Altre divagazioni (2017)

Prologo

Questo scritto tratta delle sinfonie di Beethoven. Dato l'argomento, che è univoco (per quanto possa essere univoca la musica che per sua natura è intrecciata e molteplice), i capitoli sono uno solo. La lettura ne risentirà, probabilmente. Tutti amano le spezzettature in capitoli che danno la sensazione, finitone uno, di aver compiuto qualcosa. Invece io sottopongo il lettore ad uno sforzo frustrante. Ma tale è secondo me la conoscenza e l'arte, per cui non bisogna mai smettere di cercare, pertanto l'insoddisfazione ne è il motore principale. Se il lettore si sentisse sazio per aver terminato la lettura del primo capitolo, potrebbe non intraprendere mai la lettura del secondo, ritenendo di potersene andare in giro a vantarsi: "Ma io di quel libro ho pur letto un capitolo!" e la cosa finirebbe lì. La mia speranza è che, componendo un libro di un solo capitolo, chi ne intraprende la lettura la porti a termine.






Capitolo I: le sinfonie di Beethoven




Ritmo e melodia sono tra i parametri principali che fanno da guida a tipologie alternative di interpretazione delle sinfonie. Naturalmente si tratta di due estremi ideali, rispetto ai quali le varie interpretazioni effettive si situano lungo un continuum che va dall'uno all'altro.

Prendiamo ad esempio uno dei più bei rompicapi (ma quale non lo è?): il primo movimento della terza sinfonia. Avremo a un estremo il suono morbido, vellutato, ma anche profondo e carico di epos di Giulini con la Filarmonica della Scala, in cui si privilegia la componente melodica, ma con accento drammatico ed epico (diversa caratterizzazione interpretativa ha - per esempio - l'amore per il bel suono di Karajan); all'estremo opposto avremo colui che senza cedimenti fa della secca e precisa scansione ritmica la cifra delle sue interpretazioni: George Szell con la Cleveland Orchestra.

Nel mezzo, in tal caso, potremmo collocare una interpretazione in cui si esegue con virtuosismo la precisa scansione ritmica, ma nella quale le maglie ritmiche sono colorate di toni pregnanti e drammatici: Leonard Bernstein con i Wiener.

Ora, quanto sopra descritto a mo' di esempio per introdurre il discorso generale ci porta subito nel cuore di uno dei temi principali delle sinfonie: la loro natura di splendido rompicapo. 
Non solo ogni sinfonia di per sé e in modo differente l'una dall'altra, ma anche ogni singolo movimento di ognuna di esse rappresenta un rompicapo interpretativo ed ha natura propria oltre che far parte dell'organismo sinfonico. Prova ne sia il fatto che – con ogni evidenza – possiamo trovare un diverso campione (nel senso di interprete primo arrivato, migliore degli altri) per ogni singolo movimento di ogni sinfonia.

Occorrerà procedere quindi con ordine e descrivere tutti i movimenti di tutte le sinfonie, comparando tra loro le diverse interpretazioni, ma non solo: in ogni movimento vi sono dei momenti culminanti, cuciti tra loro da tessuto connettivo. Saranno quei momenti culminanti che andremo ad analizzare più approfonditamente paragonando le diverse interpretazioni. Vero è che anche tale concezione dei punti culminanti cuciti tra loro è già di per sé un tipo di interpretazione, mentre all'opposto troviamo chi cerca di far spiccare l'omogeneità della struttura sinfonica dando uniformità alla sinfonia stessa (su tutti, Bohm con i Wiener): e anche di tale approccio analizzeremo le conseguenze.

Anche la questione della forza e della potenza è importante e interessante. La potenza è situata nei dintorni del ritmo sull'asse parziale, immaginario e arbitrario melodia-ritmo (arbitrario, ma utile). 
Ora, dal numero complessivo di “tutti”, di passaggi repentini dal “piano” al “forte”, nonché di passaggi assai sottolineati da un'accesa scansione ritmica, non possiamo ignorare il fatto che la questione della potenza in Beethoven si ponga. 
Il rompicapo interpretativo in tal caso è: quanto dobbiamo accentuare la forza? Fino a farla divenire parossistica? O al contrario, essa va minimizzata per assorbirla nel concetto di armonia, proporzionalità, equilibrio, ecc...?

In senso lato, il rompicapo che si pone qui, come anche il precedente, presentato sopra, costituiscono parte di una quaestio alquanto vexata, se cioè accentuare i tratti romantici o quelli classici in Beethoven.

Si pensi per esempio all'incredibile finale dell'Ottava sinfonia: una delle più stupefacenti imperfezioni mai scritte da Beethoven. Qui troviamo, non limata come invece l'Autore fa al suo solito, ma lasciata allo stato grezzo, l'espressione (ma quanto volontaria?) di un parossismo ritmico e dinamico che rende questa coda imbarazzante. E pertanto, si tratta di un bellissimo rompicapo interpretativo. 
Non a caso si può ritenere verosimile la frase che pare sia stata pronunciata ad alta voce nei riguardi di Beethoven da qualcuno del pubblico, alla fine della prima rappresentazione dell'Ottava sinfonia: “Eccolo, è di nuovo senza idee!!!”. In tale frase sta tutto l'emblematico imbarazzo dell'ostensione della potenza senza una adeguata limatura all'interno dello spirito di sistema (o forma), cosa che invece Beethoven fa quasi sempre nelle altre sinfonie. 
E quindi qui che deve fare l'interprete? Lasciare andare a briglia sciolta la potenza o cercare, tramite accorgimenti agogici, dinamici, timbrici, fraseologici di farla rientrare in un disegno di maggiore armonia del tutto? 
Qui si hanno – non a caso – le soluzioni le più opposte tra i vari direttori d'orchestra. Prendiamo ad esempio Maazel e Karajan. 
Maazel sceglie, grazie anche a un andamento stretto e a un fraseggio asciutto e brillante, la strada dell'ignorare la sproporzione di questa coda e riesce mirabilmente a farla sembrare classica, depurandola dal parossismo. 
Karajan, specie nell'edizione a video, imbocca con la sua consueta decisione la strada opposta. Non solo lascia sprigionare il parossismo, ma lo accentua dandogli la connotazione dell'inaudita ferocia, gettando retrospettivamente sulla sinfonia (considerata una delle più leggere tra le sinfonie pari, quindi tra le più leggere in assoluto di Beethoven) una luce inquietante. 
Altre soluzioni costituiscono una via di mezzo. 
Bohm non ignora qui la potenza, ma essa è stata già fatta rientrare a monte, dal direttore, nello spirito di sistema tramite l'adozione di un andamento lento e ritmicamente ponderato. 
Bernstein sprigiona dalla coda la forza senza però darle la connotazione persecutoria di Karajan, nella convinzione che tutta la sinfonia possa reggersi sul paradigma della forza, quindi ignorandone volutamente gli squilibri e la sproporzione e cercando di considerare la sinfonia stessa come stilisticamente unitaria, cosa che invece in tutta evidenza non è.

Il primo movimento della terza richiama l'epos. Ma è epos narrato (Abbado, Giulini) o vissuto in diretta (Bernstein, Karajan)? Dovrebbe essere enfatizzato uno stato febbrile che funge da collante ad un continuo contrattempo ritmico, ma che alla lunga disturba, oppure al contrario dovrebbe essere minimizzato? Lo sviluppo sviluppa l'epos, ma non possiamo liberarci dell'imbarazzante inizio, scarno e ruvido. Bohm, dicevamo, omogeneizza tutto tramite un andamento lento, Giulini rende morbido l'incipit non staccando troppo le note ritmate e rendendo l'attacco dei suoni morbido,  anziché duro. Karajan enfatizza il dinamismo ritmico unitamente alla potenza del suono (molta escursione dinamica), Abbado sceglie un andamento veloce per evitare di sottolineare troppo quell'inizio così duro. A mio avviso qui il risultato migliore lo raggiunge Szell che – come Bernstein e i direttori d'oltreoceano in generale - non minimizza la componente ritmica, ma soprattutto sceglie l'andamento giusto, né troppo lento (Bohm e prima di lui Furtwangler, e poi Giulini), né troppo veloce (Abbado, Maazel). Non si preoccupa di trovare un'espressività che non c'è in quell'inizio (come tenta di fare Bernstein), trova omogeneità in questo modo tra esposizione e sviluppo (non così Abbado, per il quale l'epos si sviluppa solo nel cuore del brano). Il campione qui è Szell.

Se Giulini dà suono all'epos narrato nel primo movimento della terza, ancor più drammatico ed interiore è il suo secondo movimento. La pregnanza drammatica della marcia funebre è tra le migliori vette raggiunte, al pari suo stando solo Abbado e pochi altri. Qui in Giulini vi è il gusto per la storia, mentre in Abbado la marcia assume toni ancora più intimi e lirici. Come se con Giulini leggessimo la narrazione  di una storia collettiva e in Abbado stessimo ricordando qualcosa di individuale associato a quella storia collettiva.

Secondo movimento della settima. Karajan è l'unico a suonare il tema principale quasi legato. Con le appoggiature doppie in battere (come tutti, tranne Abbado e – in parte sì, in parte no - Karlos Kleiber), ma non troppo strette. In realtà, qui la questione delle doppie appoggiature del tema melodico principale è di cruciale importanza. Nessuno le esegue correttamente. La prima nota dell'appoggiatura dev'essere senz'altro in battere, mentre la terza nota deve cadere esattamente sul secondo quarto del battere (non più o meno sul terzo, come fa Karajan, né più o meno a caso, come fanno molti). Sia pure l'accento sull'ultima nota di tale appoggiatura, purché venga rispettata la suesposta partizione. L'effetto sarà poetico. Occorre chiedersi infatti perché le ha fatte tali doppie appoggiature, Beethoven: e la risposta non può che essere “per rompere la monotonia del legato e del ritmo, rendendo febbrile una melodia altrimenti fiacca”.
Comunque, tornando all'interpretazione di questo movimento, per Karajan tutto deve scorrere e l'obiettivo è lo sprofondamento wagneriano dell'ascoltatore. Non è un languore inquieto, ma una dolcezza avvolgente. Anche qui, come sempre, c'è il sospetto della verità negata in nome dell'edonismo. Ma questo è Karajan: che la musica sia anzitutto espressione di piacere e di potenza, le colonne della perfezione, unitamente al fascino e al senso di mistero (non già alla chiarezza).

Parte centrale del primo movimento della IX (grande rullo di timpani). Il lungo rullo di timpani contro il quale si schianta ripetutamente il tema è parte principale, non accompagnamento, rispetto agli altri strumenti che suonano contemporaneamente al rullo stesso. E' l'equivalente – nella nona – della tempesta della sesta. Così Karajan (al più alto grado), così Abbado (a sprazzi); non così Szell, né Bohm. Per questi ultimi, il tema, suonato dagli altri strumenti, è più chiaro, ma il rullo, così in sottofondo, perde ragion d'essere. Per Karajan invece esso è il momento culminante dell'intero movimento, così come per Bernstein lo è la coda, nella quale egli resta  insuperato.

In generale, e in modo avvincente nella nona, per Abbado la chiave interpretativa è il canto. Nell'ultimo movimento della nona, egli ne celebra l'apoteosi. Già l'incipit – pur strumentale – è travolgente (più veloce, tra l'altro, di tutti gli altri), probabilmente perché Abbado ha – giustamente – in mente i tempi e gli stili dell'opera, con le sue introduzioni strumentali, i cambi di scena repentini, i dispositivi retorici). Il protagonista, qui è il coro, seguito dai solisti, tutti di livello incomparabile. La metafora è una serie di balconate che si aprono verso l'alto, una poesia che si apre come una spirale ascendente, in cui protagonista è la voce nella sua bellezza. Pure il finale è memorabile, sebbene Abbado non forzi appieno l'espressività del finale strumentale. Laddove finisce il coro, si dovrebbe percepire un collasso o un'esplosione, a partire dalla quale la musica strumentale riprende il sopravvento e travolge la scena, ma Abbado tiene troppo a quel coro e a quelle voci per forzare ai suoi estremi limiti tale stacco strumentale del finale.

La prima sinfonia diretta da Giulini. Ovvero, si potrebbe dire, il ritmo non esiste. Come tutto sia risolto in morbidezza di toni e bellezza di timbri. Quel fastidio alle orecchie che avvertì alla prima esecuzione un critico musicale dell'epoca, non avrebbe avuto luogo, se a dirigerla fosse stato Giulini. Bene o male? Bello, sicuramente affascinante. Anzitutto in questa prima si sentono echi del melodramma mozartiano, che in moltissime altre esecuzioni non si sentono. E ci sovviene di quell'immenso Don Giovanni che segnò l'apice della qualità discografica di Giulini.

Certo, un simile approccio (di Giulini) nostra alcuni limiti in diverse circostanze. Si prenda ad esempio la seconda. Il primo movimento, che pure dovrebbe stagliarsi su di una scansione ritmica fluida, ma imponente, viene diluito ritmicamente. E' vero che ne risulta magnificamente valorizzato il secondo movimento, che di un simile approccio si giova, ma perché forcludere il ritmo dalla dimensione musicale dell'umano? La domanda rimane.

Può darsi che Giulini escluda l'espressione della forza, quando questa non è tipizzata all'interno di una caratterizzazione scenico-operistica, come nel Don Giovanni. A tal proposito, quale esempio tra i più belli di una forza caratterizzata scenicamente che Giulini sa sprigionare eccome, si può citare anche la sola aria “Fin ch'han dal vino”, il cui strettissimo finale, con la sua geniale accelerazione maniacale, assurge a vertice di sublime bellezza, unita a potenza (simbolo in carne della follia di Don Giovanni). In tal caso potremmo reinterpretare le interpretazioni sinfoniche di Giulini come marcate da una direttrice di senso di carattere operistico: egli trasporrebbe, cioè nella musica sinfonica solo e soltanto quanto in essa possiamo trovare del mondo estetico operistico. Non potrebbe spiegarsi altrimenti il fluire armonioso e melodicamente inarrivabile dell'ultimo movimento della stessa seconda diretta da Giulini (in cui parte indimenticabile, affettuosa e densa di memoria hanno i legni e in particolare il fagotto), dopo un così poco brillante primo movimento della stessa sinfonia. 
Un ulteriore esempio in tal senso è dato dall'ottava, il cui primo movimento diretto da Giulini non convince, perché Giulini spezza il binomio tra centralità della forma (sonata) e insistenza parossistico-paranoica che Beethoven dà a questo movimento. Il secondo movimento, che Bernstein ricorda essere stato chiamato “brano da vacanze”, acquista invece nell'interpretazione di Giulini un'importanza centrale, cui soccorrono echi operistici non solo buffi, ma anche densi di malinconia e persino drammatici. La scena, con i suoi colpi di scena, la caratterizzazione delle melodie e dei timbri dominano nelle scelte interpretative di Giulini, rispetto alla centralità della forma sonata, alla quale invece egli non concede sostenuta importanza, ma che tende a lasciar scorrere fingendo di ignorarne la precisa logica avvocatesca che Jankelevitch così bene descrisse a proposito di (certo) Beethoven (segnatamente, quello selle sinfonie).

Il fugato dell'ultimo movimento della nona. I dubbi sul rompicapo dei fugati di Beethoven (anche quello della quinta, per esempio): sembrano chiusi, statici. Allora quale chiave aprirà la porta? Farlo febbrile, quasi scomodo? Sì, ma porta a un vicolo cieco. Renderlo freddo, terrificante? Sì, ma quale Deus ex machina si autolimita, restando in un vicolo chiuso? Preferisco le interpretazioni che fanno appello alla componente umana. Dato che la chiusura, il limite fanno pure parte dell'uomo. Allora, secondo tale direttrice interpretativa, qui fanno bene bene Abbado, Giulini. Meno bene tutti gli altri, Karajan in testa.

Vengo ora alla questione dei grandi in mono. Le registrazioni in mono delle sinfonie di Beethoven, dirette da artisti pur immensi, del calibro di Furtwangler, non vengono qui commentate. Non si tratta di forclusione o delirio parziale: la ragione è nel suono. Così come posso solo arguire la bellezza dei colori di un dipinto da una sua raffigurazione fotografica gualcita e in bianco e nero, allo stesso modo posso solo immaginare le sublimi bellezze del dettaglio di ogni passo delle interpretazioni delle sinfonie beethoveniane di Furtwangler, Toscanini, Walter e altri, ma non posso averne la certificata, bramata prova reale. Certo non saranno da disprezzare, ma si tratta di reperti archeologici che non possono competere con realizzazioni di piena bellezza sonora (la musica è anche suono, così come l'amore è anche piacere della carne), come quelle dei direttori dell'epoca della stereofonia (cito tra le più belle dal punto di vista sonoro, non solo Karajan e Abbado, ma anche Giulini).

Tra le polarità importanti, mi piace ricordare qui quella tra romanticismo e illuminismo dell'interpretazione. Prima però devo premettere che il ragionare per polarità opposte lungo un continuum ideale non significa creare ad arte antinomie inconsistenti, ma bensì seguire la disciplina fondamentale del metodo filosofico che impone per ogni aspetto, di trovarne le estreme conseguenze, da un lato e dall'altro, e i pro e i contra correlati.

Tornando alle due polarità indicate, possiamo individuare in Karajan il campione del romanticismo e in Bohm quello dell'illuminismo (alcuni preferiscono il termine classicismo, al quale manca però il connotato fondamentale della priorità data alla chiarezza interpretativa). Per esempio: nella sezione B del secondo indimenticabile movimento della patetica di Ciaikovsky, Karajan, con l'ausilio del suo voluttuoso legato, sposta continuamente gli accenti ritmici e le dinamiche dei crescendo e diminuendo della bella melodia, alterando il fraseggio canonico (già di per sé reso difficile dal ritmo in cinque), per far sì che la melodia sprigioni tutto il suo fascino (il problema è che senza il testo davanti, non se ne capisce il ritmo, che pure conta, data la quantità di accenti messa dall'Autore). Karajan non chiarisce il ritmo e il fraseggio è reso altresì asimmetrico. Tutto al contrario Bohm il quale – ad esempio – nel secondo movimento della quarta di Beethoven, sempre all'insegna della chiarezza illuministica innanzitutto, fa udire (unico tra tutti) assolutamente tutte le note, anche il contrappunto dei secondi violini alla bella, difficile melodia principale, fornendole un senso (che altri faticano a trovare) proprio in quell'accompagnamento che si intreccia con la linea principale. A volte, in musica, è bene confondere, romanticamente, badando all'effetto avvolgente, altre volte è bene che tutti i dettagli, illuministicamente, emergano e che tutto sia chiaro, ritmicamente, melodicamente e armonicamente, al punto da poter riprodurre la partitura ascoltando l'esecuzione del brano.

