Tre saggi di filosofia applicata
1)
FILOSOFIA APPLICATA ALLA CRITICA LETTERARIA
Contraddizioni
(recensione
del libro Kafka, romanzo e parabola di
Giuliano Baioni)
Giuliano
Baioni, in Kafka, romanzo e parabola, ci fornisce un quadro
che ci reca un'impressione ambivalente: come se il critico non
riuscisse a soddisfare alcune delle istanze che l’opera di Kafka
sembra invece porre.
I motivi di
perplessità potrebbero riassumersi nella critica seguente: Baioni
sembra cadere in contraddizione. Egli infatti dichiara di essere
concorde con l’interpretazione polisemica già inaugurata da alcuni
interpreti di Kafka, quell’interpretazione cioè in base alla quale
si tenta di rendere ragione, esplicitandoli, di tutti i possibili
significati e di tutti i possibili piani interpretativi del testo
kafkiano. Alcune di queste direttrici interpretative tradizionali,
sviluppate in modo predominante ciascuna da gruppi di critici diversi
sono le seguenti: la ricerca, nell'opera di Kafka, del significato
psicoanalitico-freudiano, di quello sociologico, di quello più
specificamente marxiano, di quello teologico, di quello più
propriamente ebraico, di quello teoretico-filosofico.
Ora, i limiti della
prima critica kafkiana consistono secondo noi proprio nel non aver
considerato come centrale, nell’ermeneutica dell’opera del
Nostro, la esplicitazione puntuale – per ogni testo di Kafka – di
tutti i sopracitati (ed eventualmente anche di molti altri)
significati, e non soltanto di alcuni di essi, o di uno solo, fatto
assurgere ad unica chiave interpretativa in base ad una petitio
principii, da parte del
critico letterario di turno; ma, soprattutto, dovrebbe a nostro
avviso essere centrale la ricerca della possibile relazione tra tali
significati, la ricerca quindi di ogni eventuale meta-messaggio
dell’Autore. Per meta-messaggio si intende qui ogni possibile
eventuale ulteriore prospettiva che derivi da quelle predette, senza
esserne meramente o meccanicamente la somma. Spiegheremo meglio più
avanti cosa si intenda per ermeneutica del meta-significato kafkiano.
Tornando al Baioni,
egli, come si anticipava sopra, da un lato concorda con tale
prospettiva di ermeneutica del testo kafkiano di tipo polisemico,
dall’altro lato, però, de facto non sempre sembra seguirla
e – al pari di molti dei critici che egli cita e che lo anno
preceduto – pare spesso intento a cercare un solo significato
dell'opera, del brano, del passo, abbracciando quindi una e una sola
prospettiva alla volta, non invece più prospettive insieme, in modo
coordinato e comparativo, come invece un atteggiamento erneneutico di
tipo polisemico sembrerebbe richiedere. Ma vediamo anzitutto come
egli si pone nei confronti dei vari piani interpretativi citati.
L’interpretazione
freudiana subisce in Baioni un capovolgimento che sembra stroncarla
sul nascere: anziché usare le categorie freudiane per spiegare i
testi di Kafka, Baioni usa i testi di Kafka per spiegare il rapporto
particolare che Kafka aveva (o meglio avrebbe avuto: il condizionale
è d'obbligo) con suo padre. Utilizza cioè l’interpretazione
freudiana al servizio di in un biografismo non finalizzato al
reperimento di un significato del testo. Usa le categorizzazioni
freudiane per spiegare – soprattutto nella disamina della Lettera
al padre – il rapporto che Kafka aveva con suo padre. Per
Baioni l’interpretazione freudiana di Kafka si limita a questo. Non
figura una sua versione, tra le tante presenti, dell’interpretazione
psicoanalitica della Metamorfosi, fatto tanto più
inspiegabile dal momento che tale racconto è uno di quei casi in cui
l’interpretazione freudiana viene riconosciuta unanimemente come
fertile di sviluppi e probante nel rendere ragione della dinamica
interna di tutta quanta la storia del protagonista Gregor Samsa.
L’interpretazione
sociologica baioniana offre a nostro avviso un ulteriore esempio di
contraddizione tra una prospettiva ermeneutica polisemica dichiarata
nelle intenzioni ed una assenza di prospettiva ermeneutica polisemica
nei fatti. Baioni dichiara di accettare come valida anche
l’interpretazione sociologica di Kafka (sarebbe peraltro
impossibile negarlo). Ma di fatto lungo tutto il suo testo egli
sembra sottovalutarla. Solo per il Processo egli accetta di
trattare sociologicamente l’opera, spiegando (per la verità in
modo assai sintetico) gli intrecci tra il significato ebraico e
quello sociologico: la Legge come manifestazione degli ebrei del
Tempio, che per manifestarsi si serve di un mondo preso di forza dai
sobborghi degli operai cechi, che si contrappongono all’ebreo
borghese occidentale K.. Viene però solamente spiegata la
contrapposizione tra ebraismo occidentale-borghese-di lingua tedesca
ed ebraismo orientale-proletario-di lingua ceca. Per tutti gli altri
testi di Kafka (su tutti, ancora la Metamorfosi) Baioni sembra
invece ignorare tale prospettiva, o meglio, la ignora nel corso del
proprio saggio, mentre vi polemizza in maniera massiccia nelle sue
note, dove appare molto impegnato in una critica serrata ad uno degli
esponenti dell’interpretazione sociologica: Wilhelm Emrich. La
polemica sui dettagli dell’interpretazione dello Emrich fornisce un
esempio di energia esegetica forse sprecata dal Baioni. Se infatti il
critico avesse messo la stessa precisione e la stessa minuziosità
che mette a confutare i passi di Emrich, per analizzare il testo
kafkiano in modo polisemico, ci avrebbe fornito esiti forse più
incisivi; si veda, per esempio, l’efficacia analitica di Mauro
Nervi, autore del progetto - e sito omonimo - Kafka Project il
quale si rifà esplicitamente ad una analisi del linguaggio di
tipo wittgenstainiano.
L’interpretazione
Marxiana viene liquidata con un solo riferimento parentetico. Sembra
che tale prospettiva non interessi il critico. Eppure è innegabile
che tra i temi che Kafka pone vi sia l'oppressione delle classi
disagiate da parte del potere, anche se è noto che la critica
marxsista bollò Kafka come reazionario per la visione negativa che
l'Autore darebbe delle masse: caso tipico è la famosa scena del
romanzo America (vista dal
protagonista dal balcone, quando è prigioniero in casa di Brunelda),
in cui due candidati alle elezioni, che sembravano dominare la folla
in comizio, ne vengonoe all'improvviso trascinati e sballottati a
destra e a manca, in un rapporto che sembra essere sempre e comunque
di dipendenzae di dominio, sia pure in alternanza e a parti
rovesciate, tra un leader
visto come populista e domatore e una massa intesa come dipendente
e/o ribelle, ma comunque sempre forza irrazionale, non diversamente
da come viene interpretata da Le Bon prima e da Freud poi.
L'interpretazione
in chiave teologica dell'opera di Kafka, tipica dell'amico dello
scrittore, Max Brod, viene dal Baioni incorporata in quella più
propriamente ebraica. Appare a tal proposito non pienamente
comprensibile il motivo per il quale Baioni impieghi una parte assai
rilevante dell'impegno esegetico nel cercare riferimenti –
all’interno del testo kafkiano – al mondo reale di segni e
simboli ebraici del milieu storico culturale kafkiano. Ci si
chiede cioè che aiuto possa dare alla comprensione del testo
kafkiano, rilevarvi tutti i riferimenti all’ebraismo reale, senza
metterli in relazione con il significato estetico dell’opera, ma
facendone solo un cifrario privato dell'Autore. Sembra interessare al
Baioni – a tratti - un'indagine religiosa, o di costumanza
religiosa, piuttosto che il tentativo di scoprire quale significato
abbia l’uso di tali riferimenti all’interno della poetica
kafkiana.
E qui si giunge a
nostro avviso ad un problema centrale nell'interpretazione kafkiana
dataci dal Baioni. Egli non sembra concepire quasi una prospettiva
estetologica. Non sembra cioè curarsi cioè del fatto che gli
episodi biografici e i riferimenti della vita sociale e religiosa
dello scrittore siano trasfigurati, subiscano un salto e uno scarto
ineliminabili nei quali consiste, in altri termini, la stessa
creazione artistica e l’autonomia dell’opera d’arte dalla vita
e dal tempo in cui essa è concepita. Se si rifiuta tale principio,
verificabile anche empiricamente quando si ha occasione di osservare
da vicino la nascita della creazione artistica, si rischia di essere
preda di un biografismo cronachistico, forse incolore, almeno tanto
quanto lo era (esteriormente incolore) la vita di Kafka.
Il rifiuto apparente
di una prospettiva estetologica da parte del Baioni non sembra avere
solo le conseguenze sopra citate, ma anche ulteriori limiti. Sembra
venire meno da parte del critico – a tratti - quale guida per
un’interpretazione, per la ricerca di una prospettiva
interpretativa ottimale, l’aggancio all'analisi del testo in
funzione di una spiegazione della bellezza del testo kafkiano.
Mancherebbe l'analisi del testo in funzione estetologica, da parte
del Baioni. Tale analisi del testo, infatti, non dovrebbe essere fine
a sé stessa, ma sempre finalizzata a scoprire i rapporti formali e
contenutistici delle varie parti del testo stesso, in grado di
chiarircene l’apoditticità e la bellezza. Baioni sembra non
riconoscere appieno l'importanza di una tale prospettiva ermeneutica
in chiave estetologica. Ciò sembra portarlo, a tratti, ad alcuni
giudizi di valore sull'opera kafkiana che per la loro apparente
sommarietà lasciano alquanto perplessi. Per esempio, il racconto
Sciacalli e arabi viene definito senz’altro come uno dei più
brutti scritti da Kafka: ammesso e non concesso che ciò sia
sostenibile, il critrico omette di fornircene le motivazioni. Altro
esempio: il frammento cassato del Processo, in cui il
protagonista K. si veste di abiti rabbinici dismettendo e
abbandonando il suo abito e la sua vita precedente è – ci viene
comunicato per inciso dal Baioni – uno dei più belli mai scritti
da Kafka: sia pure, ma tale giudizio estetico non viene argomentato
dal critico.
E veniamo a quello
che secondo noi è, pur se non una contraddizione, uno dei limiti
principali della trattazione del Baioni: lo storicismo evoluzionista.
Con tale termine intendiamo qui l’adesione implicita e non
argomentata, e la messa in pratica nel testo critico, di quel tipo di
presupposto esegetico di tipo storicistico, con il quale si suppone
che ogni opera successiva di ogni autore sia un po’ più matura, un
po’ più significativa di quelle precedenti e comunque – secondo
un sistema a gradini – sia basata sui presupposti, sulle
conclusioni o sulle domande lasciate aperte dalle opere precedenti.
