian Bach con la sua formula, caratterizzante un'intera epoca della storia della musica, che potremmo sintetizzare con il termine di contrappunto. Si tratterebbe di puerili idiosincrasie? Forse sì, in quanto in ogni artista, in ogni persona creativa vi è un bambino che per esprimersi ha bisogno di un suo giocattolo. Dal punto di vista psicologico ciò può anche avere un suo grado di verità ed essere anche interessante per lo studio psicologico della persona e della personalità di alcuni artisti. Ma quale sia questo giocattolo è quasi irrilevante ai fini dell'analisi estetica, pertanto rimarcare in termini negativi (quasi si trattasse di un limite) la presenza del giocattolo stesso è a sua volta puerile. E ciò, perché ciò che conta a livello estetico non è la presenza di un giocattolo o la sua assenza, né il tipo di giocattolo presente, ma l'effetto che tale giocattolo, nelle mani di un grande autore, sortisce in termini di bellezza dell'opera, di capacità di costruzione di un mondo poetico. E così, riconosceremo che tali giocattoli hanno sortito un magnifico mondo poetico sia nel caso di Beethoven, sia nel caso di Schoenberg, sia nel caso di Bach.
Tornando per un attimo al discorso, più volte sopra toccato, sull’estetica e sul ruolo della musicologia, diremo che proprio della musicologia come strumento metodologico e dell’estetica musicale come disciplina filosofica è il cercare di cogliere,  enunciare e descrivere qual è la categoria dello spirito che l’autore intende esprimere in generale ed in quel brano in particolare (in ogni brano) e qual è il mondo poetico ivi evocato.
Non sono quindi giustificati nell'arte o nella scienza dell'interpretazione gli eccessi di storicismo tramite i quali vengono fatti prevalere discorsi stilistici legati esclusivamente o prevalentemente all'epoca di riferimento come tratto dominante, in una sorta di anonimizzazione dell'operato dell'artista. Così come è anche, quindi, necessario evitare di giustificare ed applicare nella scienza o nell'arte dell'interpretazione eccessi di tipo tecnicistico, in base ai quali lo strumento viene portato in primo piano, come se per il compositore costituisse il fine e non appunto lo strumento. Per strumenti intendiamo qui l'apparato tecnico-pratico musicale, inerente all'armonia, ai vari procedimenti compositivi, ecc… .
Naturalmente considerazioni come quelle citate appena sopra sono importanti in qualsiasi tipo di riflessione musicale. Abbiamo infatti sottolineato l’importanza del ragionamento sulla sostanza e sulla funzione fatto da Dahlhaus per sottolineare come gli stessi aspetti retorico poetici e quindi espressivi della sinfonia richiedano, per essere compresi come momenti topici di un processo, la conoscenza della forma sonata di cui la sinfonia stessa di Beethoven è massima espressione. Altro sarebbe, invece, fare assurgere quegli stilemi ad oggetto preponderante della riflessione estetica, con ciò mettendo in secondo piano il loro fine espressivo, estetico. Allo stesso modo, non avrebbe alcun senso eludere considerazioni di tipo storico stilistico, ciò che invece bisogna evitare è l'eccesso di tali considerazioni, capace di portare in secondo piano, ancora una volta, l'aspetto espressivo o meglio il fine estetico dell'autore e dell'opera che sono sempre la creazione di un mondo poetico e l'espressione di una categoria dello spirito. A proposito di quest'ultimo punto, e cioè della categoria dello spirito, occorre citare altre categorie che Beethoven ha citato, espresso o inventato. Per esempio, una grande categoria è quella del grande adagio. Nei secondi movimenti delle sinfonie, ma anche dei quartetti, mentre discorso parte meritano senz'altro i secondi movimenti delle sonate per pianoforte e di altre sonate, Beethoven ha in mente un'idea precisa di adagio che riesce a portare al massimo livello di espressività: si tratta di una categoria dello spirito che potremmo definire pacificatrice. Vi sono