Un'altra antinomia, o meglio polarizzazione (non artificiosa, ma pulsante e posta lungo un continuum, come di consueto) è quella tra retorica e antiretorica. Tra i campioni delle esecuzioni retoriche (id est lente e pesanti) possiamo annoverare Furtwangler e Bohm (ma anche Giulini, e solo per citare i più recenti, o meno antichi tra gli interpreti). Agli antipodi vi è una serie di direttori, tra i quali spicca Maazel. Esemplare in tal senso è la sua interpretazione della prima sinfonia, in particolare del primo movimento. Così come Zurletti ricorda che Giulini adotta tempi mediamente più lenti degli altri, ma che in tale lentezza si sentono cose che altri non fanno sentire (io estenderei il complimento a Bohm), di Maazel si potrebbe dire lo stesso per la velocità, l'andamento asciutto. Maazel ricerca due cose fondamentalmente: il virtuosismo orchestrale della sua Cleveland Orchestra (tale è il primo motivo della velocità mediamente più elevata nelle sue scelte di andamento in quasi tutti i brani) e l'eleganza, o leggerezza, o evitamento della retorica. Maazel tiene a non far dire a Beethoven ciò che è tutto da dimostrare che Beethoven volesse dire. Rifiuta la profondità, o meglio una supposta idea di profondità. Riduce l'interpretazione al minimo comune denominatore di una prassi esecutiva brillante (analoga impressione abbiamo in certi casi in Barenboim), ma ciò è tutt'altro che un'affermazione dispregiativa. In tale riduzione, Maazel ritrova la grandezza. Il problema, semmai, in Maazel, è il ferreo rigore logico con cui persegue tale obiettivo. In taluni passi di molti brani si avvertirebbe cioè il bisogno – nelle sue interpretazioni – di un maggiore lasciarsi andare, a parità di rifiuto della retorica. Se si perdona l'orrenda metafora, a volte il rasoio di Occam, se troppo affilato, può portare via anche un pezzo di guancia, oltre alla barba.

Come dicevamo Maazel evita la profondità artificiosa, ma gli fa difetto il lirismo nel senso che questo difetto gli è stato imputato in molte registrazioni ed esecuzioni pubbliche, come se si trattasse di freddezza.
Certo una cosa è evitare la profondità artificiosa e un'altra è evitare il lirismo.
Colui a cui non fa difetto il lirismo è senz'altro Muti. Ne è un esempio la sinfonia numero nove, in particolare il terzo movimento.
Qui viene espresso tutto il lirismo e si arriva là dove non arrivano altri.
Occorre anzitutto distinguere tra retorica tardo romantica, come in Furtwangler, in cui predomina il misticismo, e lirismo italiano: qui il riferimento è il belcanto.

Semplificando, potremmo definire in modo differente uno stile di belcanto per i tre direttori italiani che pure ne sono i rappresentanti.
Così, potremmo definire lo stile di Muti come contrassegnato dal lirismo, quello di Abbado come contrassegnato dalla poeticità e infine quello di Giulini come contrassegnato dall'epica.
Venendo al terzo movimento della nona, nell'interpretazione di Muti si sente l'apertura lirica che manca in altre interpretazioni. Ad esempio in Bernstein non si coglie la scansione ritmica, mentre invece in Szell e Stokovsky la scansione ritmica è così marcata e predominante da annientare il lirismo. In Muti invece si ha quell'apertura melodica che è necessaria per la resa di questo celebre brano.
Il problema con i direttori che afferiscono all'area del belcanto si pone generalmente di fronte all'elemento ritmico, inteso non solamente come scansione, ma anche come espressione della potenza. In tali casi i direttori italiani difettano un po' di potenza. Per esempio anche Muti che pure tra i direttori che afferiscono all'estetica del belcanto è il più marcato ritmicamente, nel secondo movimento della nona in alcuni passi stiracchia un po' i suoni, in una maniera che può apparire vieppiù inspiegabile. Per quanto riguarda la dilatazione dei tempi, il maestro, non solo in senso positivo, è Giulini. Le sue celebri versioni delle nove sinfonie di Beethoven, così come delle quattro di Brahms, sono senz'altro epiche, profonde, ma possono apparire prive del nerbo necessario in brani in cui l'elemento ritmico è talmente presente da non potersi ignorare una qualche implicazione con la potenza.
Per quanto riguarda Maazel vi sono due direttrici di senso, la prima riguarda la leggerezza e la seconda riguarda il virtuosismo.
In Giulini invece vi è il rifiuto del virtuosismo orchestrale unito a una certa dose di pesantezza, quale si ritrova solamente in direttori della primissima generazione, ma dei quali comunque è un esponente anche Bohm, che pure ha operato nel dopoguerra fino agli anni ’80 del XX secolo.
È importante rilevare come diversi fattori attinenti a diversi stili direttoriali si ritrovino per così dire in vantaggio o in svantaggio a seconda del brano eseguito e come all'interno di una stessa sinfonia diversi brani siano interpretati meglio da diversi direttori senza che un direttore riesca a prevalere su di un altro o su tutti gli altri per l'intera sinfonia.
Ciò significa che le direttrici di senso o meglio le poetiche direttoriali costituiscono delle chiavi interpretative non sempre valide in modo generale per un'opera intiera, ma bensì solamente per brani di essa o frammenti, passaggi, istanti.
Tale ragionamento risulta molto importante per definire un'impossibilità di fatto nello stabilire una prevalenza univoca e certa di un direttore su altri direttori per quanto riguarda l'interpretazione di un autore o di un'opera o di un brano.
Può darsi che non si tratti di un'impossibilità ontologica, ma le conseguenze pratiche sono simili a quelle previste da Umberto Eco e riprese da Zurletti, relative all'opera d'arte aperta.
È molto importante sottolineare come queste caratteristiche sopra descritte non costituiscano in nessun modo giudizi di valore. Si tratta di indagini fenomenologiche di carattere estetologico volte a individuare dei principi estetici per l'interpretazione musicale.
Da quanto sopra esposto si può evincere infatti che non esiste un campione assoluto per una sinfonia, ma che bisogna accontentarsi di alcuni sotto-campioni per ciascun brano e per ciascun passo di ogni sinfonia. Con questo naturalmente non si vuole sminuire la grandezza di alcuni interpreti in alcune loro clamorose esecuzioni. Restano indimenticabili, a titolo meramente esemplificativo, le interpretazioni della terza di Bernstein e della sesta di Karajan, Ma ciò che preme sottolineare qui è il fatto che sarebbe riduttivo cercare di definire il più grande interprete per ogni sinfonia o più ancora per tutte le sinfonie.
Certo, si potrà cercare di nominare il ciclo sinfonico preferito, ma si tratta di un gioco accademico che lascia il tempo che trova, se non supportato da minuziose e puntuali descrizioni e da non meno puntuali riferimenti ai brani, ai passi e ai punti topici di ogni brano.
Come dicevamo, l'essenza dell'interpretazione andrà trovata di volta in volta, senza pretese assolutizzanti perché nessuno possiede il passe-partout, ma molti sembrano possedere un frammento di chiave che, unito a quello degli altri, può creare la chiave intiera.
Come mostrato nelle precedenti descrizioni non esiste un indicatore univoco della corretta interpretazione senza prima aver chiarito l'estetica del brano.
Un altro elemento molto importante è il piacere del suono. Questo si può ritrovare in misura maggiore o minore nei diversi direttori. Non ci riferiamo alla cura dei dettagli sonori o alla precisione dell'intonazione che diamo per scontate in orchestre di una certa qualità, ma bensì ci riferiamo alla voluttà sonora.
Vi sono direttori con maggiore o minore attitudine a questa qualità. Tra quelli con maggiore attitudine possiamo citare tranquillamente Herbert von Karajan. Ma anche Muti, Giulini, Abbado (meno Bernstein, per il quale il parametro sonoro preferito è il colore, più che la bellezza in sé). In alcuni direttori, tipicamente quelli italiani, la bellezza del suono sembra andare in direzione contraria rispetto all'espressione della potenza. In altri direttori invece, come Herbert von Karajan, viene coniugata la potenza sonora con il piacere del suono.
Occorre ora spendere due parole sulla citata differenza tra lirismo e poeticità che caratterizzerebbero i due differenti stili interpretativi di Muti e Abbado. Nel ribadire che non viene effettuato nessun giudizio di valore, bisogna far ricorso al concetto di sublime come visione dall'alto che caratterizzerebbe maggiormente l'interpretazione di Abbado rispetto a quella di Muti, nella quale l'aspetto melodico assumerebbe un carattere maggiormente sanguigno e pertanto si rifarebbe in maniera più diretta al bel canto dal punto di vista del cantante. Esempi di una tale differenza tra i due stili si possono rinvenire per esempio nella melodia dell'ouverture del Macbeth verdiano di Abbado, nel finale della quarta sinfonia di Brahms diretta da Abbado, in cui la parte melodica assume un aspetto sublime inteso come visto dall'alto e non vissuto in presa diretta. Esempi di caratterizzazione melodica vissuta in presa diretta da parte di Muti sarebbero invece l'inizio della seconda di Brahms, ma anche il terzo movimento della nona di Beethoven. Qui il lirismo viene incontrato mentre si vive e non è una immagine struggente di un momento passato.
Come si spiegava, la capacità di Karajan di coniugare potenza e bel suono è unica in quanto in altri direttori il bel suono va a scapito della potenza e viceversa. Per esempio in in Georg Szell, non si ha un suono piacevole, ma molto secco.