Secondo tale prospettiva la prima sinfonia di Beethoven sarebbe più
immatura della seconda e soprattutto della terza perché risentirebbe
ancora di stilemi settecenteschi, la quarta sarebbe un passo indietro
rispetto alla terza perché meno lunga, meno potente, la quinta
costituirebbe un apice per vigore battagliero, ecc… Il presupposto
è sempre una sorta di climax ascendente, o comunque una
dialettica evoluzionistica, come se si trattasse di una creatura,
quella costituita dalle varie opere scritte via via dall’autore,
che cresce e che con il crescere si fa via via “migliore”. E,
alla maniera di una pedagogia prerousseauiana, si ritiene che il
fanciullo sia più immaturo (non anche differente e per molti versi
forse migliore) dell’adulto e che la condizione ottimale sia l’età
adulta. Ma la creazione artistica non è schiava di tale dialettica
evoluzionistica e accade molto spesso, per riconoscimento unanime
della critica e del pubblico a distanza di anni, che si ritenga –
fondatamente – un opus 1 migliore di tutte le opere
seguenti. Per Baioni invece la metamorfosi è un circuito
chiuso, il processo è incompiuto per il semplice motivo che
non ha soddisfatto le esigenze dell’Autore di universalizzare e
render ragione nell’opera d’arte del dato biografico costituito
dal suo fidanzamento fallito, ecc… Ma, a questa stregua, si sarebbe
potuto benissimo dar credito alle folli istanze di Virgilio che –
analogamente a Kafka – ordinò di bruciare l’Eneide perché
non lo convinceva appieno, in una sorta di maniacale sete di
grandezza e perfezione, e ci saremmo privati così di una miriade di
capolavori. Lo spazio dedicato all’analisi dei romanzi è crescente
(meno per America, un po’ di più per il Processo, molto di più
per il Castello). I primi racconti vengono ritenuti delle specie di
saggi da studente molto dotato, ma un po’ impacciato.
2) FILOSOFIA APPLICATA ALLA CRITICA MUSICALE
GOULD E
DINTORNI
(Saggio
sul pianista canadese Glenn Gould)
Nel 1982 un ictus
strappava al mondo uno di quei musicisti e intellettuali di cui
si può dire in tutta tranquillità, senza incorrere in alcun rischio
di retorica, che non sarà mai abbastanza compianto.
Sia chiaro subito che nel
presente, breve tentativo di delineare alcune caratteristiche umane,
musicali e intellettuali del grande pianista torontese, rifuggiremo
dalla discussione, del tutto superficiale, della sua “stravaganza”
esteriore, cui pure molti appassionati (appassionati del personaggio
creato dalle case discografiche e dai media, più che della
musica) si abbeverano. Nulla ci importa, per principio, della sua
sedia bassa e rotta, come anche del suo abbigliamento invernale
portato in sale iper-riscaldate, e simili amenità, poiché, caso
mai, per chi fosse alla ricerca di stranezze, ben più scalpore
avrebbe dovuto destare, a rigor di logica, un altro fatto, molto
importante: il buio sulla sua vita privata affettiva (segreta oppure
del tutto inesistente?).
Nel delineare un breve
ritratto di Gould rifuggiremo altresì da quella sorta di
“beatificazione” di cui lo fa oggetto il suo maggiore critico
(oltre che grande amico) Bruno Monsaingeon, il quale, negando tutta
la paccottiglia di questioni superficiali sollevate attorno al
fenomeno Gould, ne esagera però l’aspetto di spiritualità
visionaria, facendone una sorta di messia di una nuova religione
dell’umanità e della musica.1
Appare come un tradimento dello stesso “gouldismo”, inteso come
stile di pensiero che rifiuta tutte le iperboliche e
sentimentalistiche teorie del “genio” e dell’”ispirazione”,
dare di Gould un ritratto - come fa a volte Monsaingeon - in termini
apertamente misticheggianti.
Può sembrare curioso,
nel tentativo di delineare alcuni tratti salienti di una personalità
intellettuale complessa e ricca di spunti filosofici qual è quella
di Glenn Gould, partire -come faremo noi- da un confronto, anche se
il termine di paragone è un altro musicista tutt’altro che
sconosciuto quale Leonard Bernstein. Il motivo della scelta, da parte
nostra, di un simile approccio al “pianeta Gould” (il confronto
tra alcune caratteristiche interpretative di Gould e di Bernstein)
risiede nel fatto che in tal modo ci è più facile entrare subito
nel vivo della personalità di Gould, in quanto quella personalità,
con i suoi ideali di purezza e i suoi tic intellettuali, costituisce
già da sola il contrassegno di una cifra stilistica ben precisa, e
ci indica la presenza di una figura di intellettuale “a tutto
tondo” molto rara, non solo in campo musicale.
Se non fosse per la
collaborazione con Stokowski (limitata -è vero- all’incisione
dell’Imperatore di
Beethoven, a un documentario radiofonico sul direttore e a cenni di
reciproca stima, ma riconosciuta senz’altro come straordinaria
dallo stesso Gould) si sarebbe portati a dire che il motivo della
scarsa considerazione di Gould per Bernstein potrebbe risiedere nella
concezione edonistica della musica e dell’interpretazione, propria
del compositore di West Side Story.
Numerosi sono infatti i passi degli scritti di Gould in cui egli
indica nel rifiuto dell’edonismo (del suono e -più in generale-
della forma e dell’interpretazione musicale) uno dei capisaldi
della sua concezione complessiva dell’interpretazione,2
tale da fargli rifiutare Chopin, e da fargli apprezzare Mozart solo
in quanto non edonista, cioè snaturandolo non poco. Eppure
l’incisione del quinto concerto di Beethoven con Gould al piano e
Stokowski sul podio è lì ad avvertirci che l’idiosincrasia di
Gould verso l’edonismo (e il maestro Stokowski era un campione
dell’edonismo sonoro, un cultore del bel suono orchestrale inteso
come vettore di contenuti interpretativi già di per sé pregnanti)
non era così centrale, almeno non tanto da inibirgli un’intesa
musicale (e umana) col vecchio maestro, intesa che nessun critico ha
esitato a definire eccellente, per gli ottimi esiti interpretativi
dell’incisione stessa di quel concerto. Il movimento iniziale viene
suonato da Gould più lentamente rispetto ad altri interpreti, e tale
lentezza, perseguita e mantenuta fino all’ultima battuta con tenace
meticolosità dal pianista canadese, conferisce già solamente
all’incipit
dell’Imperatore una
solennità agghiacciante.
Non per motivi
anti-edonistici, dunque, Gould teneva in poca considerazione (come
risulta da molte sue dichiarazioni, sia pure fatte di sfuggita)3
Bernstein, direttore che del piacere in musica faceva in ogni caso
uno dei motivi conduttori della sua arte interpretativa, ma per un
altra ragione. Per Bernstein la musica si configurava non solo come
gioia, sentimento che gli ispira comunque anche il titolo di un libro
(The Joy of Music), ma
anche come esaltazione, potenza ed estroversione che si esprimono in
un istante che non può non essere fuggevole, e che ha nel presente
la sua dimensione privilegiata. Concezione romantica della musica
come espressione di sentimenti, quella di Bernstein; concezione che
però si serve dell’attimo ed in esso si risolve interamente, prova
ne sia anche il fatto che la maggior parte delle registrazioni fatte
da Bernstein sono live.
Questa esaltazione,
questa musica intesa come espressività viscerale, a Gould
ripugnavano profondamente. Alla domanda fatidica: “Ritiene che la
musica registrata produca sull’ascoltatore un effetto estetico e
fisico analogo a quello della musica dal vivo?”4
Gould risponde con orgogliosa chiarezza: “No, e soprattutto non
credo debba farlo. A mio avviso...la musica registrata
dovrebbe...avere un effetto analogo a quello di un
tranquillante...”.5
La musica per Gould dovrebbe dunque indurre a uno stato di
contemplazione, tale da far emergere il sublime dalla tranquilla
serenità che presuppone una mancanza di fratture su molteplici
livelli: meno fratture tra artista e ascoltatore, nessuna frattura
tra l’esperienza del sentire musica e la normalità quotidiana,
meno fratture tra momenti alti e momenti bassi, tra io e mondo (topos
romantico), ecc... Non una musica come esperienza “la...più simile
all’amore”,6
come afferma invece Bernstein, artefice di una vera e propria
rivoluzione nello stile direttoriale, con cui si abbandona la
compassata e mendelssohniana asetticità, in favore di una figura
dionisiaca e wagneriana del direttore stesso, con un di più di
fisicità, sensualità e -verrebbe da dire- “sessualità” del
gesto e della mimica facciale, come del movimento del corpo, che non
trovano eguali nella storia della direzione d’orchestra. Per
Bernstein il direttore d’orchestra dovrebbe con ogni mezzo cercare
di “provocare...scariche di adrenalina”7
negli orchestrali e nel pubblico.
Nulla di tutto questo nel
pianismo di Gould, ma una concezione della musica come continua e
costante contemplazione di mondi di sublime bellezza, in grado di
elevare moralmente lo spirito, ma integrandosi perfettamente con
tutti gli altri aspetti del quotidiano, senza proporre o imporre
all’ascoltatore, dunque, mistici e iperbolici trasalimenti, pena la
ricaduta in un effimero hic et nunc che romperebbe i ponti col
passato e col futuro per concentrarsi sul presente dell’esaltazione,
troncando quella tranquillità e quella a-drammaticità a Gould tanto
care.
L’essere romantico di
Gould si estrinseca dunque con il potere immaginifico, con
un’espressività che tocca il profondo attraverso sottigliezze da
fanciullo ipersensibile, non (come vorrebbe invece l’evidenza della
Storia della Musica) attraverso la magistrale resa del contrasto
drammatico tra l’anima solare e quella notturna del mondo e della
musica stessa, concezione tardoottocentesca che per una serie di
consuetudini esecutive e di tentazioni virtuosistiche finisce per
contaminare le esecuzioni della musica di quasi tutti i periodi
storici. Gould era dunque antiromantico solamente nel senso
storico-musicale del termine, ma si voleva romantico per la sua
concezione di potente elevazione e nello stesso tempo di normalità
della musica: “musica come tranquillante” significa la tendenza a
integrare la musica con tutti gli altri aspetti del reale, non a
sradicarla da tutto mettendola su un piedistallo, col rischio (corso
da Bernstein) di farne la cassa di risonanza di un ego
eccellente, ma solitario e contrapposto al mondo (gli “altri”
costituiti simbolicamente dal pubblico, “costretto” ad assistere
al trionfo dell’artista, alla legittimazione della sua superiorità
rispetto al pubblico stesso), in definitiva perdente rispetto al
“corso” del mondo stesso (altro topos
romantico-decadente). Questo era bensì il rischio corso dalla
visceralità di un Bernstein, le cui registrazioni, a mente fredda,
danno l’impressione ambivalente di una coesistenza del meglio e del
peggio a livello interpretativo, in cui a volte cioè la volontà di
essere ardenti si risolve in minore precisione tecnico-stilistica, la
quale a sua volta si rivolge contro l’efficacia drammatica,
oscurandone alcuni tratti (specialmente negli inizi delle sinfonie,
laddove negli sviluppi, e in genere nelle parti centrali dei brani
orchestrali, Bernstein levigava accuratamente il suono delle
orchestre con un sublime lavoro di cesello).