senz'altro in alcuni passaggi toni patetici e drammatici, ma prevalgono di molto, in quantità, gli adagi che si potrebbero definire distensivi. È il caso del secondo movimento della quarta sinfonia, più volte citato sopra. Si tratta di un tipo particolare di secondi movimenti che hanno una caratteristica impronta costituita da frasi estremamente ampie, talmente ampie da risultare quasi inconcepibili. Quale sia la categoria dello spirito espressa con frasi così ampie non sembra difficile da stabilirsi: si tratta della medesima aspirazione all'universalità espressa con i primi e gli ultimi movimenti in forma sonata, colorata di diverse sfumature: l'elevazione, il sentimento edificante, la pace. Questo tipo di secondi movimenti è una precisa categoria dello spirito. In altri nostri scritti abbiamo espresso il concetto qui definito “categoria dello spirito” o “mondo poetico” come “connotazione” o “regione estetica”. Tale è stato definito l'oggetto di indagine della filosofia della musica nei nostri scritti precedenti, ossia l’estetica regionale. Possiamo quindi considerare come sinonimi le seguenti espressioni: mondo poetico, categoria dello spirito, regione estetica. Possiamo altresì considerare la cosiddetta estetica regionale come l'oggetto delle seguenti discipline: estetica musicale, filosofia della musica, musicologia, critica musicale, senza che le diverse sfumature afferenti a tali discipline ne minino l’unità.
Merita ben altro approfondimento rispetto all'accenno fatto sopra il riferimento culturale nell'interpretazione, inteso come appartenenza territoriale del direttore allo stesso ambito del compositore. In tale accezione ristretta, possiamo senz'altro affermare che non si tratta di un vantaggio o di un pregio, ma semmai di un handicap iniziale. Infatti, notiamo che le interpretazioni di Beethoven dei direttori d'orchestra tedeschi non sempre brillano per qualità perché spesso peccano di pesantezza. Una sorta di stratificazione culturale interpretativa, ricca di tradizione, ma anche di pregiudizi interpretativi e di prassi esecutive entrate ormai nella memoria procedurale e non oggetto di rivisitazione critica fanno sì che i direttori della stessa area geografico-culturale del compositore spesso piacciono solo agli spettatori della stessa area di entrambi, più per partigianeria e per partito preso che per intima riflessione e convinzione. Come riferimenti esemplificativi dell'atteggiamento opposto a quello sopra indicato, mi rifarei alle splendide e culturalmente lontane interpretazioni di Beethoven di Leonard Bernstein e alle altrettanto splendide e culturalmente remote interpretazioni di Johann Sebastian Bach da parte di Glenn Gould. Come già notava Zurletti, proprio perché sguarniti di un certo milieu culturale, alcuni direttori (non tutti) risultano migliori di quelli autoctoni, e precisamente perché le loro interpretazioni rispecchiano un mondo poetico e categorie dello spirito più universali rispetto a quelle espresse dagli interpreti autoctoni.
A proposito dell'incertezza di alcuni direttori italiani molto legati alla cultura del belcanto, si nota che quando questi affrontano la musica sinfonica in generale ed in particolare quella di Beethoven mostrano lacune a volte impensabili per direttori di un certo livello. Si prenda ad esempio l'incipit della sesta diretto da Muti, dall'andamento incerto (che certo non può ascriversi all'arte del rubato o ad esigenze espressive pienamente comprensibili), con gli ottoni che coprono tutta l'orchestra, con quel non sapersi risolvere tra ritmo e canto, con un fraseggiare che sembra inseguire qualche stilema astratto, immemore di un progetto, di un'idea interpretativa: cattivi esempi di applicazione di un'estetica del bel canto. Allora, sempre secondo un'impostazione belcantistica e lirica, preferiamo la ponderazione di Carlo Maria Giulini che sicuramente mostra una ben precisa idea di ogni opera, di ogni brano, di ogni autore.