Per quanto riguarda Maazel, la sua interpretazione del primo movimento della prima sinfonia è senz'altro la migliore. Ciò che Maazel riesce a suggerire con la sua interpretazione è che si tratta di un'altalena, di un gioco. Vi è il bel suono, vi è la leggerezza. Altri direttori non riescono a rendere questo aspetto fondamentale della prima sinfonia.
Il problema del piacere, in contrapposizione alla forza è in realtà un falso problema. In realtà essi si trovano lungo un continuum, in posizioni diametralmente opposte, ma in una realtà multidimensionale come la musica essi possono anche coincidere. È il caso per esempio dell'arte di Herbert von Karajan il quale è riuscito a ottenere un impasto tra la potenza e il piacere del bel suono. Non è l'unico, ovviamente, ad essere riuscito ad effettuare una sintesi di questo genere, ma è colui che vi è riuscito in misura maggiore. Trattasi, di fatto, di una sua precisa cifra stilistica. In effetti il carattere di modernità e classicità insieme dell'arte di Herbert von Karajan deriva da questa sintesi che, inoltre, rende le sue interpretazioni estremamente appetibili al grande pubblico. Non è un caso se, tutto sommato, il suo nome è associato alla fama di più grande direttore d'orchestra di tutti i tempi. A lungo, negli anni ‘80, si è discettato, da parte dei critici, sul fatto che tale fama fosse meritata o meno. Era l'epoca in cui la figura del grande direttore contava veramente molto nell'opinione pubblica che vedeva come molto importante la figura del migliore, del primo, ed anche del leader illuminato. Pertanto, anche la contrapposizione tra Herbert von Karajan e Leonard Bernstein aveva una sua ragion d'essere ben precisa in questa concezione del mondo di allora che venne a svanire dopo la caduta del muro di Berlino e, quasi, in concomitanza con la morte dell'uno e, a breve distanza di tempo, con quella dell'altro: era finita un'epoca. Queste considerazioni al giorno d'oggi potrebbero essere considerate inattuali. Si parlò, negli anni ‘90, della crisi del principio di autorità, come a giustificare un progressivo venir meno dell'interesse per la questione dei grandi direttori, e cioè di chi lo fosse, perché e in che modo. In realtà fu forse solamente la crisi economica a far passare in secondo piano o meglio a far perdere la fiducia nel trionfo del migliore, in quanto, per la verità, come dimostrò la storia mondiale di quegli anni fino ad oggi, il principio di autorità sembra godere ancora adesso di ottima salute.
Abbiamo parlato del binomio piacere potenza come se si trattasse di due polarità che si trovano agli estremi opposti lungo un continuum. Ovviamente, proseguendo la metafora visiva, potremmo rilevare altre polarità. Un fattore molto importante, in base al quale si può misurare una interpretazione, è costituito dal fraseggio. Per tale parametro prenderei a modello Claudio Abbado in quanto le sue interpretazioni si segnalano per una estrema accuratezza nel fraseggio e per la capacità di coniugare tale accuratezza del fraseggio con una capacità poetica che lo toglie dal novero dei direttori abili soprattutto e perlopiù nella concertazione e lo immette direttamente nell'empireo di quei direttori che si segnalano per la genialità e profondità delle loro interpretazioni. Questa è un'altra polarità: da un lato abbiamo una capacità di curare il dettaglio della perfezione nell'esecuzione orchestrale e dall'altra abbiamo la capacità di andare al cuore dell'interpretazione musicale e di identificarsi con la cifra poetica del brano eseguito. È chiaro anche in questo caso come non si tratti di due polarità contrapposte, ma di due polarità che si trovano lungo un continuum. Vi è una certa costante nel verificare che un direttore, ciascun direttore, appartiene più a una polarità piuttosto che all'altra. Nel novero dei direttori che si segnalano per la loro capacità di concertare metterei senz'altro Riccardo Muti, Lorin Maazel, Karl Bohm, mentre nel novero dei grandi interpreti, senza che tale distinzione comporti alcun giudizio di valore, metterei Leonard Bernstein, William furtwangler e, a metà lungo questo continuum, metterei direttori che hanno entrambe queste capacità sviluppate in eguale misura, tra questi segnatamente Herbert von Karajan. È difficile, senz'altro, scalzare l'impressione di una estrema artificiosità di tali distinzioni, ma se, anziché vederle come caratteristiche statiche e univoche, prendiamo tali distinzioni e definizioni come ingredienti di ciascun direttore, ossia qualità intrinseche che essi possiedono in un impasto volta a volta diverso, allora tali definizioni e distinzioni assumono un significato perfettamente comprensibile e utile in vista di una disamina estetica del loro stile direttoriale.
Un'altra direttrice di senso attraverso la quale si snoda l'espressione della poetica e dell'estetica di ciascun interprete direttore d'orchestra nei confronti dei brani che esegue è quella dell'andamento. L'andamento, tecnicamente agogica, banalmente il tempo che viene preso per ciascun brano e gli scostamenti da esso all'interno del brano a cura del direttore, influisce inevitabilmente sull'estetica del brano e dell'interpretazione stessa. In altre parole, nessun brano sarà uguale a se stesso, se eseguito a una velocità diversa.
Oggi ho letto un articolo di Paolo Isotta, in cui si parlava male di Abbado e bene di Riccardo Muti. Il punto non è se sia valido o meno come giudizio di valore, ma bensì il fatto che tale giudizio non sia stato motivato. Il critico musicale, se vuole porsi come musicologo, cioè come storico e filosofo dell'estetica e della musica, deve porsi su di un piano superiore rispetto ai meri giudizi di valore non motivati.
Vi possono essere decine, se non centinaia di esempi di interpretazioni di Abbado più o meno riuscite rispetto a interpretazioni di altri direttori a loro volta più o meno riuscite, ma dobbiamo riuscire nel commentarli a estrinsecare le ragioni estetiche poetiche e di struttura del brano, nonché riferite allo stile esecutivo e alla concezione interpretativa del dato brano in merito agli elementi del fraseggio, del suono, della dinamica, dell'agogica, dell’andamento, della concezione dell'armonia, della scansione ritmica, della forza o della dolcezza o di entrambe, ecc… ecc…, tali per cui un’interpretazione sarebbe meglio di un’altra per quel determinato passo, brano o opera complessiva.
Senza tali estrinsecazioni, ogni giudizio non avrà alcun valore filosofico, né di testimonianza storica. Altro sarebbe, infatti, cercare di esprimere le emozioni estetiche o financo psicologiche che motivano un tal giudizio o un tale altro. Ma senza riferimenti musicali, filosofici o psicologici, ogni giudizio di valore perde il suo valore. Esercitando la critica musicale senza spiegazioni del proprio giudizio, si degrada tale disciplina a livello della più bassa diatriba pseudo-politica. Non vi è nessuna ragione per giustificare un simile atteggiamento, né, tantomeno per leggere tali critiche immotivate, ché meglio si impiegherebbe il proprio tempo ad ascoltare le esecuzioni tanto criticate. Perciò, pur provando la massima curiosità nei confronti degli scritti, soprattutto passati, di Paolo Isotta, non ritengo giusta la liquidazione di un grande direttore, forse il più grande dei direttori italiani del secondo dopoguerra e forse nella top five dei più grandi direttori di tutti i tempi, solo perché… appunto, perché? Forse perché non era napoletano come Muti e Isotta? O forse perché non era di destra, ma bensì una bandiera della sinistra? È qui il punto. Occorre svincolarsi da un giudizio politico quando si parla di musica. E qui mi viene in mente un film, pur bello, su Furtwangler, che obbliga a porsi la domanda sull'indipendenza dell'arte e della musica dalla politica, sulle pretese manipolatorie della politica nei confronti della musica, ma anche su quella che si rivela essere una pia illusione da parte del musicista e cioè che tramite la sua arte e solo tramite essa egli possa ritenersi e dimostrarsi superiore alla politica. Di fatto, non basta, come pensava Furtwangler, esprimere grandi sentimenti tramite la propria arte, se ciò significa ignorare la barbarie della realtà. Nel caso di specie, egli avrebbe potuto espatriare come fecero molti suoi colleghi. E tale è la conclusione cui giunge il film. D'altro canto, è vero che noi non possiamo giudicare né l'artista né l'uomo. L'uno non possiamo giudicarlo perché non siamo grandi artisticamente come lui. L'altro non possiamo parimenti giudicarlo perché non ci troviamo nella condizione storica, politica, sociale e geografica in cui egli si trovò drammaticamente a vivere. Pertanto, occorre sospendere il giudizio sull'uomo e analizzare l'operato dell'artista. È così per tutti i musicisti e per tutti filosofi. La loro opera artistica o teorica vale di più del loro operato come uomini. Ciò non significa che essi siano superiori o immuni da colpe, ne che ci si debba esimere da un giudizio storico e umano, ma bensì che tale giudizio storico e umano non è collegato al giudizio estetico e non deve influenzarlo. Quando ascolto il primo movimento della prima sinfonia di Beethoven, non so se è stato diretto in un luogo o in tempo piuttosto che in un altro perché il luogo e il tempo di quel brano si trovano nel brano stesso e l'interprete che io ascolto sta cercando di entrare in quel luogo e in quel tempo, intesi quelli del brano, non quelli dai quali sta dirigendo. Rovesciare tale prospettiva sarebbe come negare validità ed autonomia al vertice osservativo estetico. Sarebbe negare la filosofia della musica, la musicologia, l’estetica musicale, la critica musicale e via discorrendo.
Il discorso appena fatto è molto importante. In questo senso la disamina delle nove sinfonie di Beethoven e delle loro interpretazioni costituisce una sorta di palestra tra le più privilegiate per cogliere la poetica e l'estetica interpretativa di ciascun direttore. Tale disamina prevede una fondazione di tipo filosofico di principi estetici che governano il clima generale dei vari brani e ogni singolo passo delle sinfonie stesse, prima di poter non solo emettere giudizi di valore sulle singole interpretazioni dei vari direttori, ma anche di poter emettere un giudizio qualsivoglia sul loro stile direttoriale. Pertanto qualsiasi conclusione affrettata in merito al valore più o meno grande di un direttore è completamente destituita di fondamento ed in particolare manca di qualsiasi senso. Tale discorso preliminare fatto qui sopra costituisce la distinzione fondante tra giornalismo spicciolo e filosofia dell'estetica. Pertanto, quando parleremo delle singole interpretazioni dei singoli brani dei singoli direttori, in generale e perlopiù eviteremo giudizi di valore ed effettueremo ragionamenti fondati sulla logica estetica. Tale prospettiva è il vertice osservativo privilegiato da cui partire e a cui tendere. Ciò non significa non poter distinguere qualitativamente direttore e direttore. Anzi, la possibilità comparativa costituisce l'esercizio privilegiato di tale disamina filosofica, ma lo è in relazione alla analisi estetica del brano, del passo, dell'autore. Pertanto gli elementi in gioco, cioè quelli descritti, saranno dal lato dell'oggetto il mondo estetico evocato, inteso in tutte le sue sfumature e per l'approssimazione al centro raggiunta o meno dall'interprete, mentre dal lato del soggetto i parametri di valutazione saranno relativi agli strumenti utilizzati per raggiungere quel centro poetico, e tali strumenti sono il suono, il fraseggio, la dinamica, l’agogica, il ritmo, la forza, ecc…
Se dovessimo fornire un giudizio complessivo sui vari cicli delle nove sinfonie di Beethoven ovviamente avremmo un certo imbarazzo a definire quello che potrebbe essere il campione. Tuttavia, mi sento di poter dire che il ciclo di Lorin Maazel è il mio preferito. Il motivo risiede proprio nel fatto che, come abbiamo anche citato sopra, Maazel riesce ad eliminare completamente l'alone retorico di pesantezza che a volte si rileva nelle interpretazioni delle nove sinfonie di Beethoven. Se prendiamo nuovamente ad esempio il primo movimento della prima sinfonia, possiamo notare come l'esposizione, nell'interpretazione di Maazel, sia senz'altro la migliore (abbiamo come riferimento i cicli di Herbert von Karajan, Leonard Bernstein, Eugen Jochum, Carlo Maria Giulini, Karl Bohm, Georg Szell, Claudio Abbado e altri). Vero è che la dimensione del gioco così ben espressa nell'esposizione trova un riscontro più fiacco nello sviluppo in cui nell'interpretazione di Maazel viene a mancare l'elemento drammatico interno alla sorpresa e la sorpresa stessa perde molto effetto.
In attesa di riprendere il discorso più avanti, notiamo qui come il fatto di avere completato l'intero ciclo delle sinfonie costituisca da parte di questi direttori e degli altri che lo hanno fatto una scelta programmatica importante che deve essere valorizzata e di cui bisogna tenere conto nel fornire un giudizio complessivo sulla qualità artistica delle loro interpretazione delle sinfonie di Beethoven. Con questo naturalmente non voglio dire che altri direttori, pur grandissimi, che non hanno fornito l'intera mole delle sinfonie di Beethoven nell'arco della loro carriera siano da meno, ma solamente che tale scelta selettiva, se pure risponde a un'umana preferenza unita a fattori pratici di gestione del proprio tempo e del proprio lavoro, non è giustificata se non viene sanata nel corso degli anni (almeno come tentativo) e se non vengono quindi completate tutte e nove le sinfonie da parte del direttore che le interpreta. Se Celibidache, per esempio, o Sinopoli (quest'ultimo però scomparso prematuramente) che sono direttori grandissimi non hanno fornito l'interpretazione dell'intero ciclo delle sinfonie di Beethoven, (tra i viventi citiamo anche Zubin Mehta), ciò non va ascritto a loro merito, ma va considerato piuttosto un limite che non sono riusciti a valicare. Ciò perché l'idea complessiva delle sinfonie di Beethoven deve trovare riscontro in prove complessive quali possono essere l'esecuzione pubblica o l'incisione. Non dubitiamo che valga anche l'esecuzione pubblica (Celibidache la preferiva in assoluto alla registrazione ed incisione), ma l'incisione come documento principe che attesta un prodotto artistico e un orientamento interpretativo è la prova regina dell'impegno di un direttore nell'interpretazione di opere così compatte e articolate in un insieme quali possono essere considerate le nove sinfonie di Beethoven.
Quindi, dobbiamo rendere onore al merito di chi si è impegnato in un programma di ricerca culturale qual è il tentativo, più o meno riuscito, di affrontare tutte e nove le sinfonie di Beethoven. Naturalmente con ciò non si vuole nulla togliere a quei direttori che hanno affrontato solo alcune delle nove meravigliose sinfonie. E’ il caso per esempio di Carlos Kleiber, considerato da alcuni critici musicali come un riferimento tra i più grandi per quanto riguarda la direzione d'orchestra del novecento, e che per quanto riguarda Beethoven ha fornito una interpretazione ritenuta molto valida della settima sinfonia. Peraltro non condividiamo tale giudizio. Le motivazioni sono le seguenti: non ci pare particolarmente brillante rispetto ad altri grandi interpreti l'interpretazione in generale che Kleiber dà della settima, né come tempi, né come fraseggio, né come colore del suono. Ma ciò che più ci disturba in realtà è il fatto che nel famoso secondo movimento egli esegua le doppia appoggiature del tema che ronza intorno al tema principale e che ha reso così celebre questo brano, parte in battere e parte in levare, ciò che a me sembra un'incoerenza stilistica imperdonabile e ingiustificabile. Su come vadano eseguite queste doppie appoggiature mi sono già espresso più sopra e ritengo che Leonard Bernstein sia colui che le dirige meglio e che quindi diriga meglio l'intero brano. Il senso di queste doppie appoggiature risiede nella vivacità che esse riescono a imprimere tramite la asimmetria ritmica, rispetto alla nota melodia principale che altrimenti suonerebbe ripetitiva. L'effetto di asimmetria però a sua volta deve essere sempre uguale a se stesso, pena un fastidioso senso di incompletezza, dal momento che principio generale in Beethoven è rappresentato dall’ostensione del massimo della creatività all'interno del massimo spirito di sistema. Pertanto, eseguire, come fa Kleiber, le doppie appoggiature parte in battere e parte in levare costituisce un fattore disturbante e distraente, per nulla in linea con la poetica beethoveniana.
Pertanto, ritengo altamente inopportuno definire come la migliore tale interpretazione della settima da parte di Kleiber, quando casomai, in particolare per quanto riguarda il secondo movimento la migliore interpretazione rispetto al principio sopra esposto risulta essere quella di Leonard Bernstein. Da ciò che si è esposto sopra risulta in modo inequivocabile come, nell'ambito dell'interpretazione ottimale, bisogna effettuare una ricerca brano per brano, passo per passo, autore per autore, interprete per interprete.
Passiamo ora alla disamina del secondo movimento della quarta sinfonia. Si tratta di una frase di ampiezza inconcepibile, tale per cui l'orecchio, inteso come la mente umana, non può cogliere l'intera frase come un tutt'uno. Anziché quindi, come l'ultimo Abbado tenta di fare, accelerare l'andamento al fine di farla percepire con una frase unica, è meglio concepirla a blocchi, anche se non necessariamente separati tra di loro, ma comunque con un andamento tale per cui il blocco successivo fa sfumare il ricordo del blocco precedente. Anziché l'illusione dialettica della ragione useremo qui una sorta di hic et nunc. Vi è una simmetria della frase e una grande ampiezza della stessa, ma esse rimangono quale traccia preconscia non direttamente udibile, mentre avvertiremo gli istanti che si susseguono svaporando l'uno nell'altro. Ci abbandoneremo all'espressività senza cercare di dimostrare l'unità della frase. Godremo dei singoli istanti lasciando per questa volta sottotraccia il mito della coerenza dell'unità del fraseggio.
In tale prospettiva, le interpretazioni migliori di tale movimento sono quelle di Leonard Bernstein, Karl Bohm, più che quelle di abbado (che confida nella velocità per far concepire la frase) o di Herbert von Karajan (che confida nel suo proverbiale legato per dare unità alla frase).
Nonostante numerose ripetizioni, non è facile trovare il fraseggio ideale per il secondo movimento della quarta sinfonia. Questo è un problema che riguarda moltissimi adagi di Beethoven, alcuni dei quali si trovano anche tra i famosi quartetti. E’ come se Beethoven volesse ammaliare con la capacità di ideare frasi ampie fino all'inverosimile, per poi tentarci a trovare il respiro migliore per tali frasi ampie, ma allo stesso tempo obbligandoci a vivere momento per momento l'espressività di tutti i micro passaggi di tali frasi. A proposito di tali frasi così lunghe mi viene in mente un espediente espressivo che si può utilizzare anche per le frasi lunghissime concatenate di Sebastian Bach: sbagliare i fiati. Rendere la frase più umana con dei fiati improbabili rinunciando a far percepire e concepire in un unico fraseggio la frase lunghissima, rende la frase stessa molto più espressiva. Potrebbe essere scambiato apparentemente per un banale trucco, ma si tratta di uno strumento espressivo. Quello dei fiati sbagliati potrebbe essere un paradigma della creatività artistica che solo apparentemente si pone contro allo spirito di sistema di Beethoven. In effetti nel Nostro convivono due spinte parallele e distinte che si intrecciano: una è quella dell'incasellamento e l'altra è quella dell'espressione. L'abilità o la profondità consistono nel non far prevalere né l'una, né l'altra, ma bensì di farle coesistere in una maniera che potremmo definire naturale. È chiaro che l'accenno al naturale è artificioso, potremmo casomai definire queste due spinte come l'eredità del classicismo e l'avvenire del romanticismo. In Beethoven vi è una consapevolezza ideologica di tali aspetti. È dunque nella dialettica tra ritmo e canto che va ricercata la chiave di volta della produzione e dell'interpretazione beethoveniana. Esistono naturalmente altri parametri che si intrecciano a questi nel definire la centratura dell'interpretazione, Primo fra tutti l'agogica. In tale direzione possiamo identificare due polarità interpretative che fanno capo alla staticità da un lato e dall'altro al dinamismo. Si veda ad esempio la già citata differenza tra l'interpretazione del primo movimento della prima sinfonia di Maazel e quella di Karl Bohm. In un caso avremo un gioco e nell'altro avremo un quadro solenne. La quintessenza retorica di Bohm ci restituisce un Beethoven immobile mentre l'agilità di Maazel ci rifornisce di gioco. Entrambi gli elementi sembrano essenziali alla vita, la prevalenza di uno o dell'altro non può costituire un'etichetta preconfezionata, né una medaglia al vincitore, ma bensì esse costituiscono sfumature lungo un continuum espressivo. Inoltre tali due interpretazioni ci restituiscono le fotografie di due mentalità afferenti a due epoche diverse le quali attraverso l'interpretazione di Beethoven danno quadri definiti di uno spaccato sociale delle epoche, culture, visioni del mondo e società cui appartengono. Riguardo alla interpretazione della prima sinfonia di Beethoven, in particolare del primo movimento, da parte di Maazel, sulla quale ho speso qualche parola per definirla la migliore, credo opportuno fare qualche precisazione. In realtà la leggerezza e il gioco scelti dal direttore si adattano magnificamente all'esposizione, meno allo sviluppo. Per lo sviluppo, ritengo che Leonhard Bernstein fornisca l'interpretazione migliore, non solo di questo movimento di questa sinfonia, ma di tutti i movimenti in forma sonata di tutte le sinfonie di Beethoven. Ciò che manca nell'interpretazione di Maazel, o meglio nello sviluppo del primo movimento della sua interpretazione della prima sinfonia è l'effetto sorpresa dello sviluppo stesso. Si tratta di un dato molto importante: lo sviluppo crea uno stacco rispetto all'esposizione e tale stacco si deve sentire perché ha un significato. Pertanto prediligo le interpretazioni in cui tale stacco e tale significato specifico dello sviluppo si sentono di più. Com'è noto infatti, lo sviluppo è il cuore della sinfonia di Beethoven, pertanto, anche se trovo estremamente azzeccato lo stile giocoso, preciso, snello dell'interpretazione di Maazel nell'esposizione, trovo carente mantenere lo stesso stile senza diversità nello sviluppo. Pensiamo anche alla funzione del ritornello dell'esposizione: quel minimo di noia che tale ripetizione provoca serve proprio a rendere ancora migliore l'effetto sorpresa dello sviluppo. In questo senso potremmo definire tutti gli sviluppi diretti e interpretati da Bernstein di tutte le sinfonie di Beethoven come le migliori interpretazioni di massima di questa porzione di tutte le sinfonie stesse. Se si potesse fare un innesto, nel caso del primo movimento della prima sinfonia, prenderemmo come migliore interpretazione dell'esposizione quella di Maazel, mentre proseguendo nello sviluppo prenderemmo l'interpretazione di Bernstein. È chiaro che quanto sopra esemplificato costituirebbe un Frankenstein, una sorta di fantasia mostruosa che ci serve solo per esprimere il concetto in base al quale ciascuna porzione anche piccola di ciascun brano di ciascuna sinfonia ha un suo campione, nel senso di miglior interprete. Naturalmente anche in questa definizione di migliore interprete di Bernstein per quanto concerne gli sviluppi delle sinfonie di Beethoven occorre operare alcune distinzioni. Se da un lato dobbiamo riconoscere l'assoluta preminenza di Bernstein come interprete, dall'altro dobbiamo anche dire che le sue doti di concertatore, nel senso dell'accuratezza delle esecuzioni da lui dirette, hanno un andamento più discontinuo: in particolare l'accuratezza esecutiva risulta carente, se così si può dire per uno dei massimi direttori di tutti i tempi, nelle esposizioni dei primi movimenti o comunque dei movimenti in forma sonata. Tale minor accuratezza viene utilizzata da Bernstein come espediente espressivo che è in funzione dello sviluppo, in quanto l'accuratezza dell'esecuzione, tenuta su di un livello medio per tutta l'esposizione, diventa massima proprio a partire dallo sviluppo, con ciò aumentando l’effetto sorpresa. Pertanto possiamo dire, come già notava del resto Michelangelo Zurletti, che Leonard Bernstein dà alle sinfonie di Beethoven da lui dirette la massima concentrazione espressiva proprio in virtù della precisione di dettaglio, quasi da cesellatore, che egli mette nello sviluppo notando così e facendo notare all'ascoltatore che si tratta del cuore della sinfonia di Beethoven. Tornando alla prima sinfonia e al suo primo movimento possiamo dunque definire le qualità della migliore interpretazione ideale elencando le virtù del gioco, della sorpresa, della snellezza, dell'energia. È importante anche notare il riferimento alle sinfonie di Mozart e di Haydn che Beethoven mette in atto in questa prima sinfonia dal momento che è come se egli volesse aggiungere del dinamismo a una serie di stilemi aggraziati di tipo settecentesco. Con ciò, senza esagerare nel porre l'accento sulla forza, l'interpretazione risulta ottimale mettendo in luce anche il solo dinamismo. Con tale termine, beninteso atecnico, intendo una assenza di pomposità retorica, un andamento asciutto e brillante, la necessità di rifuggire dalla pesantezza esecutiva, l’evitamento della noia come uno degli obiettivi primari, la sorpresa, il gioco e la gioia. Un discorso particolare andrà fatto per la coda del primo movimento di questa sinfonia. In effetti, anche per quanto riguarda non solo questa, ma in generale tutte le code, il campione interpretativo, il migliore interprete mi sembra essere Leonard Bernstein. E’ bene ricordare che la coda, come lo sviluppo, sono dei dispositivi espressivo-retorici che hanno una loro collocazione stilistica ben precisa all'interno della sinfonia di Beethoven e che costituiscono l'ossatura della sua pregnanza estetica. Nella coda del primo movimento della prima sinfonia, quindi, Leonard Bernstein fornisce un'interpretazione migliore, più pregnante, più avvincente per quanto riguarda l'effetto sorpresa rispetto a tutti gli altri interpreti, Maazel compreso. Come abbiamo detto più volte, le distinzioni che facciamo riguardo all'interpretazione, non rivestono carattere di assolutezza, né vanno prese per oro colato e questo non nel senso dell'attendibilità generale delle asserzioni qui proposte, ma bensì nel senso della loro rilevanza statistica che non può dirsi generale ma che va verificata di volta in volta. La verifica della rilevanza statistica va messa in atto su ogni passo di ogni brano e consente a sua volta la verifica della qualità dell'interpretazione di ciascun direttore: senza tali verifiche, qualsiasi teoria fenomenologica è destinata a rimanere un riferimento fantasioso, mentre invece una sorta di metodo sperimentale si impone per poter asseverare le proprie affermazioni estetiche. Tale è il senso del metodo della filosofia applicata. Non sussistono le condizioni per parlare in senso astratto, senza verifica e con un minimo di credibilità di qualsiasi argomento, tantomeno dell'estetica musicale. Pertanto prenderemo queste nostre annotazioni come appunti in vista di una verifica che l'ascoltatore può e deve fare tramite l'ascolto autonomo dei riferimenti che facciamo e che ciascuno deve poter fare nell'ascolto delle nuove esecuzioni ed interpretazioni. Anzi, il mio metodo presuppone tale verifica continua da parte dell'ascoltatore in quanto fruitore estetico di un'opera d'arte. Ripeto, senza tali verifiche, tutte le asserzioni risultano vaniloqui privi di qualsiasi fondamento ed interesse per chicchessia. In tal senso, contrariamente a quanto previsto dal dettato popperiano, valevole per la scienza, saremo felici di essere smentiti e falsificati in ogni nostra asserzione.
Posso notare qui che tali ultime mie affermazioni potrebbero somigliare pericolosamente alla teoria dell'opera d'arte aperta di Umberto Eco, ripresa da Michelangelo Zurletti, ma non è così, non si tratta di questo. In altre parole, contrariamente alla teoria dell'opera d'arte aperta, non ritengo che ogni accesso sia un modo per possedere l’opera, ma ritengo bensì l’opera d'arte un organismo così complesso che ciascun interprete può portarvi il proprio contributo contribuendo a una visione complessiva, senza che ciò escluda la possibilità che un interprete piuttosto che un altro centri maggiormente il bersaglio e che fornisca un'interpretazione molto migliore di un altro o di molti altri. Questa ricerca del campione non deve naturalmente distrarre dall'obiettivo della migliore realizzazione dell'opera che si incentra sull'opera e non sull'interprete, ma è bene sottolineare sin da subito che non si possono scindere l'opera e l'interprete.
A proposito sempre del secondo movimento della quarta sinfonia, occorre ricordare una versione video degli anni ‘80 con Abbado sul podio, molto più convincente della sua versione in disco degli anni 2000. In questa versione precedente, il direttore milanese riuscì a trovare una sublime quadratura del cerchio tra lirismo e dinamismo ritmico. Così il secondo movimento di questa sinfonia trova una sua misura eccelsa che potremmo descrivere con la metafora della ruota, una sorta di giostra in cui l'elemento ritmico incastona quello melodico. Così, quando il tema, variando, si spezzetta e diventa danzante Abbado riesce a dargli una naturalezza che non si ritroverà nella citata versione successiva. A tale proposito mi viene in mente quanto diceva Glenn Gould riguardo alle prestazioni giovanili come migliori, molto spesso, rispetto a quelle più mature. Con ciò, egli si scagliava contro lo storicismo pseudo evoluzionistico nell'arte e nella musica, sostenendo che molto spesso l'Opus 1 è migliore di quelli successivi e che la cosa vale per diversi autori. Il tema dell'attacco allo storicismo e più in generale al relativismo da parte di Glenn Gould andrà ripreso da noi più avanti quando criticheremo l'approccio teorico di Zurletti in una maniera più completa di quanto abbiamo fatto finora. Per ora limitiamoci ad osservare, riguardo all'esecuzione del secondo movimento della quarta nell'edizione in video degli anni ‘80 con Abbado sul podio, ed in riferimento anche alla necessità di sottolineare l'espressività dei singoli momenti con accorgimenti espressivi quali per esempio i fiati sbagliati, che proprio in quell'esecuzione, nella quale l'orchestra era quella della Scala, il primo flauto prendeva fiato dopo la prima nota di uno sotto-frase e non prima come richiederebbe un'esecuzione scolastica del fraseggio di tale brano. Forse la motivazione risiedeva nell'impossibilità di tenere a lungo con un solo fiato una frase tanto ampia, ma l'effetto espressivo anziché risultare difettoso diventava poetico in modo lancinante. Su queste smagliature nelle quali si infila il sublime occorrerà riflettere a lungo perché tale caratteristica fuori luogo della poesia di un brano ricorre nella musica anche presso gli autori più quadrati come Beethoven. Ci aspetteremmo un simile effetto in altri autori, forse barocchi, forse contemporanei, ma mai o comunque molto meno presso gli autori classici e men che meno presso il più classico degli autori quale è il titano Beethoven. Ma proprio tale discrasia dovrebbe aiutarci a capire che non è nella logica e nemmeno nell'assenza di logica che troveremo il bello e il sublime, ma bensì nella dialettica tra la logica e la sua assenza, purché tale dialettica sia in chiave estetica. Non la fredda logica dei ragionieri dunque, né la totale assenza di logica degli pseudo-artisti scapestrati, ma la dialettica tra le maglie del rigore e della forma e i guizzi dell'espressività e della fantasia. Tale è anche in fondo il senso profondo della musica di Beethoven. Quando tale equilibrio tra rigore formale e capacità espressiva verrà forzato fino all'inverosimile da Johannes Brahms, quel parossismo cui accennavamo molte righe sopra troverà uno sfogo, un’estasi, un eccesso che in un certo senso, bucando la storia della musica, ci porta dritto al tardo romanticismo cui Brahms allude ante litteram. In un certo senso il cuore o il nervo centrale della poetica di Brahms risiedono proprio in uno sforzo disperato, nel tentativo di tenere insieme forma ed espressione, dopo Beethoven, con la stessa forte pregnanza di Beethoven, ma in fondo con la consapevolezza che ciò non è più possibile perché l'elemento espressivo sta debordando rispetto a quello formale. Questo aspetto dell'equilibrio tra espressività e rigore è forse tra i più importanti per capire la poetica di Beethoven, senza di che ci troveremo di fronte ad interpretazioni fredde oppure ridondanti di retorica.
Ancora a proposito della prima sinfonia, giova ricordare l'approccio di Jochum in generale e i suoi effetti sul primo movimento della prima. I tempi sarebbero simili a quelli di Furtwangler: estremamente dilatata l'introduzione, privo di slancio l'incipit del primo tema. Non raffigurati in modo esaltante né lo sviluppo, né la coda. E dunque? Eppure l'interpretazione di Jochum presenta motivi di interesse in quanto ricca di slanci di lirismo, non appena il direttore può e ovunque possa permetterselo. Come se Beethoven gli stesse stretto e pensasse sempre a Bruckner, di cui è eccelso interprete. Molto gradevole la messa in primo piano dei legni. Accenti di un lirismo così accorato si hanno solo in diversi scorci delle interpretazioni di Giulini il quale però, pur scegliendo andamenti ancora più lenti di Furtwangler e di Jochum, ha una maggiore tenuta agogica rispetto a quest'ultimo. Anche un insolito e incostante, inaspettato rubato è infatti tra i segnali della cifra stilistica di Jochum, con una funzione analoga a quella che più sopra abbiamo suggerito essere quella dei "fiati sbagliati", per dar corso all'espressione in alcuni momenti del brano.
Come abbiamo più volte riferito, la messa in luce di un elemento piuttosto che di un altro da parte di un direttore piuttosto che di un altro all'interno di un brano o meglio di svariati passi in ciascun brano, sempre diseguale, sempre imprevedibile, non toglie la possibilità ontologica di rinvenire l'interpretazione ottimale, né la possibilità concreta che uno o più interpreti vi ci si avvicinino.
Pertanto anche quanto dicevamo poco sopra riguardo a Jochum trova la sua ragion d'essere in un aspetto, per esempio la messa in luce dei legni, che pur all'interno di un'interpretazione poco convincente risulta vero e dotato di significato, sicché noi dovremmo integrarlo all'interno di un'interpretazione convincente che è sempre possibile venga proposta da un interprete reale o comunque è sempre possibile venga confezionata in una sorta di Frankenstein immaginario. Allora noi non distingueremo tra migliori interpretazioni reali e migliori interpretazioni possibili o ideali, pertanto immaginarie, per quel tanto che l'immaginazione può confezionare un'interpretazione dal ritaglio e dalla somma di diverse interpretazioni reali. Dal punto di vista teorico infatti non vi è alcuna distinzione tra interpretazione possibile e interpretazione realmente esistita, anche se la prima non è reperibile in alcuna esecuzione realmente avvenuta o forse è reperibile ma è ignota, infatti non dobbiamo dimenticare che non sappiamo quali e quante interpretazioni vengono effettuate ogni giorno nel mondo e in tutti i tempi e luoghi. Così, un'interpretazione immaginaria potrebbe essere solamente un'interpretazione reale, ma non ancora ascoltata o che non ascolteremo in quanto distante geograficamente o già avvenuta nel tempo e non registrata. Essendo quindi impossibile distinguere tra interpretazioni immaginarie e interpretazioni reali, ma non ancora ascoltate tratteremo tutte le interpretazioni, anche quelle immaginarie, come se fossero reali. Questo è un punto molto importante da sottolineare in quanto l'opera non è schiava dell'interprete anche se non è assoluta e non può fare a meno dell'interprete: vi è l'interprete reale, o meglio l'interpretazione realmente avvenuta e l'interpretazione immaginaria o meglio l'interpretazione possibile. Senza tali distinzioni, noi ricadremmo nel relativismo più volte denunciato o nell'assolutismo: si tratta di due opzioni entrambe fallaci in quanto l'opera non può distinguersi dall'interpretazione di essa o meglio può distinguersi, ma non può disgiungersi.
Quanto detto finora in merito all'interpretazione merita una serie di chiarimenti aggiuntivi (forse appariranno ridondanti, a mo' di scatole cinesi, ma non si tratta di questo: ciò che sembra solo preliminare riveste anche carattere essenziale): abbiamo più volte fatto riferimento ad aspetti teorici dell'interpretazione, ma non li abbiamo mai trattati separatamente dagli aspetti pratici, con riferimento ad interpretazioni di brani, note o possibili. Ciò perché l'esercizio della teoria in sé non ha alcun senso, così come non ha senso il commento della pratica esecutiva senza il proprio correlato teorico. In effetti, qui vi è un'analogia con l'estetica del brano: come il brano non può esistere senza interprete (e quindi assolutizzare l'esistenza di un brano in sé porta a vano idealismo e assolutizzare il potere dell’interprete porta a vano relativismo), così la teoria musicale non ha senso se è disgiunta da esempi pratici di interpretazione riferiti ai passi dei vari brani.
Passerei ora a parlare (ma possiamo sempre andare avanti e indietro, perché la musica si svolge nel tempo, ma grazie al testo può essere ripresa in ogni momento, conservando magicamente tutto il suo significato che ancora appieno non ci ha svelato) del secondo movimento della prima sinfonia, solo per dire, così, piattamente, dando un'occhiata alla partitura e al ritmo che dev'essere breve, semplice, regolare, di 3/8, che tale movimento dev'essere appunto eseguito in maniera semplice, breve, regolare, il che vuol dire non troppo lento ed assolutamente a tempo, senza rubati. Sbaglia dunque Bernstein che ruba proprio nell'enunciazione della prima frase, sbagliano tutti coloro che lo affondano, il movimento, in un lago di pesantezza (Bohm, ma anche Szell, financo Maazel, in parte, ma anche Karajan, per non parlare di Furtwangler). Non dev'essere nemmeno un miracolo di leggerezza: dev'essere breve il passo, e semplice, e regolare. Faccio qui riferimento ad un'interpretazione possibile e ricordo il discorso fatto sopra: possibile vuol dire reale, altrettanto di quanto lo è l'ascoltato. Aggiungo inoltre che tale mio approccio prevede un'ulteriore conseguenza, che giova qui esplicitare: l'abolizione della differenza tra il punto di vista del direttore e quello dell'ascoltatore. Noi tutti dobbiamo - nel far riferimento a interpretazioni sia reali, sia possibili - assumere un atteggiamento di direttore e ascoltatore. Anche il direttore ascolta (ci mancherebbe), così anche l'ascoltatore deve dirigere, cioè deve  preferire che l'interpretazione vada in un senso o nell'altro, deve avere coscienza di qual è il senso dato dal direttore e deve poter immaginare direzioni (nel duplice senso di conduzioni d'orchestra e di direzioni di senso) differenti rispetto a quella scelta dal direttore che si sta ascoltando. In altre parole, l'ascoltatore dev'essere attivo e arrabbiato: deve desiderare.
Il punto importante risiede in una particolare forma di desiderio che consiste nell'abbracciare l'ipotesi che quest'esecuzione che stiamo per ascoltare, anzi che ora stiamo sentendo riveli in tutto o in parte l'esecuzione più bella, quella ideale, quella che ci aspetteremmo e che pure è inaspettata. È possibile che frammenti dell'esecuzione ideale, se possiamo descrivere così il concetto, vaghino nell'aria e siano captati ora da un direttore ora dall'altro, ora in un’esecuzione, ora in un'altra. Per tali motivi dobbiamo credere. Sembrerebbe trattarsi di un atto di fede. Ma possiamo veramente considerarlo tale? Dobbiamo quindi allontanarci dall'aspetto scientifico per raggiungere quello fideistico? O possiamo far convivere i due aspetti? Possiamo negarli entrambi? Infine, possiamo ignorarli? Si tratta di domande di non facile risposta, forse essenziali, forse meno.
L'importanza della premessa teorica risiede nell’impossibilità di scindere teoria e pratica nella disciplina musicologica e nell'ascolto. Per ascolto si intende quello finalizzato al reperimento del bello.