Il
rifiuto gouldiano della visceralità e del far musica per così dire
“a cuore aperto”, o meglio “a nervi scoperti e con le budella
di fuori” contrassegna il suo rifiuto dell’istituzione del
concerto, al quale il pianista canadese fa cenni sempre più
frequenti fino al ritiro definitivo, nel 1964. E’ dopo il ritiro
che Gould, preso da una sorta di “zelo missionario”, bombarda i
suoi ascoltatori con una serie di documentari e di articoli in cui
spiega le ragioni della prossima morte del concerto in favore
dell’era dell’incisione. Comunque,
se osserviamo con una certa attenzione il carteggio generale di
Gould, notiamo che la sua idiosincrasia verso i concerti, le tournées
e gli spostamenti non compare sin dall’inizio della sua carriera,
ma parte da un momento preciso. Nel 1959, alla Steinway & Sons,
Gould è vittima di un “incidente”: per colpa di una pacca sulla
schiena datagli con intenzioni amichevoli da un inserviente, il
pianista canadese rimane “fuori uso” per parecchi mesi, e da quel
momento incomincia a prendere coscienza del fatto che le sue
straordinarie doti psicofisiche come pianista costituiscono un tesoro
tanto prezioso quanto fragile.8
Gould si adopererà da quel momento in poi per difendere sé stesso
da un mondo che sente (almeno in parte) come ostile o per lo meno
brutale e troppo violento rispetto alla sua sensibilità. Il fatto
che a trent’anni egli abbia rinunciato al palcoscenico per
dedicarsi esclusivamente alle incisioni e ai documentari radiofonici
va visto quindi come la conseguenza necessaria di un rifiuto che ha
nella protezione della propria persona (anche fisica) la sua radice
ultima.
Ma, come è noto, Gould
era, oltre che un grande pianista, anche un intellettuale, sicché
alle sopracitate ragioni psicofisiche del suo ritiro affiancò di sua
iniziativa una serie di motivazioni di carattere filosofico (estetico
e morale) che per la loro estrema complessità e interconnessione
reciproca risultano difficili da chiarire completamente. Gould indica
nella competizione (non nel denaro) il peggior male della società
occidentale, iniziatosi con il rinascimento e proseguito su tutti i
livelli, compreso quello della cultura e in particolare della
musica.9
Lo spirito di competizione costituirebbe il seme della violenza
dell’uomo sull’uomo e , prima ancora, dell’uomo sulla natura.
Nelle dichiarazioni di Gould posizioni vegetariane, animaliste e
pacifiste (sicuramente suggeritegli anche dai movimenti giovanili
degli anni ‘70, dai quali pure egli dissente sotto non pochi
aspetti) si mescolano spesso (e a tratti si fondono in modo efficace)
con riflessioni estetiche in senso lato. Il concerto costituisce
secondo Gould uno spettacolo “crudele, feroce e idiota”,10
in cui l’attenzione -per forza di cose- non è incentrata sulla
musica, ma sui salti mortali dell’esecutore virtuoso, il quale,
autoincastrandosi compiacente in una spirale perversa, fa di tutto
per spingere i suoi prodigi tecnici all’estremo limite
dell’eseguibile, a un passo dal baratro dell’errore, disfatta che
il pubblico teme e desidera al tempo stesso. E’ come una corrida in
cui la musica fa da toro, affascinante solo in quanto pericoloso per
il virtuoso-matador,
il quale si diverte uccidendola.
Che l’incisione
permetta una notevole accuratezza esecutiva, e richieda una massiccia
profondità interpretativa è un dato di fatto: mentre in concerto
sona volant, su disco
sona manent, e anche
l’ascoltatore più distratto può, dopo un certo numero di
ripetizioni nell’ascolto di un brano, accorgersi di un passaggio
poco convinto, di una struttura traballante, di una esecuzione poco
ispirata. Il motivo dello scandalo suscitato da Gould nel difendere
con pervicacia queste tesi risiede nella concezione, avente parecchio
seguito, del concerto come serie magica di istanti irripetibili,
luogo in cui la vera anima della musica verrebbe evocata senza i
“trucchi e gli imbrogli” della “fredda” sala di
registrazione. Gould afferma in proposito: “Tutta questa gente vive
nell’illusione del carattere sacro del ricordo di momenti isolati,
di istanti della storia che si sarebbero potuti per così dire
fermare. E’ affascinante, ma è illusorio. La vita non è così
semplice, e neanche la musica, grazie a Dio.”11
La ripetibilità dell’incisione (nel duplice senso: per l’artista
che, attraverso il montaggio, può ripetere un take
che non lo convince appieno, assemblandolo poi con il resto; per
l’ascoltatore, che se crede di scorgere uno di quei momenti magici
in un incisione di un brano, può ritornare su quel punto del disco
anche mille volte) rende l’ascolto della musica un’esperienza
veramente importante e profonda, contemplativa, e nel contempo per
nulla sradicata dalla normalità e dalla quotidianità. Non più
musica come evento straordinario e catartico, ma musica come amica e
sostegno, quando si vuole e come si vuole, fonte di riflessione, di
pace e di serenità.
L’artista da concerto
assomiglia secondo Gould a un fenomeno da baraccone, e non assolve
quella che a suo avviso è una delle sue funzioni primarie:
l’espressione di una purezza e di un’elevazione spirituale che
vadano in sostegno, anziché a detrimento della morale dominante.
Sotto quest’aspetto giocano un ruolo determinante, in Gould, le sue
radici puritane dategli dall’ambiente culturale della provincia
dell’Ontario degli anni ‘40, in cui egli cresce e viene educato.12
Per inciso, Gould non smetterà mai di amare il paesaggio ghiacciato
e la pura immensità dell’orizzonte canadese, spettacolo in cui
l’amore per la natura (il paesaggio non è a misura d’uomo,
semmai -al contrario- l’uomo può sentirsi parte di quel paesaggio)
sembrerebbe venire spontaneo, e ispirare un desiderio di universale e
un profondo rispetto per la vita di tutte le forme viventi. Il ruolo
dell’artista, ben espresso secondo Gould dall’incisione e male
espresso dal concerto pubblico, dovrebbe essere quello di portatore
di messaggi di cristallina purezza, spunti di morale fusa con
l’estetica, di bello con buono. Il concerto solletica invece il
voyeurismo-sadismo del pubblico e l’esibizionismo-masochismo del
musicista, complici entrambi di un rito immorale.
Col passare del tempo,
Gould sente il bisogno di curare sempre più da vicino le sue
incisioni, e di farle nascere in un ambiente costituito da pochissime
persone (i tecnici e il produttore, che si ridurranno infine al
produttore e basta), tanto da aprire un suo studio di incisione
personale, dove l’elemento del tempo è lasciato libero di agire
sulla sua concezione di un brano,13
a distanza siderale dalle strettoie e pastoie burocratiche di tutti
gli artisti da concerto, per i quali il disco è un faticoso
complemento delle tournées,
al quale non è possibile dedicare tutta la cura necessaria.
Riflettendo con mente aperta, non si può non riconoscere che vi è
un preciso impegno morale nella cura estrema messa in atto da Gould
nel confezionare un prodotto artistico quanto più bello possibile,
fruibile a vari livelli di profondità a piacimento dell’ascoltatore,
e per di più eterno, immortale come la stessa grande musica.
L’apertura al mondo
dell’incisione, con le sue tecniche e le sue procedure che ne fanno
la creazione di un’opera d’arte invece che una semplice
“riproduzione”, fa tutt’uno con le idee tutt’altro che
tradizionaliste e ortodosse che Gould ha nel campo di quella che si
potrebbe chiamare “concezione generale dell’interpretazione”.
Secondo Gould, come è noto, l’interpretazione di un brano dovrebbe
darcene una versione nuova rispetto alle interpretazioni precedenti,
perché se così non fosse non ci sarebbe ragione di proporla.
Quest’idea della necessità di un rinnovamento rispetto alle
interpretazioni precedenti si unisce in Gould (coerentemente) con il
suo rifiuto della concezione secondo la quale esisterebbe per ogni
brano un’interpretazione idealmente ottimale, e cioè la più
vicina alle intenzioni del compositore.
Gould rifiuta un simile
approccio al brano e al compositore, approccio che potremmo definire
storicistico, in quanto presuppone un desiderio di identificazione, o
per lo meno di rispetto, nei confronti del compositore e della sua
epoca. Secondo tale approccio storicistico (accettato più o meno
consapevolmente dalla maggior parte degli interpreti quale
presupposto per una esecuzione quanto più possibile buona, quanto
più possibile vicina alla sopracitata identificazione con le
intenzioni del compositore) ogni epoca ha i suoi stili esecutivi che
vanno rispettati e che costituiscono una base per ogni esecuzione.
Per Gould invece, è meglio affidarsi a una intelligente
iconoclastia: intelligente perché non perseguita a tutti i costi,
bensì guidata dall’esigenza di non riproporre un’interpretazione
ortodossa (che si affidi cioè alla mezza misura della tradizione
esecutiva di un brano) se non dopo aver tentato di aprire nuove
prospettive sul modo di rendere il brano eseguito, che ne
ripropongano l’essenziale universalità data dalla logica interna
della sua struttura, ma che ne tolgano la polvere e il vecchiume
della tradizione esecutiva, i quali rischiano proprio di oscurare
quella struttura e quell’universalità.
Quello che Gould non
accetta della concezione storicistica dell’interpretazione è
l’idea dell’unicità della prospettiva, l’idea che esista
un’unica interpretazione ottimale, e che inoltre
quell’interpretazione ottimale debba essere per forza legata a
dogmi stilistici, supposte maniere di eseguire proprie di una tale o
di una talaltra epoca storica, dogmi oltretutto difficili da
dimostrare e frutto di conclusioni del tutto opinabili tratte dagli
esperti, i filologi, che pretenderebbero di dettar legge in materia
di interpretazione.14
Ma, oltre al fatto che nessuno potrà mai sapere come Mozart o
Beethoven eseguivano le loro composizioni, Gould si propone di
tagliare il problema alla radice: egli non vede perché mai
bisognerebbe porsi come obbiettivo la somiglianza dell’esecuzione
odierna con quella del tempo storico in cui quel brano è nato.15
Se si rifiuta tale dogma storicistico si può ottenere (e, nel caso
di Gould, questo è quasi sempre successo) una maggiore attenzione
alla musica stessa, studiata e concepita “in presa diretta”,
senza i grovigli intellettualoidi dati dal porsi la domanda “se al
compositore sarebbe piaciuto”.
C’è un “ma”, in
questa visione gouldiana dell’interpretazione, ed è dato dal fatto
che, anche se si rifiuta -come fa Gould- il modello interpretativo
storicistico, qualche modello generale, volenti o nolenti, di fatto
lo si segue, e anche Gould ha un suo modello. Ciò che a Gould piace
trovare in ogni brano è costituito essenzialmente da due elementi:
la varietà armonica, la presenza (e possibilmente la complessità)
del contrappunto. Queste sono le caratteristiche, come è evidente,
della musica di J.S. Bach, ed è proprio questo il motivo, per
ammissione dello stesso Gould, del suo amore per la musica di Bach e
dell’eccellenza -unanimemente riconosciutagli- delle sue
interpretazioni di Bach. Il problema (se ci si vuole porre un
problema) nasce dal fatto che Gould ricerca i summenzionati elementi
formali non solo in Bach, ma anche in Beethoven, in Mozart e in tutti
gli altri compositori, con risultato discontinuo.