A volte Muti dà l'impressione che, laddove non ci siano leoni da domare, nessun circo, nessun teatro, nessun cantante istrione, nessun coro recalcitrante, nessun regista eccentrico, nessun do di petto, nessun applauso a scena aperta da strappare, le sue qualità e la sua motivazione vengano meno. Come notava Zurletti, la sottigliezza, in luogo della pienezza, l'ambiguità, in luogo della decisione (o meglio del decisionismo), ma anche la compartecipazione orchestrale, in luogo del dominio direttoriale, difettano a Muti. Vi sono quindi motivi ben precisi per definire non memorabili le sue interpretazioni delle sinfonie di Beethoven. Dove viene meno la necessità di governo, sembra mancare la direzione, nel senso di intenzione. Direi che si presenta qui un limite dei cosiddetti direttori concertatori, in contrapposizione ai cosiddetti direttori interpreti, nel senso che in molte circostanze, in molti luoghi, in molti brani, in molti compositori non sembra bastare la cura del dettaglio esecutivo per esprimere il senso dell'opera. Vero è che molti grandi direttori interpreti, a volte, non curando il dettaglio, rischiano di non riuscire a sviscerare il senso dell'opera. Inoltre, non possiamo ignorare i limiti del medium costituito dall’orchestra, quello strumento che non sempre è perfetto, né sempre risponde al volere dell'interprete. Fatte tali premesse, come sopra spesso abbiamo ripetuto, non è che siano, ovviamente, da buttar via le sinfonie dirette da Muti: della sesta, per esempio, si prenda il finale, reso da Muti in modo magnificamente e puramente lirico. Dove c’è da esprimere una liricità senza infingimenti, Muti arriva là dove altri non arrivano, perché non complica e non rende ambiguo ciò che è semplice e schietto. Una luce, un'aria, un'apertura che potremmo definire proprie della vocalità partenopea, intervengono ad illuminare con il canto alcuni tra i più celebri passi e brani che altri non rendono a dovere, passandovi sopra con imbarazzo o dando troppe cose per scontate. In ciò sta il senso più luminoso della vocalità napoletana, intesa come una nobile tradizione che affonda le sue radici appunto nella scuola napoletana della lirica e che ha - tra i grandi compositori - in Pergolesi uno dei suoi punti culminanti. Come dicevamo sopra, diversa è l'impostazione di Claudio Abbado, perché Abbado riesce a rendere lancinanti e culminanti (id est poetici) i momenti retorici della musica. Si tratta di una capacità che egli possiede in sommo grado e per la quale sono Leonard Bernstein riesce a stargli a pari. In più, egli la unisce alla poesia del canto: si tratta di un canto poetico e non a vele spiegate come quello di Muti, né di un canto epico, come quello di Giulini. Sono sfumature importanti che trovano riscontro anche nelle sinfonie di Beethoven interpretate da questi tre direttori italiani. Stante la poeticità a volte fuori controllo di Johannes Brahms, che sfugge alle maglie del rigore formale da Brahms stesso impiantate a guardia del proprio inconscio, il Brahms sinfonico di Abbado è ancora più convincente del Beethoven sinfonico di Abbado. Se parliamo di culmine poetico e retorico, sono ben pochi i direttori che riescono a stare al passo con i grandi direttori italiani. In un certo senso, la poeticità dei direttori italiani potrebbe dirsi in antitesi con la pesantezza teutonica di alcuni grandi direttori del passato. Non possiamo non nominare Furtwangler il quale sembra aspirare più a Wagner che a Beethoven, quando dirige Beethoven. In tal senso, per retorica di Abbado intendo qualcosa di molto diverso da quella di Furtwangler: uno esprime una potenza poetica, mentre l'altro cerca un gorgo dal fascino sinistro, finendo a volte preda della retorica nell'accezione deteriore del termine.