Così, tanto per esemplificare, diremo che la quarta nella interpretazione degli anni ‘80 di Claudio Abbado è superiore alla sua stessa degli anni 2000. Ma non ci limiteremo a giudizi generici come quelli che fanno riferimento a una presunta linfa vitale di carattere giovanile, ma cercheremo il perché e spiegheremo il perché di tale giudizio esemplificandolo con l'analisi dei brani, ma non ci limiteremo nemmeno a questo, bensì cercheremo di cogliere le due diverse poetiche interpretative e di motivare la preferenza per l’una piuttosto che per l'altra con il concetto di maggiore o minore aderenza presunta all'estetica del brano eseguito, con l'inevitabile presunzione di conoscerla meglio del direttore. A proposito di queste asserzioni generiche in merito alla vitalità, non posso non segnalare, visto che ho citato un'interpretazione video della quarta sinfonia di Beethoven diretta da Abbado risalente agli anni ’80, un incredibile CD della prima sinfonia di Mendelssohn diretta sempre da Abbado negli anni ’80. Questo a proposito di periodi d'oro, direttori d'annata, presunta linfa vitale e altre asserzioni generiche che pure hanno un perché, ma che vanno motivate in relazione a quel perché. 
Vorrei ora parlare della sesta. Qui il campione è Karajan e a mio avviso lo è (anche se sono cosciente del fatto che ciò che dico è inaudito) in ragione dei tagli. Mi riferisco al ritornello. Logica strutturale vorrebbe che, come non si toglie un pilone a un ponte solo perché tale pilone è uguale ad un altro pilone, così non si dovrebbe omettere il ritornello dell'esposizione nei brani in forma sonata, perché ciò stravolge inevitabilmente la forma prevista. E certo sarebbe presuntuoso stravolgere tale forma, come se si fosse convinti di saperne produrre una migliore di quella ideata da Beethoven. Pertanto quanto ho affermato, se intese in senso sacrale queste istruzioni, è non solo inaudito, ma inaccettabile. Eppure. Eppure, occorre dire, i tagli operati dal sicuro di sé e assai poco filologo Karajan funzionano. Con questo non si può esimersi dal denunciare (sia pure con orrore per la nostra stessa superbia) un difetto della sesta, ossia la sua prolissità.
Di fatto, nessuna delle altre interpretazioni risulta così convincente e il motivo risiede proprio nell'effettuazione, all’interno della maggior parte di queste altre interpretazioni, del ritornello che in questo caso appesantisce una sinfonia dalle proporzioni ragguardevoli. È come se la forma tornasse qui contro la forma in una sorta di groviglio per cui il ritornello non raffresca e non giova alla memoria della forma, ma sembra ritardare lo sviluppo che pure incuriosisce, ma che è come se giungesse troppo tardi. Pertanto qui, secondo me, falliscono anche i direttori d'oltreoceano che pure hanno la tendenza ad essere più freschi nell'interpretazione e meno prolissi, non perché siano meno rigorosi, ma perché danno la precedenza alla fruibilità del brano. Per esempio, Maazel effettua il ritornello e vi cade esattamente come Bernstein, Bohm, Furtwangler, Szell e quasi tutti gli altri. Non così Karajan che imbocca con decisione la via breve lungo tutti i movimenti. In tal modo, oltre a vivificare oltre misura il primo, dà un'intensità nuova al quarto, laddove dopo la festa di paese introduce senza ritardi e con enfasi drammatica inaudita la nota tempesta. Qui è la cifra stilistica di un direttore per il quale l'opera intesa nella sua bellezza deve essere sempre prontamente e pienamente fruibile all'ascoltatore. Se non servono fronzoli, non vi siano fronzoli. Pertanto la sesta sinfonia nell'interpretazione di Herbert von Karajan assume la massima concisione e determinazione divenendo la più snella, incisiva ed efficace tra le sinfonie di Beethoven. Ovviamente, anche in questo caso, non c'è una mancanza assoluta di spunti oltremodo interessanti da parte degli altri direttori nell'interpretazione di questa sinfonia, ma si tratta appunto perlopiù di spunti.
Desidero parlare ora di notazione. Con ciò, intendo la nota distinzione tra significato e significante che ritroviamo in riferimento al segno scritto e a ciò che ne traiamo in termini di significato estetico. L'affermazione che voglio fare qui è relativa all'importanza del segno scritto, non nel senso che il significante dovrebbe assorbire il significato, ma nel senso che il significato, pur essendo altro rispetto al significante, può essere correttamente trovato ed espresso solo ed esclusivamente nel rispetto assoluto del segno scritto, ossia del significante, ossia della notazione.
Con ciò, escludo dall'orizzonte di queste mie riflessioni la musica basata esclusivamente o prevalentemente sull'improvvisazione, cioè non scritta, come potrebbe essere considerato per certi versi il jazz. Questo perché non possiamo neanche per un po’ parlare di ciò che non ha un correlato scritto. È vero anche che molti ritengono che tanto poco valga la notazione che noi non possiamo considerare ciò che è scritto se non un mero appunto o brogliaccio. Andando avanti in questa direzione però finiremo per accettare l'idea che l'interpretazione possa andare contro la lettera del testo ed essere ugualmente valida.
A tale questione su enunciata si collega quella del relativismo. Accettando il presupposto che un'interpretazione possa essere ritenuta valida anche se va contro la lettera del testo, si giunge celermente ad accettare il presupposto del relativismo e cioè che esistano più interpretazioni altrettanto valide perché la migliore interpretazione non esiste o comunque non corrisponde necessariamente all'intenzione del compositore, ma potrebbe corrispondere a qualsiasi buona intenzione di qualsiasi interprete. Mi riferisco naturalmente al concetto di opera d'arte aperta ripreso da Eco e per lui in ambito musicale da Zurletti. Un'altra conseguenza o meglio sottoinsieme del relativismo è costituito dallo storicismo relativizzante. Secondo tale concezione esisterebbero opere e autori più o meno maturi secondo il periodo storico nel quale hanno operato, pertanto un'opera non dovrebbe essere giudicata esteticamente per il suo valore in sé in senso assoluto, ma bensì solamente in senso relativo in relazione allo sviluppo della storia della musica e al gusto proprio del periodo storico e della società che ne fruisce. Si tratta di uno pseudo-evoluzionismo in base al quale un'opera giovanile di un autore dovrebbe essere meno matura di un'opera tarda e la musica di un autore di un certo periodo dovrebbe essere meno matura e ricca artisticamente della musica di un autore di un periodo successivo (o addirittura - nelle versioni estreme di tale teoria - si tratterebbe dell’abolizione del concetto di validità nel senso della stabilità nel tempo ed universalità del Bello). Quanto sopra enunciato fu criticato da Glenn Gould come “sindrome di van Mac Geeren”, un falsario dell'epoca rinascimentale. Come è noto, i falsi, per esempio quelli di Modigliani, servono a smascherare una concezione del bello basata su una presunta evoluzione stilistica su base cronologica, cioè su di un relativismo storicistico (o storicismo relativistico, che è lo stesso). Secondo la critica di Glenn Gould a questo storicismo, noi non dovremmo assegnare un valore estetico a un'opera in relazione alla sua collocazione cronologica nell'ambito della storia musicale degli stili. Non esistono cioè opere più o meno mature e lo stesso concetto di maturità, qualora gli venga assegnata una valenza estetica, è completamente privo di senso. Se invece abbracciassimo lo storicismo relativizzante dovremmo considerare le sinfonie di Beethoven, per esempio, come più mature di quelle di Mozart e quelle di Mozart come più mature di quelle di Haydn, perlomeno di quelle della sua giovinezza. Il Barocco sarebbe meno maturo del Classicismo il quale a sua volta sarebbe meno maturo del Romanticismo e così via. Il tutto ovviamente non ha alcun senso. L'esempio molto calzante fatto da Glenn Gould è quello del ritrovamento immaginario di un manoscritto che, in base a una collocazione storicistica del suo stile, se fosse attribuito alla fase giovanile di un autore sarebbe considerato geniale, mentre lo stesso manoscritto, se fosse attribuito a un’età avanzata dello stesso compositore verrebbe ritenuto poco più che uno scherzo o una bagatella, una sorta di involuzione stilistica, una brutta prova della vecchiaia. È chiaro che se accettiamo la critica di Glenn Gould allo storicismo relativizzante, dobbiamo anche avere l'onestà intellettuale di esplicitare il nostr punto di vista che è idealistico ed assolutizzante. Del quale in verità non ci vergogniamo affatto. Del bello in musica, come in tutte le altre arti, secondo noi è lecito discutere se ne accettiamo un ideale astratto, Una sorta di idea platonica alla quale le interpretazioni si avvicinano più o meno efficacemente. In un altro nostro scritto precedente abbiamo già discusso se tali idee platoniche debbano essere considerate le composizioni stesse o se anche le composizioni debbano fare riferimento a un'idea platonica ulteriore. Riguardo a quest'ultimo punto, abbiamo accettato la tesi secondo la quale ad essere idee platoniche sono le composizioni stesse. Ora è chiaro che se riteniamo ogni accesso come un modo di possedere l'opera, così come se riteniamo che la bellezza di un'opera possa variare a seconda del tempo storico in cui è composta o in cui viene eseguita, interpretata o fruita, stiamo in tutti i casi citati applicando un relativismo estetico. Per quanto mi riguarda, ritengo che non ci sia niente di peggio del relativismo estetico. Esso non permette un giudizio di valore sulla qualità in quanto subordina alla variabile indipendente del tempo in cui si considera qualcosa la qualità stessa di quel qualcosa, qualunque cosa sia. Di fatto, il relativismo equipara l'arte alla moda, dal momento che elimina dall'arte la qualità che la distingue dalla moda, ossia la capacità di resistere al tempo. Non mi interesserebbe nulla di un giudizio estetico su un'opera o su un'interpretazione, se dovessi pensare che tale giudizio è sottoposto a piena mutevolezza in base al momento in cui viene espresso e che quindi domani tale giudizio potrebbe essere annullato o modificato in base al tempo trascorso e perfino il valore stesso dell’opera potrebbe mutare in relazione al trascorrere del tempo, come il vile denaro che può ben svalutarsi o rivalutarsi secondo le contingenze storiche. Se i miei parametri di giudizio estetico, o addirittura il valore in sé dell’opera (valore in sé al quale, beninteso, io credo, mentre i relativisti non vi credono) dovessero variare in base al trascorrere del tempo o a qualcosa che succede nel frattempo a me che giudico o al mio tempo inteso come ambiente sociale, culturale, ecc…, allora quei giudizi e quelle opere di valore eternamente variabile non avrebbero alcun valore artistico, per come intendo io l’aggettivo. Ciò non significa naturalmente che i giudizi siano immutabili o che io non possa affinare o modificare la mia sensibilità nel corso del tempo: non si tratta di questo. Ciò che affermo è che col passare del tempo non muta il valore dell'opera. Su questo caposaldo incentro tutta la mia riflessione musicologica ed estetica. Naturalmente, ciò non significa minimamente che io ritenga spazzatura le riflessioni di quei critici musicali, musicologi, filosofi della musica, musicisti che la pensano in maniera diversa o opposta rispetto a me e che, in altre parole, abbracciano il relativismo, lo storicismo relativizzante e tutte quelle correnti di pensiero che in filosofia fanno capo, in origine, all'empirismo, in contrapposizione all'idealismo.
Noto qui, incidentalmente, che io esplicito i miei presupposti teorici, mentre invece la maggior parte dei musicologi, dei critici musicali e degli artisti non lo fanno, non permettendo quindi al lettore meno avveduto di rintracciare la matrice teorica delle loro asserzioni. Del resto, anche i relativisti più intransigenti (definizione che dovrebbe apparire un ossimoro) non possono accettare di buon grado, se intendono parlare di estetica come di una disciplina scientifica, quell'altro tipo di relativismo che pretenderebbe che l'ascoltatore possa attribuire qualsiasi significato a ciò che sta ascoltando, in base alla sua personalissima sensibilità. Invece, anche i relativisti devono ammettere (anzi, non lo ammettono, ma lo danno surrettiziamente per implicito) che all'ascoltatore arriva un messaggio estetico dotato di un suo significato ben preciso, corrispondente alla realizzazione dell'interpretazione di un'opera. Diversamente, anche i critici musicali relativisti non potrebbero dire alcunché sulle interpretazioni musicali di nessun brano al mondo, intendo alcunché di diverso o di notevole rispetto a chiunque (quindi tutti o nessuno potrebbero fare il loro mestiere di critici, o anche un altro mestiere). Inoltre, anche relativisti più arrabbiati, se competenti non accetteranno l'equiparazione di Beethoven, Bach o Mozart a qualsiasi altro artista meno geniale di questi, non accetteranno cioè di ridurre, come si esprimerebbe Kant, il bello al piacevole (non è bello ciò che bello, ecc…). Direi che qualsiasi relativista, nel momento in cui esprime un giudizio estetico su di un'opera  o un'interpretazione, non può che rinunciare per un attimo al suo relativismo, preferendo con ciò la sua opinione a quella di un altro, senza di che non si capisce che senso avrebbe esprimerne una propria. Ed è questo uno dei motivi che mi fa dire che il relativismo nasconda dell'ipocrisia, con il che naturalmente non voglio asserire che i relativisti siano ipocriti.
Venendo ancora alla prima sinfonia, desidero parlare del terzo movimento, lo scherzo. Occorre rifarsi alla spiegazione di Leonard Bernstein sull'andamento di questo movimento che, inaugurando appunto lo scherzo al posto del minuetto, sarebbe un minuetto accelerato. Il punto è che solo lui e Maazel, con pochi altri, lo eseguono più veloce di un minuetto. Karl Bohm, ma anche Herbert von Karajan, insieme a tanti altri lo eseguono come un minuetto. La velocità migliore secondo me la prende Maazel il quale come anche nel primo movimento è l'unico a far percepire come frasi compiute le serie di ritmi scanditi. Pertanto direi che per questa prima sinfonia i migliori movimenti primo e terzo sono di Maazel mentre i migliori sviluppi e code all'interno del primo e del quarto movimento sono quelli di Leonard Bernstein. Direi che vi è generale fraintendimento sul secondo movimento, intendendo con ciò il modo di interpretarlo, per quanto dicevo sopra e cioè: nessuno lo esegue in modo piano, breve, regolare. Direi che la maggior parte dei direttori fatica a trovare in questo movimento la semplicità e la regolarità come cifre stilistiche da mantenere in tutto l'arco del brano. Per tale motivo, si rischia di cercare in questo brano più di quello che questo brano vuole darci. E così, dal più semplice e forse da brano minore della sinfonia, il secondo movimento si trasforma nel maggior rompicapo di tutta l'opera. Qui vi è una caratteristica che in musica troviamo spesso: la difficoltà di rendere la semplicità. Pensiamo a quanto questa caratteristica della semplicità sia importante per i virtuosi degli strumenti solisti: Rampal, Oistrach, solo per citarne alcuni. Nei solisti, specialmente quelli degli strumenti monodici, la ricerca della semplicità è obbligata e non solo per i grandi classici, la cui esecuzione viene danneggiata sempre da ogni personalismo e idiosincrasia esecutiva, ma per tutti i brani di tutti gli autori. Ciò in ragione della ricerca della nonchalance, o sprezzatura: si tratta dell'esigenza di far apparire semplice ciò che invece è estremamente difficile a livello esecutivo strumentale. Tale esigenza, sempre presente nella mente dei virtuosi dello strumento solista, sia esso il flauto, il violino o altro, rende imperativa la ricerca della semplicità esecutiva come cifra stilistica per tutti i virtuosi di strumento solista. Tale rasoio di Occam, se così possiamo chiamarlo, fa sì che i solisti cerchino sempre la via più breve e più fluida per eseguire qualsiasi passo di qualsiasi brano. Così, rispetto al direttore d'orchestra, ma anche rispetto al pianista che si trovano di fronte a una serie di complessi passaggi polifonici, avendo quindi sempre presente il fattore armonico come principale e determinante e avendo sempre il problema di quale voce fare emergere sulle altre come prima parte, il virtuoso di strumento solista monodico è invece facilitato nella scelta della semplicità esecutiva e interpretativa, in quanto ha solo la sua parte, la sua linea melodica da tenere a bada. 
Quanto detto sopra risulta molto importante a livello metodologico in quanto introduce quello che è il metodo del massimo risultato con il minimo sforzo, con il quale bisogna effettuare il migliore approccio interpretativo. È in altre parole quello che viene denominato il rasoio di Occam. In tal senso si può definire quella esegetica non un'arte, ma una scienza ben precisa che come tale si misura dagli effetti, può essere verificata e smentita. Ogni esecuzione è come un esperimento sulla validità interpretativa. Non mette conto qui di osservare gli accidenti esecutivi che pure vi hanno una parte rilevante e che entro certi limiti, per esempio per quanto riguarda la qualità sonora, costituiscono essi stessi una parte dell’interpretazione. Si pensi per esempio al suono proverbialmente voluttuoso dei Berliner, al suono molto timbrato dei Wiener, al suono molto secco di alcune orchestre d'oltreoceano, al suono raffinatissimo della London Symphony. È da notare il fatto che Leonard Bernstein aborriva questo discorso sul suono delle orchestre sostenendo giustamente il suono dei compositori e tuttavia questo elemento soggettivo entra a buon diritto a far parte della poetica e dell'estetica dell'interpretazione, risultando impossibile consideralo come un elemento spurio. In effetti qui, anche se si potrebbe essere accusati di psicologizzare, si prende in considerazione l'elemento umano dell'interpretazione dal quale è difficile prescindere senza falsificare in modo artificioso qualsiasi discorso musicologico.
Parlerò ora un po' del sogno: questo aspetto così misterioso che riguarda la musica anche se sembra così lontano da essa. Non diremo neanche che il sogno è l'obiettivo di tutta la musica quanto piuttosto che la sostanza della musica è sogno, come sicuramente avranno affermato mille e più mille autori. Il punto fondamentale è che tutti gli schemi compositivi, ivi compresa la forma sonata di Beethoven che egli porta al massimo livello e alla quale riesce ad annettere una connotazione ideologica di stampo ottimistico illuministico, sono solo mezzi per un fine che è quello del sogno che in realtà è un punto di partenza o meglio è la sostanza stessa della musica. Se neghiamo questo aspetto neghiamo qualsiasi ipotesi di poesia e di estetica non solo musicale ma riferita a qualsiasi arte. Di fatto la musica contribuisce ad annullare i confini già non dimostrabili né empiricamente né razionalmente tra sogno e veglia, dal momento che quando ascoltiamo la musica noi ci accingiamo ad un sogno e che tale sogno non potrebbe essere più reale, non solo a causa dei suoni che sono onde fisiche dotate di una loro tangibile entità quali-quantitativa, ma anche perché il significato, non solo il significante dato dai suoni, ma anche il significato dato dall'espressione musicale che l'autore intende presentare (peraltro tutt’uno coi suoni) sono la vera realtà dell'esperienza musicale, tale per cui gli oggetti che ci stanno attorno, il giorno o la notte, la salute o la malattia diventano non più presenti alla nostra esperienza sensoriale e razionale, mentre vi diventa onnipresente la musica e il suo significato. Tale era anche il senso dell'esperienza della Madeleine nella Recherche proustiana, capace di evocare un mondo che prende il posto di quello attuale, si sostituisce ad esso, ne rende incompatibile la coesistenza e diventa l'unico mondo reale accessibile al nostro io.
In tal modo anche la musica mira a essere l'unico mondo possibile a nostra disposizione durante la fruizione di essa. Mi rendo conto che questo genere di descrizione di un'esperienza così totalizzante possa suonare wagneriana e avrebbe suscitato l'immediata opposizione di Glenn Gould il quale mirava invece a mettere in luce l'aspetto dell'intimismo quotidiano della musica. In realtà però anche l'intimismo quotidiano propugnato da Gould risulta essere quanto mai assolutizzabile e pertanto ribadirei come pacifico e indispensabile questo aspetto essenzialmente assolutizzante della musica come connaturato alla sua natura estetica e poetica. Posso perfettamente capire che gli empiristi e i relativisti storceranno il naso di fronte a queste affermazioni, ma sono fermamente convinto che questo nocciolo duro di tipo idealistico debba permanere come credenza, se intendiamo fare, fruire e teorizzare intorno all'arte. Anche la musica aleatoria, alla cui notazione non corrisponde sempre la stessa esecuzione in termini di effetti macroscopici (in termini di effetti microscopici nessuna notazione, neanche di tipo classico, può corrispondere in modo univoco a una sola esecuzione se non a quella che abbiamo denominato come esecuzione e interpretazione ideale che però è frutto di ricerca e appunto di interpretazione) aspira inevitabilmente ad essere un evento distinguibile dal quotidiano fluire anche se vi allude massimamente e pertanto anche il massimo relativismo nasconde un nocciolo di assolutizzazione.
Ritengo queste annotazioni preliminari, ma anche fondamentali in quanto in esse risiede il nocciolo teorico ma anche pratico di qualsiasi approccio interpretativo e di ascolto della musica di tutti i tempi, non solo di quella di Beethoven, Bach, Mozart e altri, ma anche di tutte quelle di tutti i contemporanei e di tutti i creatori, interpreti e fruitori di tutti i tempi passati, presenti, futuri.
È solo grazie a una convinzione di questo genere, purché nata e maturata genuinamente (non imposta o frutto di pregiudizio), che si può fruire della bellezza della musica. Senza una convinzione di tal genere sarà del tutto casuale l'idea stessa di bello, confusa ed erroneamente identificata con quella di piacevole, secondo quanto ci ha insegnato Kant nella Critica del giudizio. Allora non varrà più di un cono gelato la fruizione estetica e già cucinieri e gelatieri ne sono intimamente convinti ed attraggono nell'orbita delle loro convinzioni numerosi clienti. Se invece siamo convinti che l'esperienza artistica si distingua dalla piacevolezza in quanto afferente alla sfera del Bello non potremo non essere convinti dell'autonomia della sfera dell'estetica e della poesia. Apro qui una parentesi: non è che non appartenere alla sfera del piacevole renda il bello avulso dal piacere, anzi esso è il massimo piacere, di cui i piacevole è solo un mero sottoinsieme. Il Bello è sempre piacevole, anzi massimamente piacevole, mentre il piacevole può non essere bello. Mi rendo conto qui che dal punto di vista strettamente logico è il piacevole a costituire un insieme più grande e il bello ne è un sottoinsieme. In effetti la quantità di cose piacevoli e non belle è molto vasta, mentre non si hanno per nulla cose belle e non piacevoli. Detta così, la nostra presentazione teorica sembrerebbe rimandare ad una concezione terribilmente elitaria della fruizione estetica, come patrimonio di minoranza più che di maggioranza, mentre invece dovrebbe essere proprio il contrario in quanto è insito nel concetto di bello di essere universale e quindi di aspirare da se stesso alla fruizione universale da parte di tutti. Possiamo usare il concetto di infinito come obiettivo che fu di Fichte e che ha trovato un suo simbolo matematico qual è quello di tendente a (infinito). Ne viene dunque che, elitaria oggi, la nostra concezione mira ad essere universalistica e di massa per il tempo di domani.
Quanto detto sopra a proposito dell'estetica del cono gelato e in definitiva della distinzione tra bello e piacevole di Kant si attaglia massimamente alla musica di Beethoven, nella fattispecie a quella sinfonica, in quanto è insito nella concezione ideologica della sinfonia di Beethoven come dialettica di tesi antitesi e sintesi il concetto di bene come universale coincidente con il bello. La sinfonia di Beethoven si apre e si presenta, se non come una lotta tra il bene e il male, certamente come un percorso per aspera ad aspra che va dall'incompiuto al compiuto, dalla sofferenza alla gioia, ben prima del terminale costituito dalla nona sinfonia, ma bensì fin da subito a partire dalla prima. La differenza tra la nona e le altre sinfonie risiede nel fatto che la nona pone il problema della teodicea. In particolare vi è una relazione tra il cupo pessimismo del primo movimento e l’ode alla gioia dell'ultimo. Vero è che anche nella quinta vi è una relazione tra il tragico primo movimento (o feroce primo movimento secondo alcuni) e il finale trionfalistico di segno opposto, ma mentre nella quinta si ha la consueta dialettica tra bene e male e trionfo del primo sul secondo, nella nona viene posto un interrogativo importante sul perché del dolore dell'uomo e del mondo che deve trovare una risposta nuova e diversa rispetto alle altre sinfonie, in quanto non si chiede solo l'esito della battaglia, con il primo movimento della nona, ma anche il perché di quella battaglia e di quel male. La risposta, come è noto, risiede nella assunzione del male nell'ambito dell'elemento umano secondo il dettato di Schiller. Ne consegue dal punto di vista formale il superamento ideale della forma sonata che com'è noto spalanca le porte al romanticismo musicale che della forma in generale (non solo della forma sonata) tentò il superamento, nel nome del contenuto, ossia del sentimento.
Quest'ultima questione è molto importante in quanto introduce un discorso di importanza centrale nel passaggio da un'epoca ad un'altra secondo il vertice osservativo della filosofia della musica. I romantici erano insofferenti della forma, in particolare delle forme e degli stilemi settecenteschi che vivevano come chiusi, contrari all'aspirazione all'infinito della musica romantica. Perciò inventarono o riutilizzarono essi stessi nuove forme che - per  usare un'espressione impropria - volevano "meno formali": il notturno, la ballata, il capriccio, la fantasia. Tutte forme che richiamavano l'apertura. E' per tale motivo che il prorompere del canto tenorile nell'ultimo movimento della nona, che si pone nel punto in cui dovrebbe esserci il ritornello dell'esposizione e che intona il canto di Schiller "O fratelli, non più questi suoni!" simboleggiando l'abbandono della forma sonata, è stato visto dai romantici come una svolta fondamentale e come l'apertura delle porte di una nuova era, quella romantica, appunto. Altro dato stilistico che contribuisce a far comprendere che si tratti di uno stacco anche "ideologico" risiede nell'uso della voce, in ciò rappresentando però un crogiolo di contraddizioni filosofiche e stilistiche dei romantici. La voce presenta un testo, in quanto tale proclama alcune cose che in quanto tali possono costituire senz'altro il manifesto di una nuova era (per l'umanità, ma anche per la musica). D'altro canto, il significato delle parole è definito, quindi finito o comunque meno infinito di quello dei soli suoni, che sono indefiniti e quindi infiniti nel loro significato. Seguendo questa idea di musica strumentale come musica infinita e quindi romantica per eccellenza, la sinfonia corale costituirebbe, con il suo portato di testo poetico e di parole e frasi dal significato definito e quindi finito, un passo indietro di Beethoven dal romanticismo e non in direzione del romanticismo. Ma del resto, la contraddizione continua con i romantici, nel momento in cui molti autori come Liszt e Berlioz, che pure sono romantici per eccellenza, attingono  molte delle loro produzioni al genere, molto definito e quindi finito, della musica a programma (con o senza la voce, si pensi alla Fantastique di Berlioz o al Pelleas et Melisande e a tutti i poemi sinfonici di Liszt). Poi, sempre nel campo del canto, abbiamo romantici d'eccellenza come il romantico Schumann che fa del Lied un genere simbolo del romanticismo (insieme anche a Schubert). Per non parlare del melodramma romantico in cui appunto uno degli autori romantici per eccellenza, Richard Wagner, ha scritto quasi esclusivamente melodrammi. Ferme restando quindi queste contraddizioni insite nel romanticismo e forse consustanziali all’essenza stessa del fenomeno, dobbiamo anche fare attenzione a non investire Beethoven e nemmeno la sua nona sinfonia di significati e aspettative che avevano i romantici sulla sua musica. La prospettiva storica o storicistica, assunta come complemento inevitabile dell’esegesi e ben lungi dal dover essere utilizzata in maniera relativistica o relativizzante, ci è invece necessaria e indispensabile per evitare un eccesso di previsione o retrodatazione durante l'interpretazione di un autore o di un brano. In altre parole sarà impossibile discernere la temperie romantica che pure si dispiegò successivamente alla nona sinfonia, perché noi abbiamo nella nostra eredità anche il romanticismo, ma ciò che non dovremo fare è assumere il vertice osservativo romantico in modo astorico, ma bensì storicizzarne le estreme conseguenze in modo da concentrarci su Beethoven come autore, come opera e come stile. Analogamente e in senso opposto, dovremo guardarci dal ritenere che esecuzioni con strumenti originali portino a una qualche verità interpretativa che non sia fenomenica e archeologica nel senso deteriore del termine, anziché storica. Non devo cioè rifarmi ai difetti del tempo e ai limiti della tecnica del tempo per ottenere l'interpretazione più vera e rendere pienamente la bellezza dell'opera, ma devo trascendere semmai quei limiti tecnici giovandomi della superiorità tecnica del mio tempo.
Mi rendo perfettamente conto che il discorso appena fatto potrebbe essere interpretato come un invito alla moderazione, e nulla più, mentre invece si tratta dell’indicazione esteriore di un metodo che ha una sua ragion d'essere ben precisa perché riguarda la ricerca dell’interpretazione corretta, intesa come veritiera, intesa come aderente all'intenzione del compositore. Pertanto essa propugna l'uso di uno storicismo a livello unicamente strumentale, cioè come strumento e non come fine, volto all'appropriazione del significato del brano, con l'attenzione rivolta in modo esclusivo al brano e nella convinzione che tale significato, quello più intimo del brano cioè, abbia un carattere universalistico e non storico storicistico, o meglio che sia storico nel senso di corrispondente all’intenzione del compositore. Perciò utilizzo lo strumento storicistico solo di esclusivamente per depennare false visioni di altre epoche da quella che ritengo possa essere l'interpretazione vera, cioè mi tolgo dagli occhi, per esempio, il velo romantico con cui i romantici potevano vedere Beethoven, senza sognarmi di dover depurare dal romanticismo Beethoven come invece pretenderebbero gli storicisti, i cosiddetti maestri delle esecuzioni filologiche, con o senza strumenti d'epoca. Non nego quindi la memoria di tutto il passato, del presente e del futuro rispetto al brano eseguito, perché so che dentro di me, dentro la mia coscienza e dentro il preconscio esiste il romanticismo musicale che io ho ascoltato e che si è ispirato a Beethoven in varie misura dilatandone e sviluppandone alcuni spunti. Io non ascolto dal punto zero, non potrò mai assistere alla prima esecuzione dell’ottava o della nona sinfonia, pertanto non posso ignorare la storia che è nella mia coscienza ed è per tale motivo che la pretesa storicistica di avvicinarsi maggiormente al bello e al vero utilizzando strumenti musicali tecnicamente più limitati rispetto a quelli di oggi è una pretesa ridicola, come se questo bastasse a farci dimenticare la storia e soprattutto come se la storia intesa come il futuro dopo Beethoven potesse essere obliterata, cancellata e dimenticata. Ritengo tutto ciò una pretesa davvero vana. Qualcuno potrebbe obiettare, mi rendo conto, a queste mie asserzioni dicendo che il suono degli strumenti d’epoca potrebbe essere più affascinante e più bello di quello degli strumenti attuali, ma io replico che questa è probabilmente una suggestione ideologica affine alla fede che si pone nei rimedi omeopatici, ben sapendo che manca la prova del nove che possa dimostrare la loro utilità e della cui inutilità peraltro intimamente siamo convinti anche se non lo ammettiamo a noi stessi. È bene invece ribadire quanto chi ha un minimo di conoscenze di storia della musica sa benissimo e cioè che gli strumenti d'epoca erano pieni di difetti, per esempio il flauto stonava in moltissime note e il suo suono era oltremodo flebile, la sua agilità nei passaggi veloci era certamente inferiore rispetto agli strumenti di oggi che sono dotati di tamponi per i tasti e non di fori da chiudere direttamente con i polpastrelli, anche se ogni flautista che si rispetti ha un flauto con tamponi a loro volta forati, nella convinzione che così lo strumento, cioè con i tamponi forati anziché chiusi, suoni meglio perché più naturale. Naturalmente vi sono mille e più mille scaramanzie, specialmente per quello che riguarda la bellezza del suono che spesso è concepita innanzitutto con l'immaginazione del musicista che lo produce e dell’ascoltatore. È noto infatti che la cura estrema del suono porta da un lato a una sorta di metafisica di quello che è un evento principalmente fisico anche se teso ad esprimere un significato, dall'altro porta a una mistica di immaginarie preferenze idiosincratiche sulle quali potranno scontrarsi artisti ed appassionati. Si vedano ad esempio le estenuanti cure dello strumento che Michelangeli riservava al pianoforte o i procedimenti tecnologici ai quali artisti come Gould o Herbert von Karajan dedicavano così tante attenzioni. Detto ciò e quindi non ignorando la storia, dovremmo cercare il significato del brano all'interno dello stilema che è stato utilizzato per quel brano. A tal proposito trovo utile la distinzione che fa Dahlhaus tra sostanza e funzione, nel momento in cui la sostanza si esplica, una volta riconosciuta la funzione di cui quel passo fa parte. Per esempio nel caso dell'effetto sorpresa dello sviluppo esso si produrrà proprio perché si trova in una posizione adatta alla sorpresa e cioè all'interno di un meccanismo come quello della forma sonata in cui dopo la doppia esposizione c’è una necessità di sorpresa. Lo stesso diremo della coda che richiama l'esigenza di compendiare mettendoli in luce nuova i temi dell'esposizione, e così via. È chiaro da tali esempi come la conoscenza della forma sonata in quanto struttura formale storica è indispensabile per apprezzare la bellezza dei vari passaggi dei brani scritti in tale forma (sonata) e in un certo senso io uso la storia quando interpreto o ascolto un'interpretazione di un brano in forma sonata. Ciò non significa minimamente che io stia storicizzando né relativizzando alcunché. Io posso fruire pienamente della bellezza di quel brano se conosco un linguaggio, come ricordò Glenn Gould e il linguaggio è inevitabilmente un prodotto storico oltre che un organismo vivente. Ne viene che lo strumento interpretativo è infarcito di storia in quanto lo è la coscienza, sia o non sia accettato anche il concetto di inconscio. Pertanto una storicizzazione relativizzante come quella che pretenderebbe di presumere in quale modo si ascoltava la musica in un'epoca remota sovrappone un tentativo astrattamente intellettualistico alla ricerca del bello e del vero nel brano che sto interpretando. Pertanto risulterà essere un pregiudizio quello storicizzante e relativizzante che non aiuta a raggiungere quella che ritengo essere l'interpretazione più bella ossia la più vera. E mi sembra che abbiamo abbondato in assolutismi idealistici. Ritengo importante però chiarire questi concetti perché altrimenti, per esempio, non avrebbe senso parlare di epos per il primo movimento dell'eroica, se non sappiamo che cos'è l'epos e ciò non come nozione scolastica, ma come universo concettuale e affettivo ossia simbolico nel senso più pieno del termine. E quindi ne verrà che l'interprete deve essere necessariamente colto, con il che ovviamente non intendo indottrinato, ma ricco, profondo di vita, storia, letteratura. Mi rendo anche perfettamente conto che ciò sembra contraddire quanto detto sopra riguardo alla possibilità che un giovane interprete, così come un giovane artista, possano fornire le prove migliori rispetto a chi è “anziano”, ma gli è che un giovane può essere molto esperto nella vita e nell'arte, oltreché carico di quello che Bergson chiama lo slancio vitale, citato anche da Dahlhaus.
Mi sembra il caso che ci accingiamo a parlare della quinta sinfonia. E' un vero rompicapo, il primo movimento, dal quale si fatica ad uscire vincitori. Qui si pongono numerosi problemi. Anzitutto l'orecchiabilità del brano è stata fatta assurgere ad emblema di non si sa cosa, sicuramente a caricatura di sé stesso. Pertanto, quando si sedimentano nell'ascolto tanti luoghi comuni risulta veramente difficile interpretare un brano, perché risulta ostico vederlo in modo originale. Ogni interpretazione sembra possedere valore - cioè - solo in quanto tende a prendere le mosse o a discostarsi da qualcun’altra. Tale è certamente il caso della quinta, sinfonia quant’altre mai fortunata e forse tra le più bistrattate dal punto di vista interpretativo. Partire prevenuti non è mai un vantaggio, ma bisogna riconoscere che qui vi è una tale quantità e diversità di qualità di interpretazioni da doversi mettere le mani nei capelli anche solo per poterle dimenticare e avvicinarsi al testo e al brano senza tonnellate di stratificazioni di memoria e tonnellate di pregiudizi interpretativi. E dunque tutto è più difficile, anche a partire dall'inizio, così noto, così stravolto, così abusato, così già sentito. Bisognerà quindi come giustamente faceva notare Leonard Bernstein, concentrarsi sullo sviluppo che è in realtà il cuore della composizione, e da lì e su quello basarsi per l'andamento, per il timbro, per la dinamica, per il fraseggio, coscienti comunque del fatto che lo sviluppo potrebbe richiedere un fraseggio diverso rispetto all’esposizione. È la scelta operata da Bernstein nella sua versione degli anni ’80 che però non si può dire convinca appieno, sebbene sia una delle migliori. Gli riesce comunque di dare un tono drammatico, tragico, ma soprattutto non scevro dell'elemento umano, mentre quel continuo riferimento al destino o alla potenza fa sì che molte altre esecuzioni siano algide. E forse è proprio l'elemento della potenza o del destino quello che manca alla sua interpretazione, in cui l'elemento umano viene invece messo in piena luce.
Credo che il modo migliore per avvicinarsi a questo primo movimento della quinta sia senz'altro la possibilità di dimenticare ciò che la quinta è stata nel corso della storia a livello ideologico, un livello di cui il primo promotore fu il Beethoven del secondo periodo, quello che secondo Glenn Gould amava rappresentare se stesso come prima cosa. Cercare quindi di dimenticare la potenza, il destino, ma anche la rappresentazione dell'umanità in lotta o in sofferenza: cercare insomma di fare in modo che Beethoven con la quinta non voglia dimostrare nulla, dimenticarsi dell'obiettivo, qualunque esso sia, che pure emergerà durante l'interpretazione e durante l’esecuzione, qualsiasi esse siano. Vederlo insomma come un pezzo leggero sebbene ciò possa sembrare oltremodo paradossale, eseguire Beethoven dimenticando Beethoven, fare a meno di tutto, primo fra tutti il desiderio di fare qualcosa di speciale, magico, unico. Come se fosse una sinfonia normale, quindi. E perché, dopotutto, non dovrebbe esserlo? In quest'ottica, come ascoltatori, escluderemo tutte quelle esecuzioni e interpretazioni che in qualche modo vorrebbero essere esemplari perché richiamate a tale ruolo dalla presunta esemplarità del testo, o meglio dell'opera così com'è stata recepita nell'accumularsi di cliché, idealizzazioni, incrostazioni interpretative, prassi esecutive, ideologizzazioni, ecc… . Escluderemo pertanto sia la secca ferocia di Herbert von Karajan, sia le raffinatezze di Claudio Abbado che dà alla corona della seconda metà del tema una durata notevolmente più lunga della corona della prima metà del tema, escluderemo altresì la voluta genericità dell'esposizione del primo tema da parte di Leonard Bernstein, in omaggio alla sua concezione della concentrazione e centralità dello sviluppo, escluderemo senz'altro l'articolazione del fraseggio e la pesante scansione ritmica che dà al primo tema Karl Bohm, l’accoratezza e quindi la lentezza attenta al colore del suono, qui fuori luogo, del pur profondo Carlo Maria Giulini nell'esposizione del primo tema, escluderemo altresì la troppo secca e asciutta articolazione del primo tema da parte di Georg Szell, e così via anche per molti altri. Non potremo che notarne il tentativo, estenuante a volte, di essere originali, in quest'incipit talmente tanto udito che, qualsiasi cosa si faccia, non si riesce a renderlo inaudito. Pertanto professeremo la necessità di non renderlo inaudito, vorremmo renderlo normale, come se fosse un brano di media bellezza e fama (che è comunque un altro modo per cercare di essere originali): solo così cercheremo di salvarlo. Tra le migliaia probabilmente di esecuzioni disponibili di questo celebre brano, non mi è finora mai capitato di trovarne alcuna che si proponesse questo specifico obiettivo: non proporsi alcun obiettivo, se non quello, comunque non irrilevante, di tentare di normalizzare l'interpretazione, l'esecuzione e l'ascolto appunto di questo celebre brano. Una sorta di reductio ad minimum, sostenuta da una fede nella capacità di auto-presentazione della grandezza di un simile brano, come se il direttore dovesse mirare a togliere più intenzioni interpretative possibili.