Si prenda ad esempio
Beethoven. In Beethoven l’interpretazione di Gould funziona solo a
tratti: è meravigliosa nei passaggi del Beethoven “contemplativo”,
in cui la varietà armonica (uno dei due elementi formali da Gould
amati e resi meravigliosamente) è l’elemento portante del brano,
ma troppo contemplativa nel Beethoven esaltato e battagliero (p. es.,
nell’incipit della Hammerklavier), in cui cioè è
necessaria la resa ad alti livelli di quel contrasto drammatico di
temi e di forme che Gould non amava, ma che è parte integrante (ed
elemento formale determinante) della musica di Beethoven, soprattutto
del Beethoven della cosiddetta fase di mezzo della sua produzione,
quella che ha come epicentro la Quinta sinfonia. Per altro
proprio la Quinta, nella trascrizione per pianoforte di Liszt,
viene interpretata con meraviglioso e “battagliero” vigore da
Gould, a significare che in musica ogni teorema sull’interpretazione
nasce solo per dar corpo alle sue eccezioni.
Sempre riguardo ai
parametri generali seguiti da Gould nell’interpretazione di un
brano, bisogna rilevare, oltre all’elemento iconoclastico e
antistoricistico, l’elemento della coerenza, con tutti i pregi e i
difetti ad esso connessi. Il modo di suonare di Gould è
improntato a una notevole coerenza, sia a livello stilistico, sia a
livello di concezione generale dell’interpretazione.
A livello stilistico
Gould si avvale di un tocco staccato, teso a rendere la
chiarezza architettonica del brano. Lo staccato di Gould,
invece di provocare un effetto slegato, riesce a riempire di tensione
gli “spazi” tra una nota staccata e l’altra, in modo da creare
una sorta di arcata sonora in perenne tensione, che cattura subito
l’ascoltatore e lo induce a seguirla. Mentre il legato,
ottenuto sovente dai pianisti con l’uso del pedale, crea il più
delle volte un alone di impurità timbrica, dato dal fondersi dei
suoni tra di loro, lo staccato di Gould crea un potente effetto di
continuità. Lo staccato di Gould corrisponde anche al suo
bisogno di dotare la musica di una chiarezza illuministica, tale cioè
che l’ascoltatore sia messo in grado di udire distintamente tutte
le note, dalla prima all’ultima, e quindi il rispetto
dell’esecutore verso l’ascoltatore sia massimo. Altro elemento
espressivo che riguarda specificamente lo stile pianistico di Gould è
la limitazione della escursione dinamica. Il dislivello tra piano
e forte viene ridotto da Gould, senza però ridurre la
sterminata gamma di sfumature esistenti tra un estremo e l’altro,
sicché il risultato è un’espressività molto raffinata, priva di
effetti plateali, ma capace di risuonare più a lungo nella mente
dopo l’ascolto, nel ricordo.
Dal punto di vista di una
teoria generale dell’interpretazione, come è noto Gould rifugge
qualsiasi enfatizzazione delle contrapposizioni formali interne al
brano (per esempio tra i temi “maschili” e quelli “femminili”
della forma sonata), perché, come abbiamo visto, gli elementi che
gli interessa trovare corrispondono al suo ideale contemplativo di
musica: essi sono la varietà armonica e la complessità
contrappuntistica. Questa concezione crea delle interessanti analogie
tra le musiche eseguite da Gould, anche quelle composte a secoli di
distanza.
Se prendiamo ad esempio le
esecuzioni gouldiane delle sonate di Bach per viola da gamba (con
Leonard Rose quale partner di Gould) notiamo una sinuosità
struggente di tipo romantico, in senso lato. L’espressività delle
frasi bachiane viene resa in modo straordinario dai due esecutori,
che liberano l’immaginazione mostrando come l’anima della musica
di Bach si libri a mille miglia d’altezza rispetto alle pedanterie
di quelle interpretazioni cosiddette “filologiche”, che si
avvalgono degli strumenti d’epoca. Gould mostra invece con tutta
evidenza come la musica di Bach sia indifferente al timbro, per via
del suo carattere di astrattezza ed universalità che la sgancia dal
tempo in cui fu composta. Il risultato è costituito da un freschezza
interpretativa che facendo di Bach un compositore fuori dal tempo
storico in cui ha operato, lo rende a maggiore ragione fruibile per i
contemporanei.
Prendendo ora come
esempio di compositore romantico Brahms, possiamo notare che il modo
di suonare di Gould tende a diminuire il divario tra il mondo
romantico espresso dalla musica di Brahms, e il mondo di Bach, che
pure data secoli addietro. La assenza di contrasti drammatici, così
confacente alla musica di Bach, viene ricercata da Gould anche in
Brahms, proponendo perciò una versione della sua musica attenta
all’espressione degli elementi melodico-armonici che sprigionano la
fantasia del compositore, piuttosto che agli elementi di battagliero
contrasto. L’anima contemplativa del romanticismo musicale viene
eretta da Gould ad anima della musica tout court, a scapito
dell’anima guerresca, che ha le sue origini nello Sturm und
Drang e nell’idea di Streben. In questo modo Brahms,
nell’interpretazione di Gould, viene scremato di tutto il
beethovenismo drammatico che lo caratterizza, e viene parificato, con
una operazione interpretativa deliberatamente anti-filologica e
anti-storicistica, a un compositore barocco.
Se infatti, a livello
storico-oggettivo, vediamo nella differenza tra un sentimento
contemplato e un sentimento direttamente espresso (e vissuto nei suoi
contrasti) la differenza principale tra l’ego filosofico
della musica barocca e l’ego della musica romantica, Gould
rifiuta questa differenziazione e ci propone una musica romantica
altrettanto contemplativa e a-conflittuale della musica barocca. Nel
caso specifico, l’interpretazione gouldiana di Brahms (si pensi, ad
esempio, al Concerto in re minore con Bernstein sul podio) è
anti-drammatica e tesa a scatenare la potenza immaginifica insita
negli elementi melodico-armonici del brano, lungi dall’accentuare
differenze tra temi e tra mondi, tra notte e giorno, e via di
seguito. Un Brahms meno romantico della media, dunque, se si intende
il principio del conflitto come l’anima del romanticismo, ma un
Brahms tanto più romantico quanto più intendiamo l’anima del
romanticismo come fantasia e contemplazione. Ma allora, seguendo
questo secondo criterio, anche il Bach di Gould è romantico, e
risulta più romantico di Brahms: anzi, il più romantico dei
compositori.
Questa operazione
gouldiana di parificazione della musica romantica (e di tutta la
musica) con la musica barocca porta ad esiti discontinui allorché il
pianista canadese affronta il repertorio tedesco classico, in ispecie
quando affronta Mozart e Beethoven. A proposito di quest’ultimo
abbiamo già notato come il rifiuto del contrasto formale di tipo
sonatistico induca Gould a un’esecuzione perennemente
contemplativa, il che funziona solo a tratti. Diverso, e a nostro
avviso ben più interessante, l’esito dell’approccio
interpretativo gouldiano a Brahms, e specialmente, come già
accennavamo, a quel capolavoro giovanile di Brahms che è il Concerto
in re minore.
Questa diversità di
esiti interpretativi (discontinui sia in Beethoven sia in Brahms, ma
con un che di struggente in quest’ultimo, che Gould riesce a
cogliere più di rado in Beethoven) è dovuta principalmente al fatto
che, a livello formale, in Beethoven la composizione vive grazie alla
forma sonata, in Brahms nonostante la forma sonata. Sembra
un’affermazione schematica eppure essa contiene un fondo di verità.
In Brahms la vita formicola al di fuori delle maglie strutturali,
balugina in lampi isolati, seppur resi omogenei al tutto dalla
maestria tecnica del compositore; ma le ragioni che li reggono e che
danno loro vita trascendono gli schemi, sono ragioni di una
passionalità giovanile e tracimante. In Beethoven, al contrario,
la vita della composizione nasce
dall'identificazione con quegli schemi, per questo, come dice
Bernstein,16
il fulcro delle sue composizioni è lo sviluppo. In barba alle
istanze strutturali che pure lui stesso cercava con ogni impegno di
soddisfare, sono i temi femminili (ecco cosa si intende qui per
"lampi isolati") di Brahms quelli nei quali il sublime fa
irruzione, come si può notare, ad esempio, nelle battute precedenti
la coda del quarto movimento del quintetto con pianoforte, quando gli
archi intonano un tema di una bellezza struggente come a prendere la
rincorsa per le ultime battute, dal ritmo selvaggio. Qui si vede che
la bellezza della musica di Brahms non risiede, come per Beethoven,
nella costruzione di un impianto sonatistico convincente. L'impianto
sonatistico convincente c'è eccome anche in Brahms, ma il bello
della sua musica, al contrario che per Beethoven, non è in questo
fatto, ma altrove, nei momenti in cui la forma sonata non conta, in
cui oltre e al di fuori della struttura emergono dei temi di un
lirismo che non si può definire in altro modo che "sublime":
sublime inteso quindi, in Brahms, come qualcosa che viaggia, dal
punto di vista formale, al di fuori e al di sopra della struttura ed
è discontinuo, si pone al di fuori della continuità e assurge all'
extratemporale, che è come dire all'eterno.
Ciò è vero anche per il
concerto per piano n° 1, in cui Gould (con Bernstein a dirigere
l'orchestra) riesce a dare a tutta la parte del pianoforte
un'impronta esecutiva "da tema femminile" (anche nei
momenti in cui il pianoforte intona i temi maschili), mentre
Bernstein, in modo perfettamente simmetrico, fa di tutte le parti
dell'orchestra una sorta di gigantesco tema maschile. Viene così
evitata quella che Gould stesso chiamava la "doppia dicotomia",17
cioè il raddoppiarsi (dovuto alla doppia esposizione, prima da parte
dell'orchestra e poi da parte del pianoforte) della struttura
drammatica della forma sonata, basata sul contrasto tra un tema
femminile e uno maschile, conflittualità da Gould tanto aborrita. Ma
se l'interpretazione gouldiana di questo concerto regge (e regge
senz'altro) ciò è dovuto non certo a quello che Gould affermava,
cioè aver fatto di questo concerto qualcosa che sta in piedi dal
punto di vista architettonico, intendendo con questo l'aver
preservato una continuità formale mediante l'eliminazione, o quanto
meno l'attenuazione, della conflittualità sonatistica.18
Infatti l'unico effetto in tal senso ottenuto dalla sua
interpretazione è il realizzarsi di una dicotomia unica, che in
linea di principio potrebbe essere ritenuta altrettanto conflittuale
di quella doppia. Invece il fatto che l'interpretazione gouldiana
regge è dovuto proprio al contrario, cioè all'aver dilatato
infinitamente, facendone un nunc stans
al di fuori del tempo, resecato da qualsiasi continuità
architettonico-temporale, quegli istanti sublimi, cioè i temi
femminili (quelli già femminili di diritto e quelli originariamente
maschili, ma resi di fatto femminili dal modo di suonarli di Gould).
Gould rompe la forma sonata del concerto, basata sulla doppia
dicotomia, facendo di questa doppia dicotomia una dicotomia unica. In
questo modo lo spazio del pianoforte è interamente occupato da
un'aura femminile-lirica, che risulta sublime proprio perché
discontinua rispetto al tutto, dotata cioè di valore autonomo
extratemporale, laddove l'orchestra, interamente "maschilizzata",
fa solamente da appoggio al lirismo del pianoforte.
