Gould e dintorni (1996)

GOULD E DINTORNI
(Saggio sul pianista canadese Glenn Gould)

Nel 1982 un ictus strappava al mondo uno di quei musicisti e intellettuali di cui si può dire in tutta tranquillità, senza incorrere in alcun rischio di retorica, che non sarà mai abbastanza compianto.
Sia chiaro subito che nel presente, breve tentativo di delineare alcune caratteristiche umane, musicali e intellettuali del grande pianista torontese, rifuggiremo dalla discussione, del tutto superficiale, della sua “stravaganza” esteriore, cui pure molti appassionati (appassionati del personaggio creato dalle case discografiche e dai media, più che della musica) si abbeverano. Nulla ci importa, per principio, della sua sedia bassa e rotta, come anche del suo abbigliamento invernale portato in sale iper-riscaldate, e simili amenità, poiché, caso mai, per chi fosse alla ricerca di stranezze, ben più scalpore avrebbe dovuto destare, a rigor di logica, un altro fatto, molto importante: il buio sulla sua vita privata affettiva (segreta oppure del tutto inesistente?).
Nel delineare un breve ritratto di Gould rifuggiremo altresì da quella sorta di “beatificazione” di cui lo fa oggetto il suo maggiore critico (oltre che grande amico) Bruno Monsaingeon, il quale, negando tutta la paccottiglia di questioni superficiali sollevate attorno al fenomeno Gould, ne esagera però l’aspetto di spiritualità visionaria, facendone una sorta di messia di una nuova religione dell’umanità e della musica.1 Appare come un tradimento dello stesso “gouldismo”, inteso come stile di pensiero che rifiuta tutte le iperboliche e sentimentalistiche teorie del “genio” e dell’”ispirazione”, dare di Gould un ritratto - come fa a volte Monsaingeon - in termini apertamente misticheggianti.
Può sembrare curioso, nel tentativo di delineare alcuni tratti salienti di una personalità intellettuale complessa e ricca di spunti filosofici qual è quella di Glenn Gould, partire -come faremo noi- da un confronto, anche se il termine di paragone è un altro musicista tutt’altro che sconosciuto quale Leonard Bernstein. Il motivo della scelta, da parte nostra, di un simile approccio al “pianeta Gould” (il confronto tra alcune caratteristiche interpretative di Gould e di Bernstein) risiede nel fatto che in tal modo ci è più facile entrare subito nel vivo della personalità di Gould, in quanto quella personalità, con i suoi ideali di purezza e i suoi tic intellettuali, costituisce già da sola il contrassegno di una cifra stilistica ben precisa, e ci indica la presenza di una figura di intellettuale “a tutto tondo” molto rara, non solo in campo musicale.
Se non fosse per la collaborazione con Stokowski (limitata -è vero- all’incisione dell’Imperatore di Beethoven, a un documentario radiofonico sul direttore e a cenni di reciproca stima, ma riconosciuta senz’altro come straordinaria dallo stesso Gould) si sarebbe portati a dire che il motivo della scarsa considerazione di Gould per Bernstein potrebbe risiedere nella concezione edonistica della musica e dell’interpretazione, propria del compositore di WestSide Story. Numerosi sono infatti i passi degli scritti di Gould in cui egli indica nel rifiuto dell’edonismo (del suono e -più in generale- della forma e dell’interpretazione musicale) uno dei capisaldi della sua concezione complessiva dell’interpretazione,2 tale da fargli rifiutare Chopin, e da fargli apprezzare Mozart solo in quanto non edonista, cioè snaturandolo non poco. Eppure l’incisione del quinto concerto di Beethoven con Gould al piano e Stokowski sul podio è lì ad avvertirci che l’idiosincrasia di Gould verso l’edonismo (e il maestro Stokowski era un campione dell’edonismo sonoro, un cultore del bel suono orchestrale inteso come vettore di contenuti interpretativi già di per sé pregnanti) non era così centrale, almeno non tanto da inibirgli un’intesa musicale (e umana) col vecchio maestro, intesa che nessun critico ha esitato a definire eccellente, per gli ottimi esiti interpretativi dell’incisione stessa di quel concerto. Il movimento iniziale viene suonato da Gould più lentamente rispetto ad altri interpreti, e tale lentezza, perseguita e mantenuta fino all’ultima battuta con tenace meticolosità dal pianista canadese, conferisce già solamente all’incipit dell’Imperatore una solennità agghiacciante.
Non per motivi anti-edonistici, dunque, Gould teneva in poca considerazione (come risulta da molte sue dichiarazioni, sia pure fatte di sfuggita)3 Bernstein, direttore che del piacere in musica faceva in ogni caso uno dei motivi conduttori della sua arte interpretativa, ma per un altra ragione. Per Bernstein la musica si configurava non solo come gioia, sentimento che gli ispira comunque anche il titolo di un libro (The Joy of Music), ma anche come esaltazione, potenza ed estroversione che si esprimono in un istante che non può non essere fuggevole, e che ha nel presente la sua dimensione privilegiata. Concezione romantica della musica come espressione di sentimenti, quella di Bernstein; concezione che però si serve dell’attimo ed in esso si risolve interamente, prova ne sia anche il fatto che la maggior parte delle registrazioni fatte da Bernstein sono live.