Riflettendo bene, in realtà, il primo movimento della quinta sinfonia presenta una facilitazione importante: la struttura drammatica è così concisa, chiara che è come se si dirigesse da sé. Quasi a contraddire tutto ciò che abbiamo detto finora, diremo che il primo movimento della quinta sinfonia è il più facile da dirigere di tutti movimenti sinfonici di Ludwig Van Beethoven. Ciò naturalmente è falso, ma aiuta a farci capire quanto sia importante liberarsi di qualsiasi stratificazione, incrostazione interpretativa, prassi esecutiva, pregiudizio ideologico, atteggiamento precostituito a livello preconscio, nell'affrontare il primo movimento della quinta sinfonia.
E allora? Chi è il campione? Chi è colui che interpreta meglio la quinta sinfonia, in particolare l'emblematico primo movimento? Assumo a mia volta un pregiudizio dettato dall'ascolto ripetuto ed ammirato della quinta sinfonia diretta da Leonard Bernstein ed asserisco che pur nell'eccesso di umanizzazione che egli conferisce a questo primo movimento, la sua interpretazione è a mio avviso la migliore. Diremo qui, in analogia con quanto abbiamo già esposto più sopra, che siamo di fronte, tra le altre, ad altre due polarità opposte. Si tratta della polarità tra divino e umano, come elementi che possono essere presi a fare da vertici osservativi prevalenti nell'interpretazione di questo primo movimento. A tale coppia, naturalmente, si associa l'altra coppia polarizzata che potremmo definire potenza da un lato e sentimento dall'altro. Così, chi privilegerà l'aspetto divino del destino che bussa alla porta, farà sua la potenza e meno il sentimento umano. Chi invece assumerà il sentimento umano quale vertice osservativo guida nell'interpretazione di questo primo movimento, esprimerà maggiormente il sentimento, appunto, a scapito della potenza. È da notare comunque che sentimento e potenza non sono due fattori incompatibili, ma è noto che spesso si trovano su due polarità contrapposte. Ricordo a riguardo un articolo del Corriere della Sera che commentava due concerti dati a breve distanza di tempo da Herbert von Karajan e da Leonard Bernstein. Il titolo suonava “Karajan incanta, Bernstein trascina”. In questo incantare di Karajan, cifra stilistica cardine e costante del suo stile interpretativo, vi è la potenza del divino, cosa che - per inciso - fa di lui un eccellente interprete di Ciaikovsky. Potremmo dunque mettere l'incanto e il divino accanto alla polarità della freddezza, non distante dalla polarità della forza, mentre potremmo mettere il trascinamento dato dall'espressione del sentimento nella polarità del calore, più distante dalla polarità della forza. È vero però che sulla forza del sentimento i romantici hanno costruito la loro poetica e della forza del sentimento i romantici sono l’emblema. Ma qui per potenza intendiamo più precisamente ferocia, quel quid di disumano che Karajan molto spesso offre nelle sue interpretazioni geniali, anche di Beethoven (si veda per esempio il finale dell’ottava sinfonia). Esempi di potenza offerti da Herbert von Karajan, a profusione, troviamo in tutte le sinfonie di Beethoven da lui interpretate. Si pensi per esempio al già citato grande rullo di tamburi nella parte centrale del primo movimento della nona sinfonia. Si pensi alla potenza, in questo caso quasi petulante, che egli scatena nella innocente quarta sinfonia. Specialmente nelle sinfonie pari, Herbert von Karajan sembra farsi un punto d'onore del fatto di renderle potenti quant’altre mai: con esiti discontinui. Se per esempio, come già asserito, risulta oltremodo convincente l'approccio di Herbert von Karajan all'ottava sinfonia, esiti molto meno brillanti si hanno a nostro parere quando si usa la stessa aggressività per accostarsi alla quarta sinfonia. E ciò non per un pregiudizio ideologico sulle sinfonie pari, la cui tranquillità non dovrebbe essere scossa, ma bensì in base a una concezione critica di quell'opera, mirante a vederla in sé stessa e per sé stessa, non come un pari o un dispari da sfatare. Invece a tratti ci sembra che Karajan cada vittima di questo pregiudizio, ossia della necessità di sfatare la presunta debolezza delle sinfonie pari. Così, se nell'ottava riesce oltremodo convincente far emergere, come fa Herbert von Karajan, il parossismo paranoide che informa di sé tutta la sinfonia ed in particolare la coda o meglio le code dell'ultimo movimento, ci sembra del tutto fuori luogo fare della continua alternanza tra piano e forte, che pure è presente in modo strutturale all'interno della quarta, un tratto aggressivo, senza che vi si riescano a trovare particolari motivazioni alla base.
Vorrei ora aprire una piccola parentesi, parlando di come le sinfonie di Beethoven ed in particolare i singoli movimenti di esse, contribuiscano a creare o comunque a codificare alcune categorie dello spirito. È così per esempio per il terzo movimento della nona sinfonia, in grado di creare un'atmosfera così tipica che definirei da notte di Natale. È il caso sicuramente anche del primo movimento dell'eroica , del quale abbiamo definito lo stanziare nella dimensione dell’epos. E’ il caso anche della seconda sezione del secondo movimento della nona sinfonia che, come anche altri brani non sinfonici di Beethoven, ruota nell'orbita folk. Naturalmente bisogna citare al riguardo anche l’articolato quadro bucolico della pastorale, anche se non si tratta senz'altro di musica descrittiva, nonostante le onomatopee. Dovremmo citare anche i celebri secondi movimenti della settima e dell'ottava sinfonia, dal carattere ugualmente tipico, anche se molto diversi tra di loro. E non si può negare, per chiudere questa breve rassegna, che, come notò tra gli altri Leonard Bernstein, il mondo poetico della prima e della seconda sinfonia molto devono agli stilemi della prima metà del settecento; in particolare essi risentono di una sorta di aspirazione mozartiana da parte del primo Beethoven, presto tradita a favore di una crescente attitudine titanica, senza che peraltro sia mai venuto meno, nemmeno nelle sinfonie dispari, l'elemento del gioco e del lirismo.
A proposito della prima e della seconda sinfonia, bisogna aggiungere alcune considerazioni molto importanti. Il mito delle cosiddette differenze tra sinfonie pari e sinfonie dispari è senz'altro errato. Piuttosto, credo sia importante rimarcare l'eredità mozartiana delle prime due sinfonie. In queste sinfonie si avverte uno sforzo ben preciso da parte di Beethoven di ricalcare uno stile classicheggiante fatto di stilemi la cui attuazione ed adesione ideale da parte del compositore sembrano frutto di uno sforzo nel mettere in pratica qualcosa di non del tutto connaturato, né congeniale. E’ come se egli si sforzasse di aderire a uno stile che gli è connaturato solo in parte. Emblematico di questo sforzo mi sembra, ad esempio, il secondo movimento della prima sinfonia. Qui vediamo come la semplicità sia ricercata, con tutto ciò che un'espressione ossimorica di tal genere comporta. Anche il secondo movimento della seconda sinfonia rientra in quest'ottica tardo mozartiana o pseudo mozartiana di Beethoven. In parte, possiamo ascrivere a tale genere di stili l'utilizzo dell'introduzione lenta prima del primo movimento in forma sonata nelle sinfonie uno, due, quattro, ma anche sette e, sotto certi punti di vista, nove. È chiaro che un simile riferimento può essere definito solo episodico, dal momento che ben diverso è il tenore dell'introduzione della nona sinfonia rispetto a quello, ad esempio, della prima e della seconda. Se però teniamo presente quanto sopra detto, non possiamo non riconoscere che non si tratta precisamente di una polarità tra sinfonie pari e sinfonie dispari, ma del progressivo, anche se non lineare abbandono di una sorta di mozartismo di maniera. Nell'abbandono di tale maniera vi è la crescita, in parallelo, e proporzionale, della consapevolezza della possibilità della perfezione nella costruzione della forma sonata. Successiva a tale consapevolezza della possibilità della perfezione nella costruzione della forma sonata è, se vogliamo, l'ideologizzazione della forma sonata stessa. Il Beethoven della cosiddetta seconda maniera, da molti identificato, sia pure erroneamente, con il Beethoven delle sinfonie dispari, è più che altro un Beethoven che ideologizza sé stesso, come già notava Glenn Gould. In tale ideologizzazione si innesca una sorta di mito della potenza che è in parte intrecciato ed in parte distinto rispetto al mito della perfezione chiusa del meccanismo della forma sonata. Per perfezione chiusa non intendo qualcosa di asfittico, bensì un mondo che è sufficiente a sé stesso, in cui certe regole consentono il massimo di libertà all'interno del massimo di rigore. Quest'ultima annotazione ritengo sia il cuore fondamentale della forma sonata alla cui apoteosi Beethoven e solo Beethoven ha contribuito. È proprio questo cuore della forma sonata ciò che più interessa, aldilà quindi e prescindendo dalle estremizzazioni date dall'aspetto ideologico della potenza da un lato e, dall'altro, dai mozartismi della prima maniera. Potremmo prendere come esempi di tali polarità opposte date da un’estremizzazione, da un lato il secondo movimento della prima sinfonia (mozartismo di maniera), dall'altro il primo, o meglio l'ultimo movimento della quinta. Ma ci sbaglieremmo ancora, se in quest'estremizzazione vedessimo il Beethoven peggiore, dal momento che esse rappresentano alcune sfaccettature di Beethoven rispetto alla centralità della perfezione della forma sonata. In tale ottica teorica, i migliori esempi di tale perfezione della forma sonata si trovano in generale nei primi movimenti delle sinfonie ed in particolare nei primi movimenti, in ordine decrescente di capacità di creare un mondo chiuso, della seconda, della prima e dell'ottava, mentre discorso a parte meritano, da un lato il primo movimento della terza, in quanto le proporzioni titaniche ne fanno una bandiera dell’epos, di una qualità rivoluzionaria, dall'altro il primo movimento della sesta, particolare per l'immaginazione bucolica, mentre il primo movimento della quarta, il primo movimento della settima e il primo movimento della nona, per motivi pur molto differenti tra loro, meritano anch’essi certamente un (ulteriore) discorso a parte, ma possiamo dire che essi non rientrano appieno, per un verso o per l'altro, in tale mondo di perfezione chiusa e quadrata della forma sonata, quale Beethoven è riuscito ad esprimere nelle sinfonie in primis, ma anche in alcuni primi movimenti dei quartetti, mentre meno evidente è l'importanza di tale forma nelle opere per pianoforte solo e meno efficace risulta tale forma (per il ben noto, stucchevole raddoppio del bitematismo tripartito, tra pianoforte da un lato ed orchestra dall'altro, che notava Glenn Gould) nei concerti per pianoforte ed orchestra o per altri strumenti ed orchestra.
È bene dunque parlare di questo incredibile mondo quadrato che abbiamo appena definito chiuso, ma che in realtà è estremamente aperto, quintessenza del bene coincidente con il bello, coincidente con il simmetrico, coincidente con la creatività. Il massimo dello spirito di sistema unito allo spirito di libertà. Un vero e proprio ideale umanistico che Ludwig van Beethoven riesce ad esprimere in maniera compatta e concentrata, prevista eppure imprevedibile, eternamente sorprendente, come ricordava Leonard Bernstein, quasi che egli volesse erigere e riuscisse ad erigere un edificio quadrato, forte, simmetrico a protezione della bellezza. La potenza dello spirito di sistema che ti fa conoscere in ogni momento in che luogo sei e in che momento stai vivendo, che cosa stai vivendo, unita al massimo dello spirito di creatività e libertà umane.
Con Beethoven si produce una rotazione di 90° rispetto all'estetica del barocco. Mentre nel barocco vi è una una visione dall'alto, di tipo sublime, di tipo divino sulle vicende degli affetti umani, in Beethoven lo sguardo è orizzontale, dall'uomo alla natura, è l'uomo che affronta le sue vicende. Per questo, analogamente a quanto si dice per Kant che passa dalla ricerca della definizione delle essenze alla definizione del fenomeno, si può parlare anche per Beethoven di rivoluzione copernicana, con questo tipo di rotazione di 90° in base alla quale la vista sugli affetti non è più dall'alto, ma orizzontale, dall'uomo sull'orizzonte dell'uomo. Ed è la forma sonata,  quest'universo chiuso in realtà aperto, a simboleggiare ed incarnare la perfezione di una lotta tra tesi ed antitesi che trova sempre la sua sintesi nel trionfo del bene e dell'umano contro le avversità che lo affliggono. È molto difficile, ma anche molto importante concentrarsi su questo aspetto di Beethoven e cercare di chiarire questo che è senz'altro il cuore della sua sinfonia e della sua poetica. La forma sonata è molto più che uno stile compositivo, è una forma mentis, è un'aspirazione poetica, ma anche filosofica, o meglio è l'incarnazione poetica di tale aspirazione filosofica. È la realizzazione di tale aspirazione. In quanto realizzazione di un'aspirazione filosofica, la forma sonata assurge con Beethoven ad una qualità di ideale. È l'ideale quello che viene sviluppato nella forma sonata. Si tratta dell'ideale dell'umanità che secondo Beethoven, sulla scorta di Schiller, attraversa i tempi e le regioni per affermare la sua universalità.
In effetti, il cuore dell'ideologia della forma sonata sta nel concetto di universalità. Usiamo qui il termine di ideologia nella sua accezione neutra e non dispregiativa, quale invece ha nella filosofia marxiana. Analogamente, come un sinonimo, utilizziamo il termine ideale. È un ideale quello della forma sonata che consiste precisamente nell'ideale di universalità.
La forma sonata, questo calco bitematico e tripartito, serve a Beethoven per esprimere tutto e per affermare il suo ideale di universalità. Ciò si vede molto bene anche nei primi movimenti di numerosi quartetti del cosiddetto stile di mezzo.
In un certo senso, ha ragione Jankelevitch, quando, criticando Beethoven e contrapponendolo a Debussy e Ravel, definisce la poetica di Beethoven come quella degli avvocati: secondo Jankelevitch, Beethoven vuole sempre dimostrare qualcosa e pertanto lo forma sonata è l'emblema di una musica per avvocati. La forma sonata in effetti è una forma dimostrativa, ma detta così, il suo cuore universalistico idealistico ne rimane escluso, quasi fosse frutto di un capriccio o di un'idiosincrasia. In tal modo si esprime, per esempio, DEUMM, quando quando usa il participio passato “imbevuto” a proposito degli ideali nei quali credeva Ludwig van Beethoven. Credo che questo tipo di definizione, oltreché offensiva e prima ancora che offensiva nei confronti di un grande genio artistico, tradisca l'incapacità di capire veramente qual è il cuore della forma sonata di Beethoven. Questi ideali si realizzano, trovano il loro pieno sviluppo ed apertura all'interno di quel sistema apparentemente chiuso che è la forma sonata. Non si tratta quindi di idiosincrasie di tipo filosofico, storicamente relativizzabili e minimizzabili, si tratta di un ideale che Beethoven riesce ad esprimere attraverso la forma sonata.
È noto, tal proposito, come ricordava tra gli altri sempre Glenn Gould, che ciascun autore, che molti grandi autori hanno bisogno di una loro formula per esprimere la creatività. Fino a che non avranno trovato tale formula, la loro creatività rimarrà come bloccata. Una volta trovata tale formula, la loro creatività, sbloccatasi, potrà esprimersi in numerose opere e capolavori. Tale è il caso, appunto, di Beethoven con la formula, o lo stile compositivo o il meccanismo della forma sonata e tale è anche il caso, altro esempio, di Arnold Schönberg con la dodecafonia. E naturalmente dovremo citare Johann Sebastian Bach con la sua formula, caratterizzante un'intera epoca della storia della musica, che potremmo sintetizzare con il termine di contrappunto. Si tratterebbe di puerili idiosincrasie? Forse sì, in quanto in ogni artista, in ogni persona creativa vi è un bambino che per esprimersi ha bisogno di un suo giocattolo. Dal punto di vista psicologico ciò può anche avere un suo grado di verità ed essere anche interessante per lo studio psicologico della persona e della personalità di alcuni artisti. Ma quale sia questo giocattolo è quasi irrilevante ai fini dell'analisi estetica, pertanto rimarcare in termini negativi (quasi si trattasse di un limite) la presenza del giocattolo stesso è a sua volta puerile. E ciò, perché ciò che conta a livello estetico non è la presenza di un giocattolo o la sua assenza, né il tipo di giocattolo presente, ma l'effetto che tale giocattolo, nelle mani di un grande autore, sortisce in termini di bellezza dell'opera, di capacità di costruzione di un mondo poetico. E così, riconosceremo che tali giocattoli hanno sortito un magnifico mondo poetico sia nel caso di Beethoven, sia nel caso di Schoenberg, sia nel caso di Bach.
Tornando per un attimo al discorso, più volte sopra toccato, sull’estetica e sul ruolo della musicologia, diremo che proprio della musicologia come strumento metodologico e dell’estetica musicale come disciplina filosofica è il cercare di cogliere,  enunciare e descrivere qual è la categoria dello spirito che l’autore intende esprimere in generale ed in quel brano in particolare (in ogni brano) e qual è il mondo poetico ivi evocato.
Non sono quindi giustificati nell'arte o nella scienza dell'interpretazione gli eccessi di storicismo tramite i quali vengono fatti prevalere discorsi stilistici legati esclusivamente o prevalentemente all'epoca di riferimento come tratto dominante, in una sorta di anonimizzazione dell'operato dell'artista. Così come è anche, quindi, necessario evitare di giustificare ed applicare nella scienza o nell'arte dell'interpretazione eccessi di tipo tecnicistico, in base ai quali lo strumento viene portato in primo piano, come se per il compositore costituisse il fine e non appunto lo strumento. Per strumenti intendiamo qui l'apparato tecnico-pratico musicale, inerente all'armonia, ai vari procedimenti compositivi, ecc… .
Naturalmente considerazioni come quelle citate appena sopra sono importanti in qualsiasi tipo di riflessione musicale. Abbiamo infatti sottolineato l’importanza del ragionamento sulla sostanza e sulla funzione fatto da Dahlhaus per sottolineare come gli stessi aspetti retorico poetici e quindi espressivi della sinfonia richiedano, per essere compresi come momenti topici di un processo, la conoscenza della forma sonata di cui la sinfonia stessa di Beethoven è massima espressione. Altro sarebbe, invece, fare assurgere quegli stilemi ad oggetto preponderante della riflessione estetica, con ciò mettendo in secondo piano il loro fine espressivo, estetico. Allo stesso modo, non avrebbe alcun senso eludere considerazioni di tipo storico stilistico, ciò che invece bisogna evitare è l'eccesso di tali considerazioni, capace di portare in secondo piano, ancora una volta, l'aspetto espressivo o meglio il fine estetico dell'autore e dell'opera che sono sempre la creazione di un mondo poetico e l'espressione di una categoria dello spirito. A proposito di quest'ultimo punto, e cioè della categoria dello spirito, occorre citare altre categorie che Beethoven ha citato, espresso o inventato. Per esempio, una grande categoria è quella del grande adagio. Nei secondi movimenti delle sinfonie, ma anche dei quartetti, mentre discorso parte meritano senz'altro i secondi movimenti delle sonate per pianoforte e di altre sonate, Beethoven ha in mente un'idea precisa di adagio che riesce a portare al massimo livello di espressività: si tratta di una categoria dello spirito che potremmo definire pacificatrice. Vi sono senz'altro in alcuni passaggi toni patetici e drammatici, ma prevalgono di molto, in quantità, gli adagi che si potrebbero definire distensivi. È il caso del secondo movimento della quarta sinfonia, più volte citato sopra. Si tratta di un tipo particolare di secondi movimenti che hanno una caratteristica impronta costituita da frasi estremamente ampie, talmente ampie da risultare quasi inconcepibili. Quale sia la categoria dello spirito espressa con frasi così ampie non sembra difficile da stabilirsi: si tratta della medesima aspirazione all'universalità espressa con i primi e gli ultimi movimenti in forma sonata, colorata di diverse sfumature: l'elevazione, il sentimento edificante, la pace. Questo tipo di secondi movimenti è una precisa categoria dello spirito. In altri nostri scritti abbiamo espresso il concetto qui definito “categoria dello spirito” o “mondo poetico” come “connotazione” o “regione estetica”. Tale è stato definito l'oggetto di indagine della filosofia della musica nei nostri scritti precedenti, ossia l’estetica regionale. Possiamo quindi considerare come sinonimi le seguenti espressioni: mondo poetico, categoria dello spirito, regione estetica. Possiamo altresì considerare la cosiddetta estetica regionale come l'oggetto delle seguenti discipline: estetica musicale, filosofia della musica, musicologia, critica musicale, senza che le diverse sfumature afferenti a tali discipline ne minino l’unità.
Merita ben altro approfondimento rispetto all'accenno fatto sopra il riferimento culturale nell'interpretazione, inteso come appartenenza territoriale del direttore allo stesso ambito del compositore. In tale accezione ristretta, possiamo senz'altro affermare che non si tratta di un vantaggio o di un pregio, ma semmai di un handicap iniziale. Infatti, notiamo che le interpretazioni di Beethoven dei direttori d'orchestra tedeschi non sempre brillano per qualità perché spesso peccano di pesantezza. Una sorta di stratificazione culturale interpretativa, ricca di tradizione, ma anche di pregiudizi interpretativi e di prassi esecutive entrate ormai nella memoria procedurale e non oggetto di rivisitazione critica fanno sì che i direttori della stessa area geografico-culturale del compositore spesso piacciono solo agli spettatori della stessa area di entrambi, più per partigianeria e per partito preso che per intima riflessione e convinzione. Come riferimenti esemplificativi dell'atteggiamento opposto a quello sopra indicato, mi rifarei alle splendide e culturalmente lontane interpretazioni di Beethoven di Leonard Bernstein e alle altrettanto splendide e culturalmente remote interpretazioni di Johann Sebastian Bach da parte di Glenn Gould. Come già notava Zurletti, proprio perché sguarniti di un certo milieu culturale, alcuni direttori (non tutti) risultano migliori di quelli autoctoni, e precisamente perché le loro interpretazioni rispecchiano un mondo poetico e categorie dello spirito più universali rispetto a quelle espresse dagli interpreti autoctoni.
A proposito dell'incertezza di alcuni direttori italiani molto legati alla cultura del belcanto, si nota che quando questi affrontano la musica sinfonica in generale ed in particolare quella di Beethoven mostrano lacune a volte impensabili per direttori di un certo livello. Si prenda ad esempio l'incipit della sesta diretto da Muti, dall'andamento incerto (che certo non può ascriversi all'arte del rubato o ad esigenze espressive pienamente comprensibili), con gli ottoni che coprono tutta l'orchestra, con quel non sapersi risolvere tra ritmo e canto, con un fraseggiare che sembra inseguire qualche stilema astratto, immemore di un progetto, di un'idea interpretativa: cattivi esempi di applicazione di un'estetica del bel canto. Allora, sempre secondo un'impostazione belcantistica e lirica, preferiamo la ponderazione di Carlo Maria Giulini che sicuramente mostra una ben precisa idea di ogni opera, di ogni brano, di ogni autore.
A volte Muti dà l'impressione che, laddove non ci siano leoni da domare, nessun circo, nessun teatro, nessun cantante istrione, nessun coro recalcitrante, nessun regista eccentrico, nessun do di petto, nessun applauso a scena aperta da strappare, le sue qualità e la sua motivazione vengano meno. Come notava Zurletti, la sottigliezza, in luogo della pienezza, l'ambiguità, in luogo della decisione (o meglio del decisionismo), ma anche la compartecipazione orchestrale, in luogo del dominio direttoriale, difettano a Muti. Vi sono quindi motivi ben precisi per definire non memorabili le sue interpretazioni delle sinfonie di Beethoven. Dove viene meno la necessità di governo, sembra mancare la direzione, nel senso di intenzione. Direi che si presenta qui un limite dei cosiddetti direttori concertatori, in contrapposizione ai cosiddetti direttori interpreti, nel senso che in molte circostanze, in molti luoghi, in molti brani, in molti compositori non sembra bastare la cura del dettaglio esecutivo per esprimere il senso dell'opera. Vero è che molti grandi direttori interpreti, a volte, non curando il dettaglio, rischiano di non riuscire a sviscerare il senso dell'opera. Inoltre, non possiamo ignorare i limiti del medium costituito dall’orchestra, quello strumento che non sempre è perfetto, né sempre risponde al volere dell'interprete. Fatte tali premesse, come sopra spesso abbiamo ripetuto, non è che siano, ovviamente, da buttar via le sinfonie dirette da Muti: della sesta, per esempio, si prenda il finale, reso da Muti in modo magnificamente e puramente lirico. Dove c’è da esprimere una liricità senza infingimenti, Muti arriva là dove altri non arrivano, perché non complica e non rende ambiguo ciò che è semplice e schietto. Una luce, un'aria, un'apertura che potremmo definire proprie della vocalità partenopea, intervengono ad illuminare con il canto alcuni tra i più celebri passi e brani che altri non rendono a dovere, passandovi sopra con imbarazzo o dando troppe cose per scontate. In ciò sta il senso più luminoso della vocalità napoletana, intesa come una nobile tradizione che affonda le sue radici appunto nella scuola napoletana della lirica e che ha - tra i grandi compositori - in Pergolesi uno dei suoi punti culminanti. Come dicevamo sopra, diversa è l'impostazione di Claudio Abbado, perché Abbado riesce a rendere lancinanti e culminanti (id est poetici) i momenti retorici della musica. Si tratta di una capacità che egli possiede in sommo grado e per la quale sono Leonard Bernstein riesce a stargli a pari. In più, egli la unisce alla poesia del canto: si tratta di un canto poetico e non a vele spiegate come quello di Muti, né di un canto epico, come quello di Giulini. Sono sfumature importanti che trovano riscontro anche nelle sinfonie di Beethoven interpretate da questi tre direttori italiani. Stante la poeticità a volte fuori controllo di Johannes Brahms, che sfugge alle maglie del rigore formale da Brahms stesso impiantate a guardia del proprio inconscio, il Brahms sinfonico di Abbado è ancora più convincente del Beethoven sinfonico di Abbado. Se parliamo di culmine poetico e retorico, sono ben pochi i direttori che riescono a stare al passo con i grandi direttori italiani. In un certo senso, la poeticità dei direttori italiani potrebbe dirsi in antitesi con la pesantezza teutonica di alcuni grandi direttori del passato. Non possiamo non nominare Furtwangler il quale sembra aspirare più a Wagner che a Beethoven, quando dirige Beethoven. In tal senso, per retorica di Abbado intendo qualcosa di molto diverso da quella di Furtwangler: uno esprime una potenza poetica, mentre l'altro cerca un gorgo dal fascino sinistro, finendo a volte preda della retorica nell'accezione deteriore del termine.
Si tratta di un aspetto molto importante, quello della mancanza di retorica, che abbiamo già sottolineato a proposito delle interpretazioni dei direttori americani. Potremmo definire i direttori italiani, sotto questo profilo o in base a tale polarità, come occupanti una posizione intermedia tra i più snelli direttori americani e i più pesanti direttori teutonici. Si tratta ovviamente di una polarizzazione di massima nella quale però trovano collocazione le differenze stilistiche, anch’esse di massima, tra direttori di aree geografiche ed appartenenze culturali differenti che trovano riscontro nel dato reale dell'esecuzione e dell'interpretazione. Diversamente non sapremmo rendere ragione di differenze palpabili nello stile interpretativo di più di un direttore per ogni area geografica indicata. Né tali differenze, in quanto collettive oltreché individuali, possono ascriversi al caso. L'esempio portato più sopra riguardante il pianismo di Glenn Gould e lo stile direttoriale di Leonard Bernstein è emblematico della distanza intercorrente tra il loro stile e quello di altri interpreti come per esempio Furtwangler, Karl Bohm tra i direttori, e Kempff e Backaus tra i pianisti. È possibile che un simile discorso sulla vicinanza e sull'alterità culturale, sull'appartenenza e sull'universalità come alterità costituisca un ulteriore polo tra quelli già citati. Ritengo ora molto importante parlare ancora del suono. Come ricordava Vladimir Ashkenazi, si può dire che vi sia un modo alquanto differente di vivere la musica da parte del direttore e da parte dello strumentista. Per il direttore, la musica si avvicina di più a un concetto astratto, laddove invece per lo strumentista vi è il piacere legato alla produzione di un suono. Secondo quest'ottica, quindi, possiamo aggiungere un'altra polarità a quelle da noi descritte: si tratterà della polarità tra direttori che amano produrre il bel suono e direttori che ignorano il piacere del bel suono. Siamo in una prospettiva, con questa polarità, limitrofa, ma non congruente con quella del bel canto, che invece mira alla piena espansione ed espressione della melodia. Per quanto riguarda la polarità del bel suono, possiamo senz'altro dire che il campione è Herbert von Karajan, per il quale il bel suono è di importanza centrale nella sua produzione artistica. Il cosiddetto suono di Karajan, corrisponde in realtà ad un ideale estetico parallelo ed autonomo rispetto all'interpretazione dei vari brani dei vari autori. Questo perché per Karajan, la produzione di un bel suono è sempre e comunque il primo obiettivo nel confezionare il suo prodotto. Ciò naturalmente non significa che egli non abbia e non esprima un'interpretazione di tipo approfondito e personalizzato, autore per autore, ma senz'altro si può dire che egli anteponga un'idea generale di interpretazione ed esecuzione che deve corrispondere ad alcuni canoni di bellezza ben precisi. Si tratta, in altre parole, di una sorta di pregiudiziale estetica che gli impedisce di produrre interpretazioni che siano al di fuori della sfera e dell'atmosfera del bello. Si potrebbe quasi dire che per Herbert von Karajan è importante far uscire ciascun autore dalla sua particolarità poetica per farlo confluire nel mondo poetico unico della bellezza sonora universale, quasi che ciascun autore non fosse pienamente consapevole di far parte innanzitutto e perlopiù del mondo poetico della bellezza sonora universale e che il compito del direttore fosse proprio quello di favorire ed accompagnare tale disvelamento per l'autore e per l'ascoltatore. E’ l'autore che crede di essere diverso dagli altri ed è l'ascoltatore che crede di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso dalle altre cose, quando ascolta un brano di un autore nuovo, mentre compito dell'interprete per Herbert von Karajan sarà quello di ricondurlo a una dimensione universale della bellezza sonora, facendogli percepire quel brano come parte di un universo di bellezza sonora. In tal senso, forse, si può interpretare ciò che venne scritto su un autorevole quotidiano nazionale quando Herbert von Karajan morì e cioè che egli era, nonostante la sua fame di modernità e tecnologia, l'ultimo dei grandi direttori classici. Il suo classicismo consisteva nel portare alle estreme conseguenze, in modo universale e quindi classico, la bellezza del suono. Inutile dire come una tale prospettiva possa apparire a tutta prima parziale. Non si tratta di sminuire l'operato di interprete di Herbert von Karajan, ma di riconoscerne un obiettivo estetico di primaria importanza e nient'affatto riduttivo, come quello della bellezza sonora. Un altro grande obiettivo di Herbert von Karajan fu, come abbiamo scritto sopra, quello di imprimere una forza divina o disumana alle sue esecuzioni, quindi un ideale divino di potenza orchestrale sovrannaturale che lo pone, in certo senso, agli antipodi di Leonard Bernstein. Mentre questi cercava nell'espressione del sentimento l’elemento umano di ogni autore e di ogni brano, Herbert von Karajan cercava invece nel dispiegamento della potenza l’elemento divino in grado di far percepire la bellezza sovrannaturale della musica; rimando ancora, qui, all’articolo del 1987 di un famoso quotidiano nazionale che recitava così: “Karajan incanta, Bernstein trascina”. Credo che tale titolo sintetizzi molto bene ciò che abbiamo sopra detto e cioè la bellezza sonora come potenza sovrannaturale da un lato e, dall'altro, l'espressione del sentimento umano. Naturalmente tali ultime annotazioni possono apparire in qualche modo estremistiche. Dobbiamo anche pensare che negli anni ‘80 del 20º secolo tali temi costituivano una sorta di appassionante gara tra sostenitori di fazioni opposte: chi favorevole a Bernstein, chi favorevole a Karajan. Come ricordavo più sopra, si trattò di un fenomeno di costume che discendeva da un clima culturale ben preciso: il clima era quello dell'importanza della figura del direttore d'orchestra. In tale ottica, dovremmo pensare perché invece ai nostri tempi non vi sono più dispute di questo genere e non vi è più la centralità della figura del direttore d'orchestra. Come abbiamo detto più volte, quindi, il ruolo del direttore è venuto purtroppo scemando all'interno della società, riducendosi a una sorta di banchiere della musica, di burocrate del bello, anonimo, per cui se non c'è un impiegato, ce ne sarà un altro, ed il servizio rimane aperto. Si tratta di una concezione orribile della musica, impersonale, con ciò tradendo l'essenza stessa della musica che invece è squisitamente personale.
Come si sarà notato, i discorsi fin qui condotti in questo scritto riguardano in maniera non separata, ma bensì ciclica, i direttori, le interpretazioni, i brani, le opere, gli autori, secondo un metodo che vorrei definire borghesiano, in cui non vi sono suddivisioni, analisi, capitoli, ma solo spirali, sintesi, unità, percorsi non definiti, ricerche non programmate, fine ignoto e percorso circolare, mondi inesplorati e che devono essere esplorati, stazioni lontane, trattati scientifici che si uniscono con la fantasia letteraria, colori, suoni, forme, rumori, tentativi non sempre riusciti, attentati al pensiero analitico, cocktails da sorseggiare nei bar, rumori di ambulanze, ostentazione di vacuo virtuosismo, capacità muta di ritrovare suoni, freschezza, alterità, straordinarie possibilità insite in ognuno di noi, manfrine balbettanti, tesori nascosti, unità, umiltà, acqua e libere associazioni di parole. 
Vorrei ritornare un attimo sulla differenza tra il lirismo di Muti e quello di Abbado, qualificando quest'ultimo, questa volta, come un lirismo oltreché poetico, incline ad andare oltre, un lirismo trascendente e maniacale. A proposito di poeticità maniacale, unitamente al contemporaneo (mondo per il quale Abbado ha sempre avuto un'attenzione sincera e particolare), ed a proposito di attitudine al parossismo, alla retorica e in certo qual modo al paradosso, penso ad Abbado e penso a Kurt Weill, penso al mondo dell'Opera da tre soldi di Brecht. Trovo che l'universo culturale, oltre che poetico (ed anche sociopolitico nella accezione più alta del termine) sia proprio di Abbado e sfugga completamente a Muti. Oserei dire che l'innesco di una dimensione poetica di tipo trascendente, la possibilità di esprimere il paradosso e il parossismo retorico, attengano a un'inclinazione ed a un bagaglio culturale che Abbado possiede ai massimi termini e che sono del tutto assenti in Muti. Se potessimo fare un paragone di tipo figurativo, potremmo dire che la tavolozza poetica di Muti possiede solamente colori puri, mentre quella di Abbado è ricca di sfumature. Possiamo fare riferimento a sentimenti di ambivalenza per descrivere le sfumature poetiche che Abbado riesce ad esprimere, a differenza di Muti. E non si tratta di differenze di poco conto. Abbiamo anzi, forse, individuato un'ulteriore polarità, nel definire un asse lungo il quale si colloca ad altezze diverse chi possiede maggiore o minore cultura, o meglio chi riesce ad esprimere maggiore cultura, o meglio chi mostra di appartenere a universi culturali più complessi. Lungo tale direttrice (che potremmo chiamare asse culturale) si colloca al sommo grado appunto Claudio Abbado, seguito da direttori che, come per esempio Leonard Bernstein, dimostrano di potersi addentrare appieno in mondi lontani. Incredibile e proustiana è ad esempio la capacità di Leonard Bernstein di entrare nel mondo di Gustav Mahler ed esprimere tutte le sue sfumature, pur così lontane a volte anche tra loro. Lungo tale asse, però, a parte eccezioni come quella di Leonard Bernstein, i direttori americani sembrerebbero a tutta prima più svantaggiati rispetto quelli europei, anche se ovviamente non bisogna generalizzare. Così, lungo quest'asse, collocherei piuttosto indietro un direttore che pure amo tantissimo come Lorin Maazel. In parte replicherei tale appunto anche nei confronti di Zubin Mehta e Daniel Barenboim. Discorso a parte invece mi sembra meritare Vladimir Ashkenazi il quale ha approfondito in particolare, e in modo eccellente, l'universo culturale della musica russa, sua patria originaria. Naturalmente non bisogna esagerare in un discorso di questo genere, principalmente perché la cultura è un fatto personale non legato in modo esclusivo all'area geografica di appartenenza, né tantomeno si può attribuire una minor capacità culturale ad alcune aree geografiche (come ad esempio gli Stati Uniti). Difetto analogo ed opposto attribuirei invece, pur con inevitabile generalizzazione, ai direttori tedeschi dalla prima all'ultima generazione, in quanto solitamente imbevuti di una loro idea di cultura autoctona, brutalmente schematizzabile come pesantezza teutonica e in quanto tale acritica e priva di alterità, esotismo, capacità di immedesimarsi in altri tipi di situazioni culturali, che è invece la caratteristica migliore che attribuisco ad Abbado. Secondo un ragionamento di questo tipo, anche la direttrice di tipo culturale punta, come altre polarità descritte sopra, all'universalità quale attributo migliore per se stessa.
Accenno qui ad un argomento che riguarda l'interpretazione in generale. Si tratta della vicenda del “già dentro”. Ho cercato di riassumere questo concetto quando, in un libro precedente, ho parlato della poltrona e del compositore che, stando sulla poltrona e componendo, entra a far parte del quadro. Altrove ho denominato questo fenomeno come poetizzazione del mondo. Ora vorrei esprimere tale concetto con l'espressione “già dentro”. Con tale espressione intendo precisamente l'esplosione dell'espressività che si verifica quando viene abbandonato l'atteggiamento del voler dimostrare qualcosa. In tal caso, quindi, avremo un interprete che non sa di sapere, per parafrasare il famoso motto socratico. Avremo cioè un interprete che esprime tranquillamente all'interno del mondo ciò che il brano eseguito e il mondo stesso esprimono e lo fa senza tempo e senza luogo definito, può farlo quasi inconsapevolmente, direi quotidianamente e lo fa al massimo livello. Raggiunge quel sublime attraverso la quotidianità, come già aveva preconizzato Glenn Gould.