Facendo dunque un cenno
finale alla concezione interpretativa generale di Gould non si può
non rimarcare, come già abbiamo fatto, che gli elementi su cui Gould
si basa e che egli sempre ricerca sono l’assenza di contrasto
drammatico, la varietà armonica e la complessità contrappuntistica:
a quest’ultimo elemento, tra l’altro, è da ricondurre anche la
ben nota consuetudine gouldiana di eseguire gli accordi arpeggiati,
anziché placcati, proprio per far intuire, in qualsiasi passo di
qualsiasi composizione di qualsiasi epoca, le possibilità
contrappuntistiche insite nella musica.19
E’ dunque a Bach che
dobbiamo guardare come al baricentro dell’arte interpretativa
gouldiana, giacché anche in Schoenberg, altro compositore da Gould
molto amato, egli ricerca sempre la varietà armonica e il
contrappunto, essendo in ultima istanza indifferente all’aspetto
atonale e dodecafonico della sua musica. Il motivo dell’amore di
Gould per Bach sembra affondare le sue radici in due fattori
principali, apparentemente distanti tra loro, ma entrambi innegabili:
da un lato c’è la congenialità immediata, data dall’amore per
il contrappunto, per le modulazioni ricercate e per una continuità
formale priva di fratture. Dall’altro lato c’è anche una
congenialità più segreta e sfuggente: l’aspirazione alle
celestiali altezze dello spirito, all’universale, all’astrattezza
del timbro sonoro come simbolo vivente della purezza del pensiero.
Che un aspetto della questione implichi sempre anche l’altro non è
certo. Quello che è certo è che in Gould essi coincidono, sicché
le caratteristiche formali da lui ricercate (contrappunto, varietà
armonica, assenza di contrasti) vanno sempre nella direzione
dell’astrazione, della spiritualità e dell’universalità.
Non è certamente un caso
che la folgorante carriera pianistica di Gould abbia inizio con la
sua incisione del 1956 delle Variazioni Goldberg di Bach. Nel
1982, poco prima di morire, Gould incide nuovamente quest’opera,
interpretandola in maniera totalmente diversa. Con entrambe queste
incisioni, anche se in direzioni differenti, Gould segna non solo una
tappa nella sua evoluzione di pianista, ma anche una tappa nella
storia dell’interpretazione. Mentre la prima incisione era
rivoluzionaria perché rompeva con uno stile interpretativo
tradizionalmente basato su una visione pedantesca della musica di
Bach, la seconda incisione è altrettanto rivoluzionaria a motivo
dell’astrattezza di pensiero, della vera e propria dimensione
metafisica del suono raggiunta da Gould. Nel ‘56 era segno di
innovativa effervescenza giovanile suonare Bach con brio quasi
scanzonato; nell’’82 il punto di riferimento per tutti era già
il Bach di Gould, sicché la lentezza e il rigore dei tempi presi dal
pianista canadese vanno interpretati come una nuova, imprevista e
imprevedibile rivoluzione. Nella seconda incisione emerge la
filosofia di vita di Gould: l’uomo faccia a faccia con una natura
immensa, sconfinata e viva, tranquilla, ma viva. Il raggiungimento
della pace interiore viene visto da Gould come l’obbiettivo
principale della musica, e questo obbiettivo viene reso in
quest’incisione nella maniera più convinta e convincente.
Molti piani
interpretativi si sovrappongono: il fatto che si tratti di un’opera
assai familiare a Gould ne facilita la resa vieppiù informale dei
temi e dei passaggi; la scelta della lentezza nei tempi va verso una
omogeneità delle variazioni tra di loro, diventa collante della
forma; infine la tensione melodica, caratteristica prettamente
gouldiana, viene portata allo spasimo fino alle soglie
dell’impossibile. Sembrerebbe trattarsi di un’opera diversa da
quella suonata nel ‘56, e cioè si ha come la sensazione che quella
musica sia cresciuta e maturata con Gould stesso. Sarebbe vano
tentare un parallelismo puntuale tra le differenti scelte
interpretative delle due edizioni, ma già all’interno
dell’esecuzione dell’’82 si può rilevare uno sbalzo piuttosto
evidente tra la scelta di tempo nell’enunciazione iniziale e in
quella finale del tema: quasi un’ulteriore prova della
flessibilità formale che contrassegna la padronanza delle Goldberg
da parte di Gould. In chiusura infatti questo tema viene
suonato da Gould, più ancora che nell'incipit, in cui fa
durare questo brano ben 40 secondi di meno, con la paura di fare
male, con il terrore di picchiare. Ne esce qualcosa che si alza verso
il cielo e si volta di tanto in tanto a salutare, invece che il tono
da camminata caparbia e un po' ostinata dell'inizio. Quaranta
secondi, anche se la quantità non conta in fatto di interpretazione,
ma solamente la qualità, sono sempre quaranta secondi e le ragioni
di un simile divario agogico tra la prima e la seconda enunciazione
del tema riflettono la meditazione interpretativa Gouldiana, in grado
di far suonare in maniera volta a volta qualitativamente diversa uno
stesso brano.
La scelta della lentezza,
che pervade tutte le interpretazioni della maturità di Gould, ha
spesso sull’ascoltatore un doppio effetto: un effetto di calma, che
è l’effetto auspicato da Gould, ma anche un effetto di angoscia,
dovuto al fatto che questa dilatazione dei tempi appare a tratti
spasmodica. La lentezza dell’ultimo Gould, e nella fattispecie la
lentezza della sua ultima versione delle Goldberg, pare
motivata e motivabile solo da un immenso dolore trattenuto, mai
espresso, ma affiorante a tratti sotto la tensione della linea
melodica. Un dolore umano (senz’altro il dolore della solitudine)
che cerca disperatamente di stemperarsi in una musica oggettiva e
universale.
Se si pensa a questo
dolore, ed al fatto che non molto tempo dopo l’incisione Gould morì
(anche se non si tratta dell’ultima incisione) viene fatto di
pensare che quella “pace autunnale”,20
di cui parlava Gould sul finire della sua carriera, e da lui indicata
come una meta da raggiungere, fosse un presagio di morte, indice di
una stanchezza di vivere che mascherava sé stessa ammantandosi di
saggezza interpretativa. Che la quiete additata da Gould come oasi di
contemplazione per l’ascoltatore non sia sempre positiva, è un
dubbio che può affiorare anche guardando la vita privata del
pianista canadese. La forzata reclusione, il rifiuto della luce del
sole, la preclusione di qualsiasi contatto umano sembrano
caratteristiche umane imprescindibili da una scelta di base ben
precisa, quella dell’eremitaggio, che può forse venire spontanea a
chi è a contatto con la sconfinata natura canadese, ma risulta sotto
molti aspetti delirante per un ascoltatore che vive in un paese
mediterraneo, il cui ritmo biologico è dunque solare, abituato al
sovraffollamento e a una certa selvaggia allegria. A tal proposito,
se mai si volesse condurre una ricerca sull’indice di gradimento
delle incisioni di Gould, non ci sarebbe da stupirsi se esse fossero
mediamente più gradite alle popolazioni del Nord che a quelle del
Sud, e se le popolazioni mediterranee amassero più le incisioni
giovanili (veloci e scanzonate) di quelle della maturità (lente e
meditative). Sarebbe forse errato, quindi, parlare di quiete
autunnale come presagio di morte, ma si potrebbe comunque affermare
che quella quiete autunnale è foriera di angoscia, non solo -come
sperava Gould- di tranquillità.
Per concludere, ancora
qualche considerazione sulla idea, centrale per Gould, della morte
del concerto-esaltazione e dell’avvento dell’era
dell’incisione-contemplazione. Appare chiaro che, nonostante le
tecniche di registrazione si facciano sempre più raffinate,
l’interesse del pubblico verso la musica “seria” sembra
aumentare, se è vero che ciò avviene, sulla base di concerti che
incentrano l’attenzione dell’ascoltatore sulla figura del
virtuoso-personaggio, il quale sempre più spesso scende a
compromessi a volte davvero improponibili con la musica “leggera”.
Il punto è: se Gould -come sembra- aveva torto nel preconizzare
l’era dell’incisione, della musica come fatto intimo, e se invece
l’interesse del pubblico viene catturato in modo sempre più
esclusivo da manifestazioni dal vivo in cui non vale più nemmeno il
paragone agonistico (del genere “riuscirà questa sera al tenore il
do di petto?”), bisognerebbe forse preoccuparsi per una reale,
tangibile diminuzione dell’interesse verso la musica, che va di
pari in passo con l’aumentato interesse verso il virtuoso-showmen,
amato anche oltre l’errore, oltre la stecca. Se non vale nemmeno
più la legge ferrea dell’arena, se il virtuoso che stecca, invece
che essere matato dal pubblico sadico -come rilevava Gould-
viene bonariamente perdonato per il solo fatto (e fin tanto che)
accetta di esibirsi nell’arena, siamo davvero scesi a un confine
inaudito di volgarità che decreta la fine dell’interesse per la
musica.
Roberto
Barreca.
Bibliografia
essenziale
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gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The
Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York).
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Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984).
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sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non,
je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème
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Gould,
Glenn, Lettere,
Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected
Letters, 1992, Estate of Glenn Gould
and Glenn Gould Ltd).
Matheopoulos, Helena,
Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra,
Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena
Matheopoulos, 1982).
Rattalino, Piero, Da
Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti, Firenze,
1983.
Zurletti,
Michelangelo, La direzione d’orchestra. Grandi direttori di ieri
e di oggi, G. Ricordi & C. - Giunti Martello, 1985.
3)
FILOSOFIA APPLICATA ALLA PSICOANALISI
Note
gnoseologiche sull’inconscio e sullo statuto epistemologico
psicoanalitico
INDICE
1)
Presentazione di due crucci
2)
Premessa logica
3)
Gnoseologia bioniana: tra Kant e Popper
4)
Possibili soluzioni al paradosso
5)
Uno strano contesto sperimentale
6)
Oltre Gadamer
7)
L’inconscio come insieme finito
Note
gnoseologiche sull’inconscio e sullo statuto epistemologico
psicoanalitico
1)
Presentazione di due crucci
Negli
studi da me compiuti di Filosofia, Psicologia e Psicoanalisi, ho
ravvisato il raggiungimento di elevati vertici teoretici ed intricate
spiegazioni della realtà. Il mio rammarico è sempre stato quello di
non poter far parlare tra loro tali linee di pensiero, assumendo un
vertice unico, perché i cultori delle diverse discipline in genere
ignorano tale possibilità. E’ possibile confrontare la teoresi di
un filosofo e quella di uno psicoanalista? Molti sono convinti di no,
eppure per molta parte, essi sembrano indagare aree simili, come ad
esempio quali siano le condizioni e le modalità dell’apprendere,
che cosa sia il pensiero, cosa la realtà, ecc21…
L’altro
cruccio consiste nel complesso d’inferiorità che ho a volte
ravvisato in più di un collega psicoanalista, a fronte delle
presunte certezze degli altri orientamenti teorico-clinici e a fronte
delle presunte inconfutabili obiezioni all’esistenza
dell’inconscio, ancora e sempre motivo di perplessità, pregiudizi,
svalutazioni ingiustificate e frutto d’ignoranza, prima ancora che
di dibatti teoretici.