Questa esaltazione, questa musica intesa come espressività viscerale, a Gould ripugnavano profondamente. Alla domanda fatidica: “Ritiene che la musica registrata produca sull’ascoltatore un effetto estetico e fisico analogo a quello della musica dal vivo?”4 Gould risponde con orgogliosa chiarezza: “No, e soprattutto non credo debba farlo. A mio avviso...la musica registrata dovrebbe...avere un effetto analogo a quello di un tranquillante...”.5 La musica per Gould dovrebbe dunque indurre a uno stato di contemplazione, tale da far emergere il sublime dalla tranquilla serenità che presuppone una mancanza di fratture su molteplici livelli: meno fratture tra artista e ascoltatore, nessuna frattura tra l’esperienza del sentire musica e la normalità quotidiana, meno fratture tra momenti alti e momenti bassi, tra io e mondo (topos romantico), ecc... Non una musica come esperienza “la...più simile all’amore”,6 come afferma invece Bernstein, artefice di una vera e propria rivoluzione nello stile direttoriale, con cui si abbandona la compassata e mendelssohniana asetticità, in favore di una figura dionisiaca e wagneriana del direttore stesso, con un di più di fisicità, sensualità e -verrebbe da dire- “sessualità” del gesto e della mimica facciale, come del movimento del corpo, che non trovano eguali nella storia della direzione d’orchestra. Per Bernstein il direttore d’orchestra dovrebbe con ogni mezzo cercare di “provocare...scariche di adrenalina”7 negli orchestrali e nel pubblico.
Nulla di tutto questo nel pianismo di Gould, ma una concezione della musica come continua e costante contemplazione di mondi di sublime bellezza, in grado di elevare moralmente lo spirito, ma integrandosi perfettamente con tutti gli altri aspetti del quotidiano, senza proporre o imporre all’ascoltatore, dunque, mistici e iperbolici trasalimenti, pena la ricaduta in un effimero hic et nunc che romperebbe i ponti col passato e col futuro per concentrarsi sul presente dell’esaltazione, troncando quella tranquillità e quella a-drammaticità a Gould tanto care.
L’essere romantico di Gould si estrinseca dunque con il potere immaginifico, con un’espressività che tocca il profondo attraverso sottigliezze da fanciullo ipersensibile, non (come vorrebbe invece l’evidenza della Storia della Musica) attraverso la magistrale resa del contrasto drammatico tra l’anima solare e quella notturna del mondo e della musica stessa, concezione tardoottocentesca che per una serie di consuetudini esecutive e di tentazioni virtuosistiche finisce per contaminare le esecuzioni della musica di quasi tutti i periodi storici. Gould era dunque antiromantico solamente nel senso storico-musicale del termine, ma si voleva romantico per la sua concezione di potente elevazione e nello stesso tempo di normalità della musica: “musica come tranquillante” significa la tendenza a integrare la musica con tutti gli altri aspetti del reale, non a sradicarla da tutto mettendola su un piedistallo, col rischio (corso da Bernstein) di farne la cassa di risonanza di un ego eccellente, ma solitario e contrapposto al mondo (gli “altri” costituiti simbolicamente dal pubblico, “costretto” ad assistere al trionfo dell’artista, alla legittimazione della sua superiorità rispetto al pubblico stesso), in definitiva perdente rispetto al “corso” del mondo stesso (altro topos romantico-decadente). Questo era bensì il rischio corso dalla visceralità di un Bernstein, le cui registrazioni, a mente fredda, danno l’impressione ambivalente di una coesistenza del meglio e del peggio a livello interpretativo, in cui a volte cioè la volontà di essere ardenti si risolve in minore precisione tecnico-stilistica, la quale a sua volta si rivolge contro l’efficacia drammatica, oscurandone alcuni tratti (specialmente negli inizi delle sinfonie, laddove negli sviluppi, e in genere nelle parti centrali dei brani orchestrali, Bernstein levigava accuratamente il suono delle orchestre con un sublime lavoro di cesello).
Il rifiuto gouldiano della visceralità e del far musica per così dire “a cuore aperto”, o meglio “a nervi scoperti e con le budella di fuori” contrassegna il suo rifiuto dell’istituzione del concerto, al quale il pianista canadese fa cenni sempre più frequenti fino al ritiro definitivo, nel 1964. E’ dopo il ritiro che Gould, preso da una sorta di “zelo missionario”, bombarda i suoi ascoltatori con una serie di documentari e di articoli in cui spiega le ragioni della prossima morte del concerto in favore dell’era dell’incisione. Comunque, se osserviamo con una certa attenzione il carteggio generale di Gould, notiamo che la sua idiosincrasia verso i concerti, le tournées e gli spostamenti non compare sin dall’inizio della sua carriera, ma parte da un momento preciso. Nel 1959, alla Steinway & Sons, Gould è vittima di un “incidente”: per colpa di una pacca sulla schiena datagli con intenzioni amichevoli da un inserviente, il pianista canadese rimane “fuori uso” per parecchi mesi, e da quel momento incomincia a prendere coscienza del fatto che le sue straordinarie doti psicofisiche come pianista costituiscono un tesoro tanto prezioso quanto fragile.8 Gould si adopererà da quel momento in poi per difendere sé stesso da un mondo che sente (almeno in parte) come ostile o per lo meno brutale e troppo violento rispetto alla sua sensibilità. Il fatto che a trent’anni egli abbia rinunciato al palcoscenico per dedicarsi esclusivamente alle incisioni e ai documentari radiofonici va visto quindi come la conseguenza necessaria di un rifiuto che ha nella protezione della propria persona (anche fisica) la sua radice ultima.