Si tratta di un aspetto molto importante, quello della mancanza di retorica, che abbiamo già sottolineato a proposito delle interpretazioni dei direttori americani. Potremmo definire i direttori italiani, sotto questo profilo o in base a tale polarità, come occupanti una posizione intermedia tra i più snelli direttori americani e i più pesanti direttori teutonici. Si tratta ovviamente di una polarizzazione di massima nella quale però trovano collocazione le differenze stilistiche, anch’esse di massima, tra direttori di aree geografiche ed appartenenze culturali differenti che trovano riscontro nel dato reale dell'esecuzione e dell'interpretazione. Diversamente non sapremmo rendere ragione di differenze palpabili nello stile interpretativo di più di un direttore per ogni area geografica indicata. Né tali differenze, in quanto collettive oltreché individuali, possono ascriversi al caso. L'esempio portato più sopra riguardante il pianismo di Glenn Gould e lo stile direttoriale di Leonard Bernstein è emblematico della distanza intercorrente tra il loro stile e quello di altri interpreti come per esempio Furtwangler, Karl Bohm tra i direttori, e Kempff e Backaus tra i pianisti. È possibile che un simile discorso sulla vicinanza e sull'alterità culturale, sull'appartenenza e sull'universalità come alterità costituisca un ulteriore polo tra quelli già citati. Ritengo ora molto importante parlare ancora del suono. Come ricordava Vladimir Ashkenazi, si può dire che vi sia un modo alquanto differente di vivere la musica da parte del direttore e da parte dello strumentista. Per il direttore, la musica si avvicina di più a un concetto astratto, laddove invece per lo strumentista vi è il piacere legato alla produzione di un suono. Secondo quest'ottica, quindi, possiamo aggiungere un'altra polarità a quelle da noi descritte: si tratterà della polarità tra direttori che amano produrre il bel suono e direttori che ignorano il piacere del bel suono. Siamo in una prospettiva, con questa polarità, limitrofa, ma non congruente con quella del bel canto, che invece mira alla piena espansione ed espressione della melodia. Per quanto riguarda la polarità del bel suono, possiamo senz'altro dire che il campione è Herbert von Karajan, per il quale il bel suono è di importanza centrale nella sua produzione artistica. Il cosiddetto suono di Karajan, corrisponde in realtà ad un ideale estetico parallelo ed autonomo rispetto all'interpretazione dei vari brani dei vari autori. Questo perché per Karajan, la produzione di un bel suono è sempre e comunque il primo obiettivo nel confezionare il suo prodotto. Ciò naturalmente non significa che egli non abbia e non esprima un'interpretazione di tipo approfondito e personalizzato, autore per autore, ma senz'altro si può dire che egli anteponga un'idea generale di interpretazione ed esecuzione che deve corrispondere ad alcuni canoni di bellezza ben precisi. Si tratta, in altre parole, di una sorta di pregiudiziale estetica che gli impedisce di produrre interpretazioni che siano al di fuori della sfera e dell'atmosfera del bello. Si potrebbe quasi dire che per Herbert von Karajan è importante far uscire ciascun autore dalla sua particolarità poetica per farlo confluire nel mondo poetico unico della bellezza sonora universale, quasi che ciascun autore non fosse pienamente consapevole di far parte innanzitutto e perlopiù del mondo poetico della bellezza sonora universale e che il compito del direttore fosse proprio quello di favorire ed accompagnare tale disvelamento per l'autore e per l'ascoltatore. E’ l'autore che crede di essere diverso dagli altri ed è l'ascoltatore che crede di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso dalle altre cose, quando ascolta