Il
presente contributo mira a scalzare entrambi questi impedimenti e
mira ad una più piena integrazione della psicoanalisi nel dibattito
scientifico contemporaneo. Se avrò data, a fine lettura,
l’impressione di una prospettiva smitizzante e quasi riduttivistica
dell’inconscio, a fronte delle pretese assolutizzanti che molti
Autori ritengono indispensabili, ciò sarà forse dovuto ad una
prospettiva duplice quanto a vertice osservativo (psicoanalitico e
filosofico insieme, come sopra ricordato), ma certo non immemore del
principale insegnamento storico filosofico, non relativizzante, ma
bensì deassolutizzante e fondamentalmente democratico, in base al
quale è bene far dire a ciascuno ciò che ha da dire, senza però
prendere per buono ciò che dice, ma confrontandolo con le ragioni
degli altri Autori e delle altre correnti di pensiero.
2)
Premessa logica
Nel
presente scritto vi è qualcosa di significativo nell’assumere
quale vertice osservativo, oltre a quello psicoanalitico, anche
quello filosofico. Nel presente scritto vi è qualche cosa di non
significativo nell’assumere quale vertice osservativo, oltre a
quello psicoanalitico, anche quello filosofico.
Quanto
espresso nelle due proposizioni precedenti non è un refuso e non è
un paradosso. Secondo quanto ci insegna la logica aristotelica,
infatti, le due proposizioni che aprono il presente lavoro non sono:
a)
contraddittorie, tali per cui esse non possano essere entrambe vere,
né entrambe false;
b)
contrarie, tali per cui esse non possano essere entrambe vere e
possano invece essere entrambe false.
c)
subalterne, tali per cui possano essere entrambe false ed entrambe
vere;
Esse
sono invece subcontrarie: non possono essere entrambe false, ma
possono essere entrambe vere.
Il
riferimento alla logica aristotelica è l’Organon22,
anche se quello citato in premessa è il cosiddetto “quadrato
logico delle opposizioni”, tratto dai principii logici fissati da
Aristotele, ma di elaborazione medioevale:
Tale
doppio vertice osservativo, cioè, filosofico e psicoanalitico
insieme, potrà avere in sé qualcosa di significativo e qualcosa di
non significativo, o qualcosa di significativo e nulla di non
significativo, o qualcosa di non significativo e nulla di
significativo, ma non potrà non avere né qualcosa di significativo,
né qualcosa di non significativo.
Anche
se avesse soltanto qualcosa di non significativo e nulla di
significativo, esso non sarebbe indifferente: è qualcosa di diverso
dall’approccio psicoanalitico puro e da quello filosofico puro. Il
tentativo di uno sguardo sinottico, sarebbe di per sé apprezzabile.
Se
i due vertici osservativi, risultassero incommensurabili, infatti, a
risentirne sarebbe, prima ancora della significatività del presente
scritto, la significatività delle due discipline, perché il fatto
che il sapere si sia, nei secoli, specializzato non dovrebbe impedire
la sua riunificazione logica, a nostro avviso.
Se
così fosse, infatti, significherebbe che tale specializzazione
sarebbe nel tempo divenuta una parzializzazione scotomizzante. Se i
saperi specialistici fossero imparagonabili fra di loro, secondo noi
avremmo perso qualcosa. La nostra visione del mondo sarebbe parziale,
sempre secondo noi e una somma di parziali visioni non commensurabili
tra loro non costituirebbe una visione intera.
Il
tema dell’incommensurabilità è presente in Feyerabend23
che giunge a conclusioni opposte, favorevoli a tale concetto a
scapito della riunificazione logica. Ci pare però questa, a suo
modo, una posizione metafisica, dato che quella della riunificazione
logica interdisciplinare non è una pretesa assolutizzante, ma la
rivendicazione del diritto di provare a riunificare, prima di
dichiarare incompatibili due vertici osservativi.
Il
tema d’incrocio, che permette l’azione combinata ed il raffronto
dei due vertici osservativi sopraddetti, filosofico e psicoanalitico,
è la gnoseologia.
La
gnoseologia si occupa delle condizioni di possibilità della
conoscenza, cioè del cosa e del come si può conoscere. A fatica può
definirsi una disciplina a sé stante e meno che mai può essere
considerata una disciplina distaccata dalle altre, proprio perché è
parte di una riflessione teoretica generale che precede e riguarda
tutte le altre. E’ in realtà un’interrogazione fondamentale, in
ciò affine all’ontologia, che invece si interroga su che cos’è
l’essere.
La
gnoseologia può essere considerata una disciplina che fa – con le
dovute distinzioni – da premessa sia alla disciplina filosofica,
sia alla disciplina psicoanalitica. Il presente articolo tratta
quindi un tema di confine e di confronto, che può essere – fatte
sempre le dovute precisazioni e distinzioni – di arricchimento sia
per la riflessione teoretica filosofica, sia per quella
teoretico-clinica psicoanalitica. Sulla differente valenza delle
riflessioni teoretiche per la filosofia da un lato e per la
psicoanalisi dall’altro, valga invece quanto afferma Bion in
apertura della sua “Teoria del pensiero”24.
3)
Gnoseologia bioniana: tra Kant e Popper
Premetto
che quanto segue non costituisce minimamente un tentativo di fornire
alcun apporto all’esegesi teoretica bioniana che, grazie alla
ricchezza e complessità dell’Autore, ha numerosi cultori. Quanto
segue costituisce invece un tentativo d’inquadrare alcuni aspetti,
a nostro avviso fondamentali, della riflessione di Bion in un flusso
di riflessioni altrettanto fondamentali che hanno interessato la
storia della teoresi filosofica di tipo gnoseologico. Ciò potrebbe
portare a confutare, o viceversa a rafforzare, alcune delle posizioni
teoretiche forti di Bion in particolare e della psicoanalisi in
generale.
Rinsaldare
le proprie basi teoretiche fa bene ad ogni disciplina, a nostro
avviso, e ciò può essere fatto soltanto o prevalentemente mediante
il confronto forte e diretto con i nuclei teorici delle discipline
che si sono confrontate anch’esse con la gnoseologia, come la
filosofia in generale e la filosofia della scienza in particolare.
Bion
richiama Kant con la sua teorizzazione dell'esistenza della "cosa
in sé" (o "noumeno", in Kant). Essa è inconoscibile.
Essa è la realtà. Essa è la verità assoluta25.
Tale concetto, però, distingueva - proprio in Kant - il terreno
della scienza da quello della metafisica. La scienza dell'assoluto
perdeva definitivamente, proprio grazie alla teoresi kantiana, lo
statuto di scienza, e diveniva non scienza, in quanto Kant chiarisce
in modo definitivo che non si può fare scienza della cosa in sé, ma
solo dei fenomeni. La presunta scienza della cosa in sé è invece,
secondo Kant, la metafisica e in quanto tale essa non è una scienza.
Bion,
con apparente paradosso, riprende il concetto di cosa in sé kantiana
proprio per sostenere che è possibile una scienza della cosa in sé,
e candidando a scienza della cosa in sé la psicoanalisi. Per Kant
invece si può avere scienza e conoscenza solo del fenomeno, di ciò
che appare, e non della realtà. Quindi sembrerebbe che Bion stia
riprendendo un'argomentazione kantiana per rovesciarne il
significato, collegando l'oggetto della psicoanalisi come scienza
proprio alla possibilità di conoscere quella cosa in sé che Kant
aveva escluso potesse essere oggetto di scienza, definendola oggetto
della sola metafisica.
Bion
conosceva molto bene il concetto di cosa in sé kantiano e le sue
implicazioni gnoseologiche, come testimonia in Apprendere
dall’esperienza26,
ma non concordiamo con l’opinione di alcuni autorevoli Autori, come
per esempio Nino Dazzi27,
i quali a nostro avviso eludono il problema posto da Bion. Dazzi
sostiene un inevitabile scarto teoretico tra le teorie di Bion e gli
stessi suoi concetti così come sono stati trattati nel corso della
storia della filosofia da Kant in poi, sostenendo un Bion mistico che
nulla aggiunge, a parere nostro, a ciò che di Bion è già stato
notato – a torto o a ragione – da molti altri Autori.
All’apparente
paradosso gnoseologico bioniano si aggiunge anche quanto indicato da
Popper28
come discrimine tra scienza e non scienza. Secondo Popper, scienza è
solo quella sperimentale in quanto l'esperimento indica la
possibilità di falsificare, non già di verificare ad
aeternum, un
sistema di ipotesi. Il poter mettere alla prova una teoria, una tesi,
un'opinione scientifica è legato, secondo Popper e dopo di lui
secondo Kuhn29
e Lakatos30,
e con discorso a parte per Feyerabend31,
alla possibilità di falsificare quella teoria, non di verificarla.
Kuhn
ritiene che le teorie non nascano da una presunta osservazione
empirica ingenua, ma costituiscano un insieme di costrutti
intrecciati tra loro, costituenti un paradigma. Ogni teoria
scientifica passa per varie fasi, rappresentate dall’evoluzione del
suo paradigma che, da stabile, si fa precario con il verificarsi di
eccezioni, fino al punto in cui esso è soggetto ad una rivoluzione e
all’avvento di una nuova teoria, con un nuovo paradigma, in grado
di spiegare anche le eccezioni che la teoria precedente non spiegava.
Lakatos
sostiene che le teorie scientifiche prevedono l’adozione di teorie
ausiliare (la cosiddetta “cintura protettiva”) a difesa della
teoria principale (“nocciolo duro”), quando emergono fatti in
contrasto con le teorie stesse, in modo tale che la teoria principale
non viene messa in crisi immediatamente da cambiamenti rivoluzionari
di paradigma.
Feyerabend
sostiene che il cambio di paradigma da una teoria scientifica ad
un'altra non dovrebbe essere legato ad alcuna forma di coerenza e che
il nuovo paradigma scientifico non dovrebbe essere obbligato, per
essere ritenuto valido, a spiegare tutti i fatti spiegati dai
paradigmi precedenti (più le eccezioni), come invece sostenevano,
ognuno a suo modo, Popper, Kuhn e Lakatos.
In
virtù del suo principio falsificazionista, Popper accomuna nella
categoria della non-scienza la metafisica, la psicoanalisi e il
marxismo, in quanto si tratta di sistemi teoretici che - tutti -
possono trovare presunte conferme ad
infinitum, ma
non sono mai passibili di essere falsificati. Ciò li rende non
scientifici. Il paradigma scelto da Popper per definire una scienza è
quello galileiano della scienza fisica, dunque, ossia la scienza
sperimentale. Al riguardo, però, Bion ci avverte che tale scienza è
scienza delle cose inanimate, morte32,
e in quanto tale essa pone l'uomo che conosce sullo stesso piano
dello psicotico che vede e indaga la realtà come cosa inanimata e
morta. Sembrerebbe quindi che, secondo Bion, se la psicoanalisi
soggiacesse a tale principio della scienza fisica sperimentale,
semplicemente essa non potrebbe esistere come disciplina, in quanto
indaga cose vive, come le emozioni e i vissuti consci ed inconsci
delle persone.