Ma, come è noto, Gould era, oltre che un grande pianista, anche un intellettuale, sicché alle sopracitate ragioni psicofisiche del suo ritiro affiancò di sua iniziativa una serie di motivazioni di carattere filosofico (estetico e morale) che per la loro estrema complessità e interconnessione reciproca risultano difficili da chiarire completamente. Gould indica nella competizione (non nel denaro) il peggior male della società occidentale, iniziatosi con il rinascimento e proseguito su tutti i livelli, compreso quello della cultura e in particolare della musica.9 Lo spirito di competizione costituirebbe il seme della violenza dell’uomo sull’uomo e , prima ancora, dell’uomo sulla natura. Nelle dichiarazioni di Gould posizioni vegetariane, animaliste e pacifiste (sicuramente suggeritegli anche dai movimenti giovanili degli anni ‘70, dai quali pure egli dissente sotto non pochi aspetti) si mescolano spesso (e a tratti si fondono in modo efficace) con riflessioni estetiche in senso lato. Il concerto costituisce secondo Gould uno spettacolo “crudele, feroce e idiota”,10 in cui l’attenzione -per forza di cose- non è incentrata sulla musica, ma sui salti mortali dell’esecutore virtuoso, il quale, autoincastrandosi compiacente in una spirale perversa, fa di tutto per spingere i suoi prodigi tecnici all’estremo limite dell’eseguibile, a un passo dal baratro dell’errore, disfatta che il pubblico teme e desidera al tempo stesso. E’ come una corrida in cui la musica fa da toro, affascinante solo in quanto pericoloso per il virtuoso-matador, il quale si diverte uccidendola.
Che l’incisione permetta una notevole accuratezza esecutiva, e richieda una massiccia profondità interpretativa è un dato di fatto: mentre in concerto sona volant, su disco sona manent, e anche l’ascoltatore più distratto può, dopo un certo numero di ripetizioni nell’ascolto di un brano, accorgersi di un passaggio poco convinto, di una struttura traballante, di una esecuzione poco ispirata. Il motivo dello scandalo suscitato da Gould nel difendere con pervicacia queste tesi risiede nella concezione, avente parecchio seguito, del concerto come serie magica di istanti irripetibili, luogo in cui la vera anima della musica verrebbe evocata senza i “trucchi e gli imbrogli” della “fredda” sala di registrazione. Gould afferma in proposito: “Tutta questa gente vive nell’illusione del carattere sacro del ricordo di momenti isolati, di istanti della storia che si sarebbero potuti per così dire fermare. E’ affascinante, ma è illusorio. La vita non è così semplice, e neanche la musica, grazie a Dio.”11 La ripetibilità dell’incisione (nel duplice senso: per l’artista che, attraverso il montaggio, può ripetere un take che non lo convince appieno, assemblandolo poi con il resto; per l’ascoltatore, che se crede di scorgere uno di quei momenti magici in un incisione di un brano, può ritornare su quel punto del disco anche mille volte) rende l’ascolto della musica un’esperienza veramente importante e profonda, contemplativa, e nel contempo per nulla sradicata dalla normalità e dalla quotidianità. Non più musica come evento straordinario e catartico, ma musica come amica e sostegno, quando si vuole e come si vuole, fonte di riflessione, di pace e di serenità.
L’artista da concerto assomiglia secondo Gould a un fenomeno da baraccone, e non assolve quella che a suo avviso è una delle sue funzioni primarie: l’espressione di una purezza e di un’elevazione spirituale che vadano in sostegno, anziché a detrimento della morale dominante. Sotto quest’aspetto giocano un ruolo determinante, in Gould, le sue radici puritane dategli dall’ambiente culturale della provincia dell’Ontario degli anni ‘40, in cui egli cresce e viene educato.12 Per inciso, Gould non smetterà mai di amare il paesaggio ghiacciato e la pura immensità dell’orizzonte canadese, spettacolo in cui l’amore per la natura (il paesaggio non è a misura d’uomo, semmai -al contrario- l’uomo può sentirsi parte di quel paesaggio) sembrerebbe venire spontaneo, e ispirare un desiderio di universale e un profondo rispetto per la vita di tutte le forme viventi. Il ruolo dell’artista, ben espresso secondo Gould dall’incisione e male espresso dal concerto pubblico, dovrebbe essere quello di portatore di messaggi di cristallina purezza, spunti di morale fusa con l’estetica, di bello con buono. Il concerto solletica invece il voyeurismo-sadismo del pubblico e l’esibizionismo-masochismo del musicista, complici entrambi di un rito immorale.
Col passare del tempo, Gould sente il bisogno di curare sempre più da vicino le sue incisioni, e di farle nascere in un ambiente costituito da pochissime persone (i tecnici e il produttore, che si ridurranno infine al produttore e basta), tanto da aprire un suo studio di incisione personale, dove l’elemento del tempo è lasciato libero di agire sulla sua concezione di un brano,13 a distanza siderale dalle strettoie e pastoie burocratiche di tutti gli artisti da concerto, per i quali il disco è un faticoso complemento delle tournées, al quale non è possibile dedicare tutta la cura necessaria. Riflettendo con mente aperta, non si può non riconoscere che vi è un preciso impegno morale nella cura estrema messa in atto da Gould nel confezionare un prodotto artistico quanto più bello possibile, fruibile a vari livelli di profondità a piacimento dell’ascoltatore, e per di più eterno, immortale come la stessa grande musica.