un brano di un autore nuovo, mentre compito dell'interprete per Herbert von Karajan sarà quello di ricondurlo a una dimensione universale della bellezza sonora, facendogli percepire quel brano come parte di un universo di bellezza sonora. In tal senso, forse, si può interpretare ciò che venne scritto su un autorevole quotidiano nazionale quando Herbert von Karajan morì e cioè che egli era, nonostante la sua fame di modernità e tecnologia, l'ultimo dei grandi direttori classici. Il suo classicismo consisteva nel portare alle estreme conseguenze, in modo universale e quindi classico, la bellezza del suono. Inutile dire come una tale prospettiva possa apparire a tutta prima parziale. Non si tratta di sminuire l'operato di interprete di Herbert von Karajan, ma di riconoscerne un obiettivo estetico di primaria importanza e nient'affatto riduttivo, come quello della bellezza sonora. Un altro grande obiettivo di Herbert von Karajan fu, come abbiamo scritto sopra, quello di imprimere una forza divina o disumana alle sue esecuzioni, quindi un ideale divino di potenza orchestrale sovrannaturale che lo pone, in certo senso, agli antipodi di Leonard Bernstein. Mentre questi cercava nell'espressione del sentimento l’elemento umano di ogni autore e di ogni brano, Herbert von Karajan cercava invece nel dispiegamento della potenza l’elemento divino in grado di far percepire la bellezza sovrannaturale della musica; rimando ancora, qui, all’articolo del 1987 di un famoso quotidiano nazionale che recitava così: “Karajan incanta, Bernstein trascina”. Credo che tale titolo sintetizzi molto bene ciò che abbiamo sopra detto e cioè la bellezza sonora come potenza sovrannaturale da un lato e, dall'altro, l'espressione del sentimento umano. Naturalmente tali ultime annotazioni possono apparire in qualche modo estremistiche. Dobbiamo anche pensare che negli anni ‘80 del 20º secolo tali temi costituivano una sorta di appassionante gara tra sostenitori di fazioni opposte: chi favorevole a Bernstein, chi favorevole a Karajan. Come ricordavo più sopra, si trattò di un fenomeno di costume che discendeva da un clima culturale ben preciso: il clima era quello dell'importanza della figura del direttore d'orchestra. In tale ottica, dovremmo pensare perché invece ai nostri tempi non vi sono più dispute di questo genere e non vi è più la centralità della figura del direttore d'orchestra. Come abbiamo detto più volte, quindi, il ruolo del direttore è venuto purtroppo scemando all'interno della società, riducendosi a una sorta di banchiere della musica, di burocrate del bello, anonimo, per cui se non c'è un impiegato, ce ne sarà un altro, ed il servizio rimane aperto. Si tratta di una concezione orribile della musica, impersonale, con ciò tradendo l'essenza stessa della musica che invece è squisitamente personale.
Come si sarà notato, i discorsi fin qui condotti in questo scritto riguardano in maniera non separata, ma bensì ciclica, i direttori, le interpretazioni, i brani, le opere, gli autori, secondo un metodo che vorrei definire borghesiano, in cui non vi sono suddivisioni, analisi, capitoli, ma solo spirali, sintesi, unità, percorsi non definiti, ricerche non programmate, fine ignoto e percorso circolare, mondi inesplorati e che devono essere esplorati, stazioni lontane, trattati scientifici che si uniscono con la fantasia letteraria, colori, suoni, forme, rumori, tentativi non sempre riusciti, attentati al pensiero analitico, cocktails da sorseggiare nei bar, rumori di ambulanze, ostentazione di vacuo virtuosismo, capacità muta di ritrovare suoni, freschezza, alterità, straordinarie possibilità insite in ognuno di noi, manfrine balbettanti, tesori nascosti, unità, umiltà, acqua e libere associazioni di parole. 