Ora,
come si risolve tale apparente paradosso bioniano, che consiste nella
pretesa di fare scienza su di un nucleo, quello dell'inconscio, o
della realtà clinica, o della cosa in sé, che sembra ed è di per
sé metafisico, quindi non passibile di indagine scientifica?
Già
Freud, nel “Progetto di una psicologia”33,
teorizzava l’esistenza di rappresentazioni senza soggetto, nel
descrivere la coscienza in termini di neuroni ω, che possono o meno
prendere parte ai processi psichici, e s’imbatteva quindi già da
subito nel problema metafisico della presupposizione di un processo
di pensiero di cui non c’è necessariamente consapevolezza, ma che
supponiamo esista come forma di pensiero anche quando tale
consapevolezza manca. Tutto ciò, ancora prima delle sue
teorizzazioni fondamentali sull’inconscio.
Innanzitutto,
però, dobbiamo citare il fatto che tutti i riferimenti e le ricerche
di senso di tipo gnoseologico di Bion fanno riferimento alla realtà
clinica, quindi partono da quella che possiamo definire
un'"appercezione"34
di O: intendiamo qui il termine appercezione nell’accezione
filosofica inaugurata da Leibniz, come percezione di percepire. E’
una consapevolezza, quella bioniana, dell’esistenza di quel nucleo
che costituisce la realtà clinica ed emotiva del paziente, la verità
o l’insieme di verità intime, ed è una fiducia nella possibilità
di entrare in consonanza con essa.
Non
sarebbe altrimenti possibile comprendere nemmeno il filo del discorso
bioniano. Detto ciò, va accettato che il problema per la
psicoanalisi in generale, da Freud in poi, e non solo per le
asserzioni che su di essa enuncia Bion (ma egli, più di tutti gli
altri Autori, insiste nel sostenere il paragone tra la scienza e la
disciplina che si occupa dell’inconscio), il problema del "nucleo
metafisico" dato dal presupporre l’esistenza dell'inconscio
permane. Il problema è - com'è noto - se a fronte di ciò si possa
parlare di scienza psicoanalitica e sopratutto con quale modalità e
statuto epistemologico, oltre che ontologico.
4)
Possibili soluzioni al paradosso
A
tal proposito, Bion dà una risposta implicita proprio alle obiezioni
mosse da Popper alla psicoanalisi, rifacendosi al metodo
fenomenologico (analisi del vissuto come analisi del fenomeno
interno, potremmo dire) inaugurato da Kant e che in filosofia è
stato sviluppato da Husserl e da Heidegger. Tale passaggio, cruciale
e delicato, se convincente, ci permetterebbe di sfatare il mito della
psicoanalisi come disciplina dell'eterna verificazione e
dell'impossibile falsificazione, quindi per Popper espulsa dal novero
delle scienze.
Se
l'analisi bioniana del vissuto è paragonabile all'analisi kantiana
del fenomeno, allora è possibile definire la psicoanalisi -
kantianamente parlando - una scienza. Ma allora è possibile
definirla tale anche in senso popperiano. Ciò perché l'analisi del
vissuto ci permette non solo di verificare, ma anche di falsificare
(se il nostro vissuto la disconferma) un'ipotesi diagnostica e/o
interpretativa nell'hic
et nunc della
seduta. Se tale ipotesi epistemologica e metodologica ha un senso,
possiamo dire che Bion ha restituito alla psicoanalisi lo statuto
ontologico ed epistemologico di scienza, perlomeno secondo i
parametri - in verità assai rilevanti per tutto il pensiero
gnoseologico ed epistemologico anche contemporaneo - dettati da Kant.
Se
è vera tale riflessione, abbiamo ottenuto che Bion aiuta a sfatare
il mito della psicoanalisi come non scienza. Se accettiamo l'analogia
tra metodo fenomenologico (Husserl, Heidegger) inaugurato da Kant
(concentrarsi sul fenomeno, possibilità di studiare e conoscere ciò
che appare) e vissuto del terapeuta, abbiamo superato un primo
ostacolo all'equiparazione tra psicoanalisi e paradigma scientifico.
Se riuscissimo anche a superare l'obiezione della non falsificabilità
che costituisce la critica alla psicoanalisi da parte di Popper,
avremmo ottenuto un ulteriore punto a favore dell'ipotesi della
psicoanalisi come scienza. In realtà, possiamo sfatare anche il mito
della non falsificabilità, dal momento che, se un'interpretazione
viene sconfessata dal vissuto, essa può essere scartata.
5)
Uno strano contesto sperimentale
In
un ipotetico, immaginario contesto psicoanalitico e sperimentale
insieme, poiché le moderne tecniche di neuroimaging35
comprovano quali aree cerebrali si attivano a fronte delle emozioni,
se il vissuto del terapeuta non risultasse compatibile con le
emozioni che si attivano durante l'analisi nel paziente, attestate
dall'attivarsi visibile delle aree cerebrali, tale vissuto del
terapeuta e/o l’interpretazione ad esso collegata sarebbero
falsificati popperianamente. Potremmo affermare, in tal caso, di
trovarci di fronte a una proiezione del terapeuta. Così, c'è una
doppia falsificabilità dell'interpretazione: la teoria ha la prima
controprova nel vissuto del terapeuta e il vissuto del terapeuta può
essere confrontato – in un ipotetico contesto sperimentale –
anche con la realtà emozionale del paziente. E avremmo – in tal
caso - anche salvato il paradigma sperimentale, sfatandone
l’incompatibilità con la psicoanalisi. Il metodo dell'analisi del
proprio vissuto presuppone il collegamento di tale vissuto con la
cosa in sé che è costituita dal vissuto e dall'inconscio del
paziente. Tale è stato lo scandalo bioniano rispetto alla teoria
intrapsichica freudiana e kleiniana, scandalo che ha aperto la strada
alla psicoanalisi intersoggettiva.
Il
paragrafo precedente sarebbe inaccettabile, certtamente, in una
prospettiva bioniana “pura”. Valga per tutti, il riferimento
bioniano alla fotografia della fontana della verità, in Apprendere
dall’esperienza36.
Certo è che da tale punto di vista le tecniche di neuroimaging
sembrerebbero un tradimento inemendabile del metodo psicoanalitico in
generale e bioniano in particolare, il cui presupposto cardine sembra
quello in base al quale ciò che accade nell’hic
et nunc della
seduta, se osservato dall’esterno, tanto peggio in un contesto
dichiaratamente sperimentale, sarebbe tradito e falsato, e non
avrebbe alcun valore. In ciò, la posizione di Bion37
è collegata alle scienze contemporanee che, a partire dal principio
d’indeterminazione di Heisenberg, hanno scoperto che un fenomeno
osservato è un fenomeno modificato, per cui non c’è mai in realtà
osservazione pura, ma sempre relazione osservante-osservato. Anche
tale constatazione, quindi, collega la psicoanalisi, in
primis la
prospettiva bioniana, alla scienza contemporanea, in quanto il
rapporto soggetto-oggetto inteso all’antica maniera come
causa-effetto, conoscente-conosciuto, terapeuta-paziente, viene
sostituito dal concetto di correlazione.
Il
nostro paragrafo vale quindi, se vale, a dimostrare che non esiste
affatto una presunta infalsificabilità della psicoanalisi, né a
livello teoretico, né a livello clinico. E ciò vale, se vale, a
confutare il principale pregiudizio sulla psicoanalisi come non
scienza.
6)
Oltre Gadamer
Un
altro modo per ottenere lo statuto scientifico a beneficio della
psicoanalisi sarebbe l’adesione all’ermeneutica di Gadamer38:
così si vedrebbe la psicoanalisi come una disciplina
dell'interpretazione, come un testo letterario che deve essere
coerente e che ha come unico obbligo imprescindibile, per essere
considerata disciplina scientifica, la coerenza interna delle
interpretazioni, o del “testo” della seduta. Ma in tal caso, cioè
nella scelta dello statuto dell’ermeneutica gadameriana per la
psicoanalisi, si salverebbe solo la coerenza della teoria e
dell’interpretazione clinica, senza confrontarla con il vissuto. Si
perderebbe la falsificabilità popperiana: perciò il metodo del
confronto tra ipotesi interpretativa ed analisi del proprio vissuto è
da ritenersi superiore all'ermeneutica gadameriana39.
7)
L’inconscio come insieme finito
Ma possiamo
spingerci oltre, nell'eliminare l’alone metafisico che nuoce alla
psicoanalisi come scienza. Noi abbiamo - è vero - dovuto ammettere
la cosa in sé bioniana, perché nell'intersoggettivismo che essa
implica vi è la radice della falsificabilità delle interpretazioni
(mediante il confronto tra l'ipotesi interpretativa e il nostro
vissuto di terapeuti che si presume corrisponda alla cosa in sé,
ossia alla realtà clinica del paziente), ma nulla ci obbliga - anzi,
ciò nuocerebbe alla psicoanalisi - a considerare la cosa in sé, o
l'inconscio in generale, come infinito.
Considerare,
come fa Matte Blanco40,
la cosa in sé, l'inconscio, come infinito, fa ripiombare la
psicoanalisi nella metafisica, postulando l'obbligo dell'esistenza di
qualcosa di indimostrabile ed inconcepibile per la mente umana.
Esiste,
beninteso, il pericolo opposto: assolutizzare l’inconscio, fare una
metafisica dell’inconscio, ha come contraltare storico-filosofico
il mettere in atto una metafisica della coscienza. Tale è il caso,
per esempio, dei cosiddetti filosofi spiritualisti. Valga per tutti
l’esempio del più completo e meno pedissequamente spiritualista
tra essi: Henri Bergson. Egli, già in Matière
et mémorie41,
sostiene l’incorruttibilità dei ricordi e quindi della coscienza
anche a fronte di lesioni organiche cerebrali, costituendo, con tale
posizione, una metafisica della coscienza stessa, almeno secondo il
parere complessivo di autori come Mathieu42.
Peraltro, lo
stesso Mathieu omette di ricordare che Bergson ci parla, in modo
affine a Proust, anche di ricordi involontari. Se il suo sistema
filosofico costituisse una mera metafisica della coscienza, dovremmo
presupporre che Bergson considerasse la possibilità di una coscienza
involontaria, concetto alquanto contraddittorio per chi si
prefiggesse come obiettivo la messa in atto di una metafisica della
coscienza. Tra l’altro, il concetto di ricordo involontario
presenta forse qualche assonanza con la teorizzazione bioniana dei
pensieri senza pensatore.
E’
difficile spiegare qui per quale motivo tali posizioni (ricordi
involontari e pensieri senza pensatore), che potrebbero a tutta prima
sembrare ancora più metafisiche della presupposizione
dell’inconscio, oggetto del presente lavoro, sollevino a parer
nostro minori problemi teoretici. Forse perché il sopravvenire di un
pensiero o di un ricordo, come se provenisse da un’altra parte, da
fuori o dall’alto, è un’esperienza nota che non desta
altrettanto scandalo nel pensiero comune e nella scienza rispetto
alla presupposizione di un’entità altra rispetto alla coscienza.