L’apertura al mondo dell’incisione, con le sue tecniche e le sue procedure che ne fanno la creazione di un’opera d’arte invece che una semplice “riproduzione”, fa tutt’uno con le idee tutt’altro che tradizionaliste e ortodosse che Gould ha nel campo di quella che si potrebbe chiamare “concezione generale dell’interpretazione”. Secondo Gould, come è noto, l’interpretazione di un brano dovrebbe darcene una versione nuova rispetto alle interpretazioni precedenti, perché se così non fosse non ci sarebbe ragione di proporla. Quest’idea della necessità di un rinnovamento rispetto alle interpretazioni precedenti si unisce in Gould (coerentemente) con il suo rifiuto della concezione secondo la quale esisterebbe per ogni brano un’interpretazione idealmente ottimale, e cioè la più vicina alle intenzioni del compositore.
Gould rifiuta un simile approccio al brano e al compositore, approccio che potremmo definire storicistico, in quanto presuppone un desiderio di identificazione, o per lo meno di rispetto, nei confronti del compositore e della sua epoca. Secondo tale approccio storicistico (accettato più o meno consapevolmente dalla maggior parte degli interpreti quale presupposto per una esecuzione quanto più possibile buona, quanto più possibile vicina alla sopracitata identificazione con le intenzioni del compositore) ogni epoca ha i suoi stili esecutivi che vanno rispettati e che costituiscono una base per ogni esecuzione. Per Gould invece, è meglio affidarsi a una intelligente iconoclastia: intelligente perché non perseguita a tutti i costi, bensì guidata dall’esigenza di non riproporre un’interpretazione ortodossa (che si affidi cioè alla mezza misura della tradizione esecutiva di un brano) se non dopo aver tentato di aprire nuove prospettive sul modo di rendere il brano eseguito, che ne ripropongano l’essenziale universalità data dalla logica interna della sua struttura, ma che ne tolgano la polvere e il vecchiume della tradizione esecutiva, i quali rischiano proprio di oscurare quella struttura e quell’universalità.
Quello che Gould non accetta della concezione storicistica dell’interpretazione è l’idea dell’unicità della prospettiva, l’idea che esista un’unica interpretazione ottimale, e che inoltre quell’interpretazione ottimale debba essere per forza legata a dogmi stilistici, supposte maniere di eseguire proprie di una tale o di una talaltra epoca storica, dogmi oltretutto difficili da dimostrare e frutto di conclusioni del tutto opinabili tratte dagli esperti, i filologi, che pretenderebbero di dettar legge in materia di interpretazione.14 Ma, oltre al fatto che nessuno potrà mai sapere come Mozart o Beethoven eseguivano le loro composizioni, Gould si propone di tagliare il problema alla radice: egli non vede perché mai bisognerebbe porsi come obbiettivo la somiglianza dell’esecuzione odierna con quella del tempo storico in cui quel brano è nato.15 Se si rifiuta tale dogma storicistico si può ottenere (e, nel caso di Gould, questo è quasi sempre successo) una maggiore attenzione alla musica stessa, studiata e concepita “in presa diretta”, senza i grovigli intellettualoidi dati dal porsi la domanda “se al compositore sarebbe piaciuto”.
C’è un “ma”, in questa visione gouldiana dell’interpretazione, ed è dato dal fatto che, anche se si rifiuta -come fa Gould- il modello interpretativo storicistico, qualche modello generale, volenti o nolenti, di fatto lo si segue, e anche Gould ha un suo modello. Ciò che a Gould piace trovare in ogni brano è costituito essenzialmente da due elementi: la varietà armonica, la presenza (e possibilmente la complessità) del contrappunto. Queste sono le caratteristiche, come è evidente, della musica di J.S. Bach, ed è proprio questo il motivo, per ammissione dello stesso Gould, del suo amore per la musica di Bach e dell’eccellenza -unanimemente riconosciutagli- delle sue interpretazioni di Bach. Il problema (se ci si vuole porre un problema) nasce dal fatto che Gould ricerca i summenzionati elementi formali non solo in Bach, ma anche in Beethoven, in Mozart e in tutti gli altri compositori, con risultato discontinuo.
Si prenda ad esempio Beethoven. In Beethoven l’interpretazione di Gould funziona solo a tratti: è meravigliosa nei passaggi del Beethoven “contemplativo”, in cui la varietà armonica (uno dei due elementi formali da Gould amati e resi meravigliosamente) è l’elemento portante del brano, ma troppo contemplativa nel Beethoven esaltato e battagliero (p. es., nell’incipit della Hammerklavier), in cui cioè è necessaria la resa ad alti livelli di quel contrasto drammatico di temi e di forme che Gould non amava, ma che è parte integrante (ed elemento formale determinante) della musica di Beethoven, soprattutto del Beethoven della cosiddetta fase di mezzo della sua produzione, quella che ha come epicentro la Quinta sinfonia. Per altro proprio la Quinta, nella trascrizione per pianoforte di Liszt, viene interpretata con meraviglioso e “battagliero” vigore da Gould, a significare che in musica ogni teorema sull’interpretazione nasce solo per dar corpo alle sue eccezioni.
Sempre riguardo ai parametri generali seguiti da Gould nell’interpretazione di un brano, bisogna rilevare, oltre all’elemento iconoclastico e antistoricistico, l’elemento della coerenza, con tutti i pregi e i difetti ad esso connessi. Il modo di suonare di Gould è improntato a una notevole coerenza, sia a livello stilistico, sia a livello di concezione generale dell’interpretazione.