Vorrei ritornare un attimo sulla differenza tra il lirismo di Muti e quello di Abbado, qualificando quest'ultimo, questa volta, come un lirismo oltreché poetico, incline ad andare oltre, un lirismo trascendente e maniacale. A proposito di poeticità maniacale, unitamente al contemporaneo (mondo per il quale Abbado ha sempre avuto un'attenzione sincera e particolare), ed a proposito di attitudine al parossismo, alla retorica e in certo qual modo al paradosso, penso ad Abbado e penso a Kurt Weill, penso al mondo dell'Opera da tre soldi di Brecht. Trovo che l'universo culturale, oltre che poetico (ed anche sociopolitico nella accezione più alta del termine) sia proprio di Abbado e sfugga completamente a Muti. Oserei dire che l'innesco di una dimensione poetica di tipo trascendente, la possibilità di esprimere il paradosso e il parossismo retorico, attengano a un'inclinazione ed a un bagaglio culturale che Abbado possiede ai massimi termini e che sono del tutto assenti in Muti. Se potessimo fare un paragone di tipo figurativo, potremmo dire che la tavolozza poetica di Muti possiede solamente colori puri, mentre quella di Abbado è ricca di sfumature. Possiamo fare riferimento a sentimenti di ambivalenza per descrivere le sfumature poetiche che Abbado riesce ad esprimere, a differenza di Muti. E non si tratta di differenze di poco conto. Abbiamo anzi, forse, individuato un'ulteriore polarità, nel definire un asse lungo il quale si colloca ad altezze diverse chi possiede maggiore o minore cultura, o meglio chi riesce ad esprimere maggiore cultura, o meglio chi mostra di appartenere a universi culturali più complessi. Lungo tale direttrice (che potremmo chiamare asse culturale) si colloca al sommo grado appunto Claudio Abbado, seguito da direttori che, come per esempio Leonard Bernstein, dimostrano di potersi addentrare appieno in mondi lontani. Incredibile e proustiana è ad esempio la capacità di Leonard Bernstein di entrare nel mondo di Gustav Mahler ed esprimere tutte le sue sfumature, pur così lontane a volte anche tra loro. Lungo tale asse, però, a parte eccezioni come quella di Leonard Bernstein, i direttori americani sembrerebbero a tutta prima più svantaggiati rispetto quelli europei, anche se ovviamente non bisogna generalizzare. Così, lungo quest'asse, collocherei piuttosto indietro un direttore che pure amo tantissimo come Lorin Maazel. In parte replicherei tale appunto anche nei confronti di Zubin Mehta e Daniel Barenboim. Discorso a parte invece mi sembra meritare Vladimir Ashkenazi il quale ha approfondito in particolare, e in modo eccellente, l'universo culturale della musica russa, sua patria originaria. Naturalmente non bisogna esagerare in un discorso di questo genere, principalmente perché la cultura è un fatto personale non legato in modo esclusivo all'area geografica di appartenenza, né tantomeno si può attribuire una minor capacità culturale ad alcune aree geografiche (come ad esempio gli Stati Uniti). Difetto analogo ed opposto attribuirei invece, pur con inevitabile generalizzazione, ai direttori tedeschi dalla prima all'ultima generazione, in quanto solitamente imbevuti di una loro idea di cultura autoctona, brutalmente schematizzabile come pesantezza teutonica e in quanto tale acritica e priva di alterità, esotismo, capacità di immedesimarsi in altri tipi di situazioni culturali, che è invece la caratteristica migliore che attribuisco ad Abbado. Secondo un ragionamento di questo tipo, anche la direttrice di tipo culturale punta, come altre polarità descritte sopra, all'universalità quale attributo migliore per se stessa.
Accenno qui ad un argomento che riguarda l'interpretazione in generale. Si tratta della vicenda del “già dentro”. Ho cercato di riassumere questo concetto quando, in un libro precedente, ho parlato della poltrona e del compositore che, stando sulla poltrona e componendo, entra a far parte del quadro. Altrove ho denominato questo fenomeno come poetizzazione del mondo. Ora vorrei esprimere tale concetto con l'espressione “già dentro”. Con tale espressione intendo precisamente l'esplosione dell'espressività che si verifica quando viene abbandonato l'atteggiamento del voler dimostrare qualcosa. In tal caso, quindi, avremo un interprete che non sa di sapere, per parafrasare il famoso motto socratico. Avremo cioè un interprete che esprime tranquillamente all'interno del mondo ciò che il brano eseguito e il mondo stesso esprimono e lo fa senza tempo e senza luogo definito, può farlo quasi inconsapevolmente, direi quotidianamente e lo fa al massimo livello. Raggiunge quel sublime attraverso la quotidianità, come già aveva preconizzato Glenn Gould.

