L’estetica di Beethoven rispetto al Romanticismo
E’ come se il romanticismo rompesse le maglie
strutturali ferree e rigorose entro le quali Beethoven aveva
contenuto l’ispirazione e, di quegli scivolamenti della razionalità costituiti dai nuclei ispirativi, ora isolati tra loro e non più strutturati insieme (verrebbe da dire, con termine medico, di quei "prolassi") facesse il nucleo
del proprio mondo espressivo. Si pensi per esempio al notturno in mibemolle maggiore, op. 9, n. 2 di Chopin, con quella sua melodia universalmente romantica, o
a Schubert (Serenata, sonata Arpeggione, et al.). La scorza giovane dei sentimenti beethoveniani, liberati
dal loro schema di riferimento, trova collocazione in un universo
libero, dove la forma viene vanificata (o dettata) dal contenuto
espressivo-sentimentale, di modo che è sull’intensità, sulla
qualità e sulla genuinità di quei sentimenti che si basa, secondo i romantici, la
riuscita espressiva dell’opera d’arte. Non vorrei qui nemmeno
sfiorare i problemi estetologici posti da Thomas Mann riguardo
alla presunta impossibilità di produrre arte essendo genuinamente
sentimentali, o meglio romantici, in quanto Mann - in Tonio Kroger - interpreta l’arte
tout court come dècadènce e l’espressione dei sentimenti viene da
lui vista come l’espressione di una finzione artistica da parte di
un autore che, secondo Mann, non prova o non prova più quei genuini
sentimenti, trovandosi invece in una condizione artefatta e morbosa (decadente, appunto) che sarebbe, insieme al mestiere e alla
finzione, alla base della creazione artistica anche e soprattutto
romantica, come se, per produrre e ispirare il sentimento, occorresse
prima averlo superato e tradito.
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