A livello stilistico Gould si avvale di un tocco staccato, teso a rendere la chiarezza architettonica del brano. Lo staccato di Gould, invece di provocare un effetto slegato, riesce a riempire di tensione gli “spazi” tra una nota staccata e l’altra, in modo da creare una sorta di arcata sonora in perenne tensione, che cattura subito l’ascoltatore e lo induce a seguirla. Mentre il legato, ottenuto sovente dai pianisti con l’uso del pedale, crea il più delle volte un alone di impurità timbrica, dato dal fondersi dei suoni tra di loro, lo staccato di Gould crea un potente effetto di continuità. Lo staccato di Gould corrisponde anche al suo bisogno di dotare la musica di una chiarezza illuministica, tale cioè che l’ascoltatore sia messo in grado di udire distintamente tutte le note, dalla prima all’ultima, e quindi il rispetto dell’esecutore verso l’ascoltatore sia massimo. Altro elemento espressivo che riguarda specificamente lo stile pianistico di Gould è la limitazione della escursione dinamica. Il dislivello tra piano e forte viene ridotto da Gould, senza però ridurre la sterminata gamma di sfumature esistenti tra un estremo e l’altro, sicché il risultato è un’espressività molto raffinata, priva di effetti plateali, ma capace di risuonare più a lungo nella mente dopo l’ascolto, nel ricordo.
Dal punto di vista di una teoria generale dell’interpretazione, come è noto Gould rifugge qualsiasi enfatizzazione delle contrapposizioni formali interne al brano (per esempio tra i temi “maschili” e quelli “femminili” della forma sonata), perché, come abbiamo visto, gli elementi che gli interessa trovare corrispondono al suo ideale contemplativo di musica: essi sono la varietà armonica e la complessità contrappuntistica. Questa concezione crea delle interessanti analogie tra le musiche eseguite da Gould, anche quelle composte a secoli di distanza.
Se prendiamo ad esempio le esecuzioni gouldiane delle sonate di Bach per viola da gamba (con Leonard Rose quale partner di Gould) notiamo una sinuosità struggente di tipo romantico, in senso lato. L’espressività delle frasi bachiane viene resa in modo straordinario dai due esecutori, che liberano l’immaginazione mostrando come l’anima della musica di Bach si libri a mille miglia d’altezza rispetto alle pedanterie di quelle interpretazioni cosiddette “filologiche”, che si avvalgono degli strumenti d’epoca. Gould mostra invece con tutta evidenza come la musica di Bach sia indifferente al timbro, per via del suo carattere di astrattezza ed universalità che la sgancia dal tempo in cui fu composta. Il risultato è costituito da un freschezza interpretativa che facendo di Bach un compositore fuori dal tempo storico in cui ha operato, lo rende a maggiore ragione fruibile per i contemporanei.
Prendendo ora come esempio di compositore romantico Brahms, possiamo notare che il modo di suonare di Gould tende a diminuire il divario tra il mondo romantico espresso dalla musica di Brahms, e il mondo di Bach, che pure data secoli addietro. La assenza di contrasti drammatici, così confacente alla musica di Bach, viene ricercata da Gould anche in Brahms, proponendo perciò una versione della sua musica attenta all’espressione degli elementi melodico-armonici che sprigionano la fantasia del compositore, piuttosto che agli elementi di battagliero contrasto. L’anima contemplativa del romanticismo musicale viene eretta da Gould ad anima della musica tout court, a scapito dell’anima guerresca, che ha le sue origini nello Sturm und Drang e nell’idea di Streben. In questo modo Brahms, nell’interpretazione di Gould, viene scremato di tutto il beethovenismo drammatico che lo caratterizza, e viene parificato, con una operazione interpretativa deliberatamente anti-filologica e anti-storicistica, a un compositore barocco.
Se infatti, a livello storico-oggettivo, vediamo nella differenza tra un sentimento contemplato e un sentimento direttamente espresso (e vissuto nei suoi contrasti) la differenza principale tra l’ego filosofico della musica barocca e l’ego della musica romantica, Gould rifiuta questa differenziazione e ci propone una musica romantica altrettanto contemplativa e a-conflittuale della musica barocca. Nel caso specifico, l’interpretazione gouldiana di Brahms (si pensi, ad esempio, al Concerto in re minore con Bernstein sul podio) è anti-drammatica e tesa a scatenare la potenza immaginifica insita negli elementi melodico-armonici del brano, lungi dall’accentuare differenze tra temi e tra mondi, tra notte e giorno, e via di seguito. Un Brahms meno romantico della media, dunque, se si intende il principio del conflitto come l’anima del romanticismo, ma un Brahms tanto più romantico quanto più intendiamo l’anima del romanticismo come fantasia e contemplazione. Ma allora, seguendo questo secondo criterio, anche il Bach di Gould è romantico, e risulta più romantico di Brahms: anzi, il più romantico dei compositori.
Questa operazione gouldiana di parificazione della musica romantica (e di tutta la musica) con la musica barocca porta ad esiti discontinui allorché il pianista canadese affronta il repertorio tedesco classico, in ispecie quando affronta Mozart e Beethoven. A proposito di quest’ultimo abbiamo già notato come il rifiuto del contrasto formale di tipo sonatistico induca Gould a un’esecuzione perennemente contemplativa, il che funziona solo a tratti. Diverso, e a nostro avviso ben più interessante, l’esito dell’approccio interpretativo gouldiano a Brahms, e specialmente, come già accennavamo, a quel capolavoro giovanile di Brahms che è il Concerto in re minore.