Riguardo ancora al piacere del suono, occorre anche fare un ragionamento sulla diversa attitudine all'espressione del piacere sonoro da autore ad autore.
Potremmo pensare per esempio che Ciaikovskij abbia una maggiore attitudine alla piacevolezza del suono rispetto a Beethoven e che di conseguenza interpreti ed orchestre con maggiore attitudine al piacere sonoro possano dirigere ed eseguire meglio autori ed opere con tale attitudine rispetto ad altri interpreti ed orchestre che, possedendo una minore attitudine alla piacevolezza sonora, possono dirigere ed eseguire meglio autori ed opere con una minore attitudine alla piacevolezza sonora.

Volevo dire ancora due cose sul secondo movimento della quarta, questa volta diretto da Muti. Devo dire che il suo incipit è uno dei migliori (trattandosi di un movimento lirico, ciò non mi sorprende, data la maestria degli italiani nei passaggi che richiamano il canto). Non solo Muti fa sentire i violini secondi, dando espressività, significato e moto alla linea melodica discendente (solo Bohm li fa sentire così bene), ma riesce ad adottare un fraseggio così slanciato da assomigliare a quello di un quartetto d'archi. Anche la scansione della nota formula ritmica che fa da tessuto al brano è la migliore, in Muti: palpitante, precisa, né troppo stretta, né lassa, flessibile e completamente adattata alle esigenze espressive. Le durezze beethoveniane sono trasformate in drammatiche esigenze espressive, in sospiri, in visioni baluginanti. L'intiero movimento è persino commovente. La ruota delle terzine nella sezione del flauto non è resa così meravigliosamente come nell'edizione video di Abbado degli anni '80 (il ritmo si annacqua un po' troppo in questo passo), ma la resa complessiva del movimento è la migliore tra quelle di tutti gli interpreti. E non è cosa da poco.
Per quanto riguarda il terzo movimento della quarta, Muti (scelta anche in questo caso interessante, anche se maggiormente discutibile nell'esito complessivo rispetto all'interpretazione del secondo movimento) sceglie un andamento vertiginoso, pratica che gli è congeniale (quando è deciso, Muti va, non ha paura della velocità, né di travolgere le povere orchestre o i cantanti con l'andamento vorticoso), si pensi anche - tra i mille esempi - all'ouverture delle mozartiane Nozze di Figaro. 
Il suo quarto movimento della quarta, invece, non convince. Qui Muti commette l'errore imperdonabile di rubare dove gli pare, in barba alla regolarità della scansione ritmica (e per giunta in un movimento che invece è basato interamente su di essa), per realizzare degli effettacci di espressività: e con Beethoven queste cose non si fanno. Un'imperdonabile caduta di stile.


Epilogo
Non saprei fare una panoramica dei migliori direttori del mondo per quanto riguarda le sinfonie di Beethoven. Posso dire che in età giovanile ho molto amato l'edizione dei Wiener con Leonard Bernstein. Ora, in età matura, amo molto l'edizione di Lorin Maazel. Sono incerto sul giudizio da dare alle altre edizioni: non sono toccato dal fascino di Furtwangler. Riconosco alcune intuizioni geniali nell'edizione di Herbert von Karajan, in particolar modo nell'ottava sinfonia e in parte nella sesta sinfonia. Riconosco spunti di interesse nelle edizioni di altri interpreti: ve ne sono in Abbado, Muti, ma anche in Bohm, Jochum, Giulini. Poiché trovo interessanti le edizioni dal carattere maggiormente ritmico, apprezzo molto quella di Georg Szell. Noto che di fatto ciascun interprete rende al meglio alcuni passi piuttosto che altri e che i passi resi al meglio da un interprete sono perlopiù diversi da quelli resi al meglio da tutti gli altri, ma non concordo con l'idea che ogni accesso sia un modo di possedere l'opera. Credo nell'interpretazione ideale, cioè ottimale e penso che alcuni vi si avvicinino in modo significativamente maggiore rispetto ad altri. Se dovessi fare una classifica dei cicli sinfonici incisi dai vari interpreti, metterei ai primi due posti Bernstein e Maazel, l'uno per la profondità e l'altro per la snellezza. Penso anche che uno degli aspetti più importanti nell'interpretazione delle sinfonie di Beethoven sia quello di tenere insieme l'aspetto ritmico con quello lirico, perché una scelta preferenziale netta in una direzione piuttosto che nell'altra finisce per rendere a metà la bellezza delle sinfonie di Beethoven. Tuttavia, non posso negare che in alcune circostanze le scelte nette esercitino notevole fascino, come nel caso del finale dell'ottava sinfonia diretto da Herbert von Karajan. Ma anche l'aurea mediocritas esercita un'innegabile fascino, come nel caso del ciclo di Bohm.