Riguardo ancora al piacere del suono, occorre anche fare un ragionamento sulla diversa attitudine all'espressione del piacere sonoro da autore ad autore.
Potremmo pensare per esempio che Ciaikovskij abbia una maggiore attitudine alla piacevolezza del suono rispetto a Beethoven e che di conseguenza interpreti ed orchestre con maggiore attitudine al piacere sonoro possano dirigere ed eseguire meglio autori ed opere con tale attitudine rispetto ad altri interpreti ed orchestre che, possedendo una minore attitudine alla piacevolezza sonora, possono dirigere ed eseguire meglio autori ed opere con una minore attitudine alla piacevolezza sonora.

Volevo dire ancora due cose sul secondo movimento della quarta, questa volta diretto da Muti. Devo dire che il suo incipit è uno dei migliori (trattandosi di un movimento lirico, ciò non mi sorprende, data la maestria degli italiani nei passaggi che richiamano il canto). Non solo Muti fa sentire i violini secondi, dando espressività, significato e moto alla linea melodica discendente (solo Bohm li fa sentire così bene), ma riesce ad adottare un fraseggio così slanciato da assomigliare a quello di un quartetto d'archi. Anche la scansione della nota formula ritmica che fa da tessuto al brano è la migliore, in Muti: palpitante, precisa, né troppo stretta, né lassa, flessibile e completamente adattata alle esigenze espressive. Le durezze beethoveniane sono trasformate in drammatiche esigenze espressive, in sospiri, in visioni baluginanti. L'intiero movimento è persino commovente. La ruota delle terzine nella sezione del flauto non è resa così meravigliosamente come nell'edizione video di Abbado degli anni '80 (il ritmo si annacqua un po' troppo in questo passo), ma la resa complessiva del movimento è la migliore tra quelle di tutti gli interpreti. E non è cosa da poco.
Per quanto riguarda il terzo movimento della quarta, Muti (scelta anche in questo caso interessante, anche se maggiormente discutibile nell'esito complessivo rispetto all'interpretazione del secondo movimento) sceglie un andamento vertiginoso, pratica che gli è congeniale (quando è deciso, Muti va, non ha paura della velocità, né di travolgere le povere orchestre o i cantanti con l'andamento vorticoso), si pensi anche - tra i mille esempi - all'ouverture delle mozartiane Nozze di Figaro. 
Il suo quarto movimento della quarta, invece, non convince. Qui Muti commette l'errore imperdonabile di rubare dove gli pare, in barba alla regolarità della scansione ritmica (e per giunta in un movimento che invece è basato interamente su di essa), per realizzare degli effettacci di espressività: e con Beethoven queste cose non si fanno. Un'imperdonabile caduta di stile.