Questa diversità di esiti interpretativi (discontinui sia in Beethoven sia in Brahms, ma con un che di struggente in quest’ultimo, che Gould riesce a cogliere più di rado in Beethoven) è dovuta principalmente al fatto che, a livello formale, in Beethoven la composizione vive grazie alla forma sonata, in Brahms nonostante la forma sonata. Sembra un’affermazione schematica eppure essa contiene un fondo di verità. In Brahms la vita formicola al di fuori delle maglie strutturali, balugina in lampi isolati, seppur resi omogenei al tutto dalla maestria tecnica del compositore; ma le ragioni che li reggono e che danno loro vita trascendono gli schemi, sono ragioni di una passionalità giovanile e tracimante. In Beethoven, al contrario, la vita della composizione nasce dall'identificazione con quegli schemi, per questo, come dice Bernstein,16 il fulcro delle sue composizioni è lo sviluppo. In barba alle istanze strutturali che pure lui stesso cercava con ogni impegno di soddisfare, sono i temi femminili (ecco cosa si intende qui per "lampi isolati") di Brahms quelli nei quali il sublime fa irruzione, come si può notare, ad esempio, nelle battute precedenti la coda del quarto movimento del quintetto con pianoforte, quando gli archi intonano un tema di una bellezza struggente come a prendere la rincorsa per le ultime battute, dal ritmo selvaggio. Qui si vede che la bellezza della musica di Brahms non risiede, come per Beethoven, nella costruzione di un impianto sonatistico convincente. L'impianto sonatistico convincente c'è eccome anche in Brahms, ma il bello della sua musica, al contrario che per Beethoven, non è in questo fatto, ma altrove, nei momenti in cui la forma sonata non conta, in cui oltre e al di fuori della struttura emergono dei temi di un lirismo che non si può definire in altro modo che "sublime": sublime inteso quindi, in Brahms, come qualcosa che viaggia, dal punto di vista formale, al di fuori e al di sopra della struttura ed è discontinuo, si pone al di fuori della continuità e assurge all' extratemporale, che è come dire all'eterno.
Ciò è vero anche per il concerto per piano n° 1, in cui Gould (con Bernstein a dirigere l'orchestra) riesce a dare a tutta la parte del pianoforte un'impronta esecutiva "da tema femminile" (anche nei momenti in cui il pianoforte intona i temi maschili), mentre Bernstein, in modo perfettamente simmetrico, fa di tutte le parti dell'orchestra una sorta di gigantesco tema maschile. Viene così evitata quella che Gould stesso chiamava la "doppia dicotomia",17 cioè il raddoppiarsi (dovuto alla doppia esposizione, prima da parte dell'orchestra e poi da parte del pianoforte) della struttura drammatica della forma sonata, basata sul contrasto tra un tema femminile e uno maschile, conflittualità da Gould tanto aborrita. Ma se l'interpretazione gouldiana di questo concerto regge (e regge senz'altro) ciò è dovuto non certo a quello che Gould affermava, cioè aver fatto di questo concerto qualcosa che sta in piedi dal punto di vista architettonico, intendendo con questo l'aver preservato una continuità formale mediante l'eliminazione, o quanto meno l'attenuazione, della conflittualità sonatistica.18 Infatti l'unico effetto in tal senso ottenuto dalla sua interpretazione è il realizzarsi di una dicotomia unica, che in linea di principio potrebbe essere ritenuta altrettanto conflittuale di quella doppia. Invece il fatto che l'interpretazione gouldiana regge è dovuto proprio al contrario, cioè all'aver dilatato infinitamente, facendone un nunc stans al di fuori del tempo, resecato da qualsiasi continuità architettonico-temporale, quegli istanti sublimi, cioè i temi femminili (quelli già femminili di diritto e quelli originariamente maschili, ma resi di fatto femminili dal modo di suonarli di Gould). Gould rompe la forma sonata del concerto, basata sulla doppia dicotomia, facendo di questa doppia dicotomia una dicotomia unica. In questo modo lo spazio del pianoforte è interamente occupato da un'aura femminile-lirica, che risulta sublime proprio perché discontinua rispetto al tutto, dotata cioè di valore autonomo extratemporale, laddove l'orchestra, interamente "maschilizzata", fa solamente da appoggio al lirismo del pianoforte.
Facendo dunque un cenno finale alla concezione interpretativa generale di Gould non si può non rimarcare, come già abbiamo fatto, che gli elementi su cui Gould si basa e che egli sempre ricerca sono l’assenza di contrasto drammatico, la varietà armonica e la complessità contrappuntistica: a quest’ultimo elemento, tra l’altro, è da ricondurre anche la ben nota consuetudine gouldiana di eseguire gli accordi arpeggiati, anziché placcati, proprio per far intuire, in qualsiasi passo di qualsiasi composizione di qualsiasi epoca, le possibilità contrappuntistiche insite nella musica.19
E’ dunque a Bach che dobbiamo guardare come al baricentro dell’arte interpretativa gouldiana, giacché anche in Schoenberg, altro compositore da Gould molto amato, egli ricerca sempre la varietà armonica e il contrappunto, essendo in ultima istanza indifferente all’aspetto atonale e dodecafonico della sua musica. Il motivo dell’amore di Gould per Bach sembra affondare le sue radici in due fattori principali, apparentemente distanti tra loro, ma entrambi innegabili: da un lato c’è la congenialità immediata, data dall’amore per il contrappunto, per le modulazioni ricercate e per una continuità formale priva di fratture. Dall’altro lato c’è anche una congenialità più segreta e sfuggente: l’aspirazione alle celestiali altezze dello spirito, all’universale, all’astrattezza del timbro sonoro come simbolo vivente della purezza del pensiero. Che un aspetto della questione implichi sempre anche l’altro non è certo. Quello che è certo è che in Gould essi coincidono, sicché le caratteristiche formali da lui ricercate (contrappunto, varietà armonica, assenza di contrasti) vanno sempre nella direzione dell’astrazione, della spiritualità e dell’universalità.