Cioè, mentre i ricordi, volontari o no, o i pensieri, con o senza
pensatore, sono entità note, l’inconscio non è altrettanto
condiviso da tutti come esperienza diretta, ma pare un’elaborazione
concettuale secondaria ed un’entità aggiuntiva rispetto al
bagaglio esperienziale, proprio per le sue caratteristiche di non
immediata percepibilità di cui ci parla Bion a proposito della
necessaria messa tra parentesi della sensorialità per entrare in
contatto con la cosa in sé43.
Tornando
all’obiezione alla concezione dell’inconscio inteso come
infinito, poiché l'inconscio è parte dell'uomo e l'infinito è una
caratteristica di Dio, se l'inconscio fosse concepito come infinito,
paradossalmente l'uomo sarebbe assimilato a Dio. Forse però la
psicoanalisi non ha bisogno di negare il limite e la finitudine, in
modo schizoparanoide44.
Inoltre, ciò significherebbe postulare qualcosa di solo definitorio
e nominale - come l'infinito - ma di inconcepibile e non vivibile,
violando il principio scientifico psicoanalitico che ci impone di
confrontare le ipotesi interpretative con il nostro vissuto che, nel
caso del vissuto dell'infinito, non esiste come tale o quantomeno è
discutibile (la comunione con O non sembra comportare, infatti,
necessariamente la sua definizione in termini infiniti).
Si
pensi poi al riflesso clinico di tale pretesa all'inconscio inteso
come infinito, nei pazienti paranoici, per esempio, o - al contrario
- nei malati terminali morenti, in psicooncologia. La convinzione
conscia, inconscia o preconscia del terapeuta dell'infinitudine
dell'inconscio potrebbe indurre l’acuirsi della paranoia nei primi
e della depressione nei secondi.
Se noi –
al contrario - postulassimo una coscienza finita e un inconscio
anch’esso finito, non perderemmo nulla della teoresi
psicoanalitica, e ci avvicineremmo alla psicoanalisi come scienza del
limite45.
Il
limite – tra l’altro - è già presente, dacché Freud postulò
che l'uomo razionale non è padrone in casa propria, essendo
sottoposto a spinte pulsionali inconsce. Se noi in aggiunta a ciò,
postulassimo arbitrariamente anche che l'inconscio è infinito, ci
troveremmo di fronte al paradosso dell'uomo finito che è schiavo di
forze interne infinite. Ciò costituirebbe qualcosa di più, forse,
di una posizione metafisica: si tratterebbe di una sorta di precetto
religioso.
Tale
petitio principii –
costituita dalla pretesa infinitudine dell’inconscio –
spiegherebbe molto bene, tra l’altro, anche il nocciolo duro di
diffidenza verso la psicoanalisi che ha l'uomo della strada, il cui
senso comune gli impedisce di fidarsi di una disciplina che
pretenderebbe di ridurre l'istinto religioso a meccanismo di difesa
sublimatorio, imponendogli però contemporaneamente di credere
altrettanto ciecamente che la forza, più o meno oscura, delle
pulsioni inconsce da analizzare, sia invece infinita: un ben strano
paradosso.
Del
resto, Kant stesso, nella Critica del
giudizio, definiva il sublime come un
sentimento derivante dall’incommensurabilità del fenomeno, che ci
fa pensare, ma solo pensare e mai poter provare, l’essenza infinita
dell’inconoscibile cosa in sé46.
Da tale prospettiva, credere erroneamente che l’inconscio sia
infinito potrebbe essere anche descritto in termini schopenhaueriani,
come velo di Maya47,
laddove al contrario la cosa in sé in termini kantiani, o la volontà
in termini schopenhaueriani o l’inconscio in termini
psicoanalitici, proprio perché inconoscibili, non sono né infiniti,
né finiti di per sé, ma possono essere ritenuti finiti, se
confrontiamo, come si notava sopra, l’ipotesi dell’infinitudine
con il nostro vissuto che, se analizzato, ci parla sempre di qualcosa
di finito.
Possibile
obiezione a quanto sopra sarebbe costituita dall’argomentazione in
base alla quale noi possiamo in effetti avere un vissuto di
infinitudine, quando siamo di fronte al sublime, oppure in uno stato
che definiremmo alterato dal punto di vista della ragione. Ma anche
allora non ci sarebbe corrispondenza tra vissuto e teoria, e quindi
scarteremmo l’ipotesi dell’infinitudine secondo il criterio della
falsificabilità popperiana, perché in tali stati in cui ci sembra
di avere un vissuto dell’infinito, è k, la ragione ad essere
assente o dormiente, non corrispondente, quindi, a tale pretesa
infinitudine, non coerente, cioè, con quel vissuto di infinitudine.
Tale
situazione di incoerenza tra ragione e vissuto che si verifica quando
definiamo infinito l’inconscio ricorda il noto metodo descritto
nell’antichità per prendere le decisioni. Lo storico greco antico
Erodoto48
riferisce come uso dei Persiani il fatto che le decisioni venivano da
loro prese prima da sobri e poi da ubriachi e solo se la scelta
coincideva, la decisione veniva presa. Nel caso dell’inconscio
visto come infinito, da sobri la ragione può ammetterlo, ma il
vissuto no. In stato mentale di alterazione, invece, il vissuto può
ammetterlo, ma la ragione no. Ecco perché, seguendo il metodo
descritto da Erodoto, non conviene ritenere l’inconscio infinito.
Sembrerebbe,
ad alcuni, tale vissuto di infinitudine, ciò a cui ci porta la
teoria stessa di Bion, dal momento che da k ci si auspica di passare
alla comunione con O. Ma non solo non è necessario concepire O come
infinito, ma neppure lo è prescrivere l’abbandono di K. Se
lasciassimo per sempre K per O, infatti, evidentemente non potremmo
fare alcuna terapia, né avere alcuna teoria, non faremmo quindi né
clinica, né scienza. Il confronto tra il vissuto e K, ossia tra il
vissuto emotivo e l’interpretazione razionale, è invece sempre
necessario, ed anzi la comunione con O è interpretabile nel modo
migliore proprio come la coincidenza del vissuto con
l’interpretazione stessa. E’ tale coincidenza, anzi, ciò che
determina il fatto scelto, l’intuizione, il vedere dentro e il
conseguente capire che tutto torna: l’interpretazione coincide con
il vissuto nell’hic et nunc.
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1971, Napoli, Guida Editori).
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Blanco, Ignacio, L’inconscio
come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica,
Torino, Giulio Einaudi editore, 1981, tit. orig.: The
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Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi,
Vol. I: la teoria, 1995, Baldini Editore (Astrolabio), Roma. Titolo
originale: Melanie
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Spillius,
Elizabeth Bott, Melanie
Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi,
Vol. II: la pratica, 1995, Baldini Editore (Astrolabio), Roma. Titolo
originale: Melanie
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in Theory and Practice, Vol. II Mainly Practice,
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orig.: The
Maturational Process and the Facilitating Enviroment. Studies in the
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London, The Hogart Press and the Institute of Psycho-analisys, 1965.
Zapparoli,Giovanni;
Adler Segre, Eliana, Vivere e morire.
Un modello di intervento con i malati terminali, Milano,
Feltrinelli, 1997.
1
V. la “Premessa”, scritta da Monsaingeon, alla raccolta di
interviste di Glenn Gould, No, non sono un
eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo
originale: Non, je ne suis pas du tout un
excentrique, 1986, Librairie Arthème
Fayard), pp. 1-5.
2
L’avversione di Gould nei confronti di ogni forma di edonismo ha
senz’altro connotazioni morali: “...un termine che nel mio
vocabolario rappresenta il massimo dello spregiativo -...edonista”.
(Gould, op. cit., p.
138).
3
V. p. es. ciò che Gould afferma a proposito di un direttore che la
critica generalmente ritiene importante, ma certamente “minore”
rispetto a Bernstein, George Szell: “Inizialmente Szell voleva
registrare per la Epic perché, in un colpo solo, gli era possibile
registrare, ad esempio, le nove Sinfonie di Beethoven, o un
repertorio simile, che sarebbe stato in diretta competizione con
quello che Bernstein e Ormandy volevano fare in quello stesso
momento. Ora, nonostante Szell fosse un direttore d’orchestra ben
più grande di quelli...i suoi dischi non si vendevano.” (Gould,
op. cit., p. 130).
6
Leonard Bernstein, La
gioia della musica,
Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The
Joy of Music,
1959, Simon & Schuster, New York), p. 133. V.
anche Helena Matheopoulos, Maestro. Incontri
con i grandi direttori d’orchestra,
Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro,
Helena Matheopoulos, 1982) dove Bernstein afferma che “dirigere...
E’ un grande atto d’amore” (p. 27). Si noti che anche per
Gould l’esecuzione musicale “è...una storia d’amore”
(Gould, op. cit., p.
55), ma mentre per Bernstein la corrente amorosa unisce esecutore e
pubblico, per Gould unisce esecutore e musica eseguita. In ciò sta
la differenza nodale tra musica intesa come esaltazione e musica
intesa come contemplazione.
8
V. p. es. Glenn Gould, Lettere,
Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected
Letters, 1992,
Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd), pp. 30-33.
9
V. p. es. Glenn Gould, L’ala del turbine
intelligente. Scritti sulla musica, Milano,
Adelphi, 1988 (tit. orig. The
Glenn Gould Reader,
Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), pp. 27, 30 e
84.
10
Gould, No, non sono un eccentrico,
Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non,
je ne suis pas du tout un excentrique, 1986,
Librairie Arthème Fayard), p. 55.
12
Il ragionamento sul ruolo dell’artista nella società e sulla
mentalità puritana dell’Ontario anni ‘40 è dello stesso Gould
(Gould, op. cit., p.
121).
14
V. Glenn Gould, “The Prospects of Recording”, in High
Fidelity, Great Barrington, The Billboard
Publishing Co., April 1966, pp. 54-56, dove Gould critica i criteri
di valutazione estetica improntati allo storicismo, giudicandoli
ironicamente come espressione della “sindrome di Van Meegeren”.
15
V. p. es. Gould, No, non sono un eccentrico,
Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non,
je ne suis pas du tout un excentrique, 1986,
Librairie Arthème Fayard), p. 63.
16
V. p. es. Bernstein, La gioia della musica,
Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy
of Music, 1959, Simon & Schuster, New
York), pp. 65-82, dove viene riprodotto il testo di una trasmissione
televisiva del 14/11/1954. Brani di questa trasmissione si ritrovano
anche all’interno della puntata del ciclo televisivo Bernstein
dirige Beethoven dedicata alla Quinta
sinfonia.
17
Gould, L’ala del turbine intelligente.
Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988
(tit. orig. The Glenn
Gould Reader,
Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), p. 84.
18
V. Gould, L’ala del turbine intelligente,
cit., pp. 131-135, dove l’Autore espone le motivazioni delle sue
scelte interpretative per questo concerto.
20
Gould, No, non sono un eccentrico,
Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non,
je ne suis pas du tout un excentrique, 1986,
Librairie Arthème Fayard), p. 157.
21
Esistono, è vero, studi di autorevoli Autori in tale direzione,
come, p.es., di Conrotto Francesco, Per una teoria psicoanalitica
della conoscenza, Milano, Franco Angeli, Editore, 2010, ma in
prospettiva più nettamente psicoanalitica rispetto all’approccio
interdisciplinare