Potremmo anche passare in rassegna le sinfonie di Beethoven, in modo tale da esprimere un giudizio estetico complessivo.
Nel corso degli anni ho apprezzato sempre di più la prima sinfonia, per il carattere snello e agile, la perfetta quadratura della forma sonata, l'impeto giovanile.
Ho certamente apprezzato sempre la seconda per il suo equilibrio tra maggiore e minore, per la sua perfetta quadratura della forma sonata, per la sua drammaticità,  contenuta entro termini razionali.
La terza è una sinfonia senz'altro spinosa, ed ho lungamente faticato per apprezzarla, incentrando la mia attenzione soprattutto sull'aspetto ritmico, riconoscendovi la chiave interpretativa principale, per poi passare da lì ad apprezzarne l'aspetto lirico, giungendo infine a coglierne il cuore epico che la rende così affascinante a lungo termine.
Della quarta ho imparato ben presto ad apprezzare il secondo movimento, ritenendolo il cuore della sinfonia stessa, a scapito degli altri che non sono mai riuscito ad apprezzare particolarmente, sicché forse è la sinfonia che ho amato ed ascoltato di meno.
La quinta è un rompicapo, anzi il rompicapo per eccellenza, ma devo dire che ho imparato presto ad apprezzarne il primo movimento dall’interpretazione di Leonard Bernstein. Non ne apprezzo il finale, troppo trionfalistico per me, anche nei miei anni ultra-giovanili.
La sesta è la più piacevole delle sinfonie, ma paga lo scotto della noia per la sua eccessiva lunghezza e ripetitività. Sicché, ne apprezzo massimamente l'interpretazione senza ritornelli e molto snella di Herbert von Karajan.
Della settima ritengo rimarchevole il secondo movimento, celeberrimo, nell'interpretazione di Leonard Bernstein e in parte anche l'ultimo, così festoso, sempre nella sua interpretazione.
L'ottava è la sinfonia che ho apprezzato maggiormente negli ultimi anni, per quel suo mix di leggerezza e parossismo, ravvisabile nel primo e soprattutto nell'ultimo movimento. Naturalmente ho sempre apprezzato anche il breve e leggero secondo movimento, soprattutto nell'interpretazione di Bernstein.
La nona è un altro eterno rompicapo, ma ho sempre ritenuto che il primo movimento, in particolare la sua coda, nell'interpretazione di Leonard Bernstein, sia uno dei brani più belli in assoluto della musica classica. Anche l'ultimo movimento è un rompicapo: recentemente ne ho apprezzato l'interpretazione di Claudio abbado, per la sua smagliante vocalità.


Conclusioni

Vengo a rapide e indolori conclusioni. 
Il titolo del presente saggio, "Altre divagazioni", è la voluta imitazione del titolo del saggio di Borges "Altre inquisizioni".
Aspirazione massima sarebbe stata imitarne lo stile, la sostanza poetica e filosofica insieme, cosa che penso mi sia riuscita in miserrimo grado.
Inoltre, questo avrebbe dovuto essere un libro, invece ne è uscito un saggio in forma lunga. 
Esaurita l'ispirazione del momento, ho deciso di concluderlo.
Mi scuso per questo con chi lo ha letto.



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