Non è certamente un caso che la folgorante carriera pianistica di Gould abbia inizio con la sua incisione del 1956 delle Variazioni Goldberg di Bach. Nel 1982, poco prima di morire, Gould incide nuovamente quest’opera, interpretandola in maniera totalmente diversa. Con entrambe queste incisioni, anche se in direzioni differenti, Gould segna non solo una tappa nella sua evoluzione di pianista, ma anche una tappa nella storia dell’interpretazione. Mentre la prima incisione era rivoluzionaria perché rompeva con uno stile interpretativo tradizionalmente basato su una visione pedantesca della musica di Bach, la seconda incisione è altrettanto rivoluzionaria a motivo dell’astrattezza di pensiero, della vera e propria dimensione metafisica del suono raggiunta da Gould. Nel ‘56 era segno di innovativa effervescenza giovanile suonare Bach con brio quasi scanzonato; nell’’82 il punto di riferimento per tutti era già il Bach di Gould, sicché la lentezza e il rigore dei tempi presi dal pianista canadese vanno interpretati come una nuova, imprevista e imprevedibile rivoluzione. Nella seconda incisione emerge la filosofia di vita di Gould: l’uomo faccia a faccia con una natura immensa, sconfinata e viva, tranquilla, ma viva. Il raggiungimento della pace interiore viene visto da Gould come l’obbiettivo principale della musica, e questo obbiettivo viene reso in quest’incisione nella maniera più convinta e convincente.
Molti piani interpretativi si sovrappongono: il fatto che si tratti di un’opera assai familiare a Gould ne facilita la resa vieppiù informale dei temi e dei passaggi; la scelta della lentezza nei tempi va verso una omogeneità delle variazioni tra di loro, diventa collante della forma; infine la tensione melodica, caratteristica prettamente gouldiana, viene portata allo spasimo fino alle soglie dell’impossibile. Sembrerebbe trattarsi di un’opera diversa da quella suonata nel ‘56, e cioè si ha come la sensazione che quella musica sia cresciuta e maturata con Gould stesso. Sarebbe vano tentare un parallelismo puntuale tra le differenti scelte interpretative delle due edizioni, ma già all’interno dell’esecuzione dell’’82 si può rilevare uno sbalzo piuttosto evidente tra la scelta di tempo nell’enunciazione iniziale e in quella finale del tema: quasi un’ulteriore prova della flessibilità formale che contrassegna la padronanza delle Goldberg da parte di Gould. In chiusura infatti questo tema viene suonato da Gould, più ancora che nell'incipit, in cui fa durare questo brano ben 40 secondi di meno, con la paura di fare male, con il terrore di picchiare. Ne esce qualcosa che si alza verso il cielo e si volta di tanto in tanto a salutare, invece che il tono da camminata caparbia e un po' ostinata dell'inizio. Quaranta secondi, anche se la quantità non conta in fatto di interpretazione, ma solamente la qualità, sono sempre quaranta secondi e le ragioni di un simile divario agogico tra la prima e la seconda enunciazione del tema riflettono la meditazione interpretativa Gouldiana, in grado di far suonare in maniera volta a volta qualitativamente diversa uno stesso brano.
La scelta della lentezza, che pervade tutte le interpretazioni della maturità di Gould, ha spesso sull’ascoltatore un doppio effetto: un effetto di calma, che è l’effetto auspicato da Gould, ma anche un effetto di angoscia, dovuto al fatto che questa dilatazione dei tempi appare a tratti spasmodica. La lentezza dell’ultimo Gould, e nella fattispecie la lentezza della sua ultima versione delle Goldberg, pare motivata e motivabile solo da un immenso dolore trattenuto, mai espresso, ma affiorante a tratti sotto la tensione della linea melodica. Un dolore umano (senz’altro il dolore della solitudine) che cerca disperatamente di stemperarsi in una musica oggettiva e universale.
Se si pensa a questo dolore, ed al fatto che non molto tempo dopo l’incisione Gould morì (anche se non si tratta dell’ultima incisione) viene fatto di pensare che quella “pace autunnale”,20 di cui parlava Gould sul finire della sua carriera, e da lui indicata come una meta da raggiungere, fosse un presagio di morte, indice di una stanchezza di vivere che mascherava sé stessa ammantandosi di saggezza interpretativa. Che la quiete additata da Gould come oasi di contemplazione per l’ascoltatore non sia sempre positiva, è un dubbio che può affiorare anche guardando la vita privata del pianista canadese. La forzata reclusione, il rifiuto della luce del sole, la preclusione di qualsiasi contatto umano sembrano caratteristiche umane imprescindibili da una scelta di base ben precisa, quella dell’eremitaggio, che può forse venire spontanea a chi è a contatto con la sconfinata natura canadese, ma risulta sotto molti aspetti delirante per un ascoltatore che vive in un paese mediterraneo, il cui ritmo biologico è dunque solare, abituato al sovraffollamento e a una certa selvaggia allegria. A tal proposito, se mai si volesse condurre una ricerca sull’indice di gradimento delle incisioni di Gould, non ci sarebbe da stupirsi se esse fossero mediamente più gradite alle popolazioni del Nord che a quelle del Sud, e se le popolazioni mediterranee amassero più le incisioni giovanili (veloci e scanzonate) di quelle della maturità (lente e meditative). Sarebbe forse errato, quindi, parlare di quiete autunnale come presagio di morte, ma si potrebbe comunque affermare che quella quiete autunnale è foriera di angoscia, non solo -come sperava Gould- di tranquillità.