Epilogo
Non saprei fare una panoramica dei migliori direttori del mondo per quanto riguarda le sinfonie di Beethoven. Posso dire che in età giovanile ho molto amato l'edizione dei Wiener con Leonard Bernstein. Ora, in età matura, amo molto l'edizione di Lorin Maazel. Sono incerto sul giudizio da dare alle altre edizioni: non sono toccato dal fascino di Furtwangler. Riconosco alcune intuizioni geniali nell'edizione di Herbert von Karajan, in particolar modo nell'ottava sinfonia e in parte nella sesta sinfonia. Riconosco spunti di interesse nelle edizioni di altri interpreti: ve ne sono in Abbado, Muti, ma anche in Bohm, Jochum, Giulini. Poiché trovo interessanti le edizioni dal carattere maggiormente ritmico, apprezzo molto quella di Georg Szell. Noto che di fatto ciascun interprete rende al meglio alcuni passi piuttosto che altri e che i passi resi al meglio da un interprete sono perlopiù diversi da quelli resi al meglio da tutti gli altri, ma non concordo con l'idea che ogni accesso sia un modo di possedere l'opera. Credo nell'interpretazione ideale, cioè ottimale e penso che alcuni vi si avvicinino in modo significativamente maggiore rispetto ad altri. Se dovessi fare una classifica dei cicli sinfonici incisi dai vari interpreti, metterei ai primi due posti Bernstein e Maazel, l'uno per la profondità e l'altro per la snellezza. Penso anche che uno degli aspetti più importanti nell'interpretazione delle sinfonie di Beethoven sia quello di tenere insieme l'aspetto ritmico con quello lirico, perché una scelta preferenziale netta in una direzione piuttosto che nell'altra finisce per rendere a metà la bellezza delle sinfonie di Beethoven. Tuttavia, non posso negare che in alcune circostanze le scelte nette esercitino notevole fascino, come nel caso del finale dell'ottava sinfonia diretto da Herbert von Karajan. Ma anche l'aurea mediocritas esercita un'innegabile fascino, come nel caso del ciclo di Bohm.

Potremmo anche passare in rassegna le sinfonie di Beethoven, in modo tale da esprimere un giudizio estetico complessivo.
Nel corso degli anni ho apprezzato sempre di più la prima sinfonia, per il carattere snello e agile, la perfetta quadratura della forma sonata, l'impeto giovanile.
Ho certamente apprezzato sempre la seconda per il suo equilibrio tra maggiore e minore, per la sua perfetta quadratura della forma sonata, per la sua drammaticità,  contenuta entro termini razionali.
La terza è una sinfonia senz'altro spinosa, ed ho lungamente faticato per apprezzarla, incentrando la mia attenzione soprattutto sull'aspetto ritmico, riconoscendovi la chiave interpretativa principale, per poi passare da lì ad apprezzarne l'aspetto lirico, giungendo infine a coglierne il cuore epico che la rende così affascinante a lungo termine.
Della quarta ho imparato ben presto ad apprezzare il secondo movimento, ritenendolo il cuore della sinfonia stessa, a scapito degli altri che non sono mai riuscito ad apprezzare particolarmente, sicché forse è la sinfonia che ho amato ed ascoltato di meno.
La quinta è un rompicapo, anzi il rompicapo per eccellenza, ma devo dire che ho imparato presto ad apprezzarne il primo movimento dall’interpretazione di Leonard Bernstein. Non ne apprezzo il finale, troppo trionfalistico per me, anche nei miei anni ultra-giovanili.
La sesta è la più piacevole delle sinfonie, ma paga lo scotto della noia per la sua eccessiva lunghezza e ripetitività. Sicché, ne apprezzo massimamente l'interpretazione senza ritornelli e molto snella di Herbert von Karajan.
Della settima ritengo rimarchevole il secondo movimento, celeberrimo, nell'interpretazione di Leonard Bernstein e in parte anche l'ultimo, così festoso, sempre nella sua interpretazione.
L'ottava è la sinfonia che ho apprezzato maggiormente negli ultimi anni, per quel suo mix di leggerezza e parossismo, ravvisabile nel primo e soprattutto nell'ultimo movimento. Naturalmente ho sempre apprezzato anche il breve e leggero secondo movimento, soprattutto nell'interpretazione di Bernstein.
La nona è un altro eterno rompicapo, ma ho sempre ritenuto che il primo movimento, in particolare la sua coda, nell'interpretazione di Leonard Bernstein, sia uno dei brani più belli in assoluto della musica classica. Anche l'ultimo movimento è un rompicapo: recentemente ne ho apprezzato l'interpretazione di Claudio abbado, per la sua smagliante vocalità.


Conclusioni

Vengo a rapide e indolori conclusioni. 
Il titolo del presente saggio, "Altre divagazioni", è la voluta imitazione del titolo del saggio di Borges "Altre inquisizioni".
Aspirazione massima sarebbe stata imitarne lo stile, la sostanza poetica e filosofica insieme, cosa che penso mi sia riuscita in miserrimo grado.
Inoltre, questo avrebbe dovuto essere un libro, invece ne è uscito un saggio in forma lunga. 
Esaurita l'ispirazione del momento, ho deciso di concluderlo.
Mi scuso per questo con chi lo ha letto.

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