Per concludere, ancora qualche considerazione sulla idea, centrale per Gould, della morte del concerto-esaltazione e dell’avvento dell’era dell’incisione-contemplazione. Appare chiaro che, nonostante le tecniche di registrazione si facciano sempre più raffinate, l’interesse del pubblico verso la musica “seria” sembra aumentare, se è vero che ciò avviene, sulla base di concerti che incentrano l’attenzione dell’ascoltatore sulla figura del virtuoso-personaggio, il quale sempre più spesso scende a compromessi a volte davvero improponibili con la musica “leggera”. Il punto è: se Gould -come sembra- aveva torto nel preconizzare l’era dell’incisione, della musica come fatto intimo, e se invece l’interesse del pubblico viene catturato in modo sempre più esclusivo da manifestazioni dal vivo in cui non vale più nemmeno il paragone agonistico (del genere “riuscirà questa sera al tenore il do di petto?”), bisognerebbe forse preoccuparsi per una reale, tangibile diminuzione dell’interesse verso la musica, che va di pari in passo con l’aumentato interesse verso il virtuoso-showmen, amato anche oltre l’errore, oltre la stecca. Se non vale nemmeno più la legge ferrea dell’arena, se il virtuoso che stecca, invece che essere matato dal pubblico sadico -come rilevava Gould- viene bonariamente perdonato per il solo fatto (e fin tanto che) accetta di esibirsi nell’arena, siamo davvero scesi a un confine inaudito di volgarità che decreta la fine dell’interesse per la musica.


Roberto Barreca.
Bibliografia essenziale

Bernstein, Leonard, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York).

Gould, Glenn, “The Prospects of Recording”, in High Fidelity, Great Barrington, The Billboard Publishing Co., April 1966.

Gould, Glenn, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984).

Gould, Glenn, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard).

Gould, Glenn, Lettere, Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected Letters, 1992, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd).

Matheopoulos, Helena, Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra, Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena Matheopoulos, 1982).

Rattalino, Piero, Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti, Firenze, 1983.

Zurletti, Michelangelo, La direzione d’orchestra. Grandi direttori di ieri e di oggi, G. Ricordi & C. - Giunti Martello, 1985.
1 V. la “Premessa”, scritta da Monsaingeon, alla raccolta di interviste di Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), pp. 1-5.
2 L’avversione di Gould nei confronti di ogni forma di edonismo ha senz’altro connotazioni morali: “...un termine che nel mio vocabolario rappresenta il massimo dello spregiativo -...edonista”. (Gould, op. cit., p. 138).
3 V. p. es. ciò che Gould afferma a proposito di un direttore che la critica generalmente ritiene importante, ma certamente “minore” rispetto a Bernstein, George Szell: “Inizialmente Szell voleva registrare per la Epic perché, in un colpo solo, gli era possibile registrare, ad esempio, le nove Sinfonie di Beethoven, o un repertorio simile, che sarebbe stato in diretta competizione con quello che Bernstein e Ormandy volevano fare in quello stesso momento. Ora, nonostante Szell fosse un direttore d’orchestra ben più grande di quelli...i suoi dischi non si vendevano.” (Gould, op. cit., p. 130).
4 Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, cit., p. 144.
5 Ibidem.
6 Leonard Bernstein, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York), p. 133. V. anche Helena Matheopoulos, Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra, Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena Matheopoulos, 1982) dove Bernstein afferma che “dirigere... E’ un grande atto d’amore” (p. 27). Si noti che anche per Gould l’esecuzione musicale “è...una storia d’amore” (Gould, op. cit., p. 55), ma mentre per Bernstein la corrente amorosa unisce esecutore e pubblico, per Gould unisce esecutore e musica eseguita. In ciò sta la differenza nodale tra musica intesa come esaltazione e musica intesa come contemplazione.
7 Bernstein, op. cit., p. 132.
8 V. p. es. Glenn Gould, Lettere, Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected Letters, 1992, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd), pp. 30-33.
9 V. p. es. Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), pp. 27, 30 e 84.
10 Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 55.
11 Gould, op. cit., p. 150.
12 Il ragionamento sul ruolo dell’artista nella società e sulla mentalità puritana dell’Ontario anni ‘40 è dello stesso Gould (Gould, op. cit., p. 121).
13 Sul ruolo del tempo nel processo interpretativo v. Gould, op. cit., p. 153.
14 V. Glenn Gould, “The Prospects of Recording”, in High Fidelity, Great Barrington, The Billboard Publishing Co., April 1966, pp. 54-56, dove Gould critica i criteri di valutazione estetica improntati allo storicismo, giudicandoli ironicamente come espressione della “sindrome di Van Meegeren”.
15 V. p. es. Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 63.
16 V. p. es. Bernstein, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York), pp. 65-82, dove viene riprodotto il testo di una trasmissione televisiva del 14/11/1954. Brani di questa trasmissione si ritrovano anche all’interno della puntata del ciclo televisivo Bernstein dirige Beethoven dedicata alla Quinta sinfonia.
17 Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), p. 84.
18 V. Gould, L’ala del turbine intelligente, cit., pp. 131-135, dove l’Autore espone le motivazioni delle sue scelte interpretative per questo concerto.
19 V. Gould, op. cit., p. 76 sgg.

20 Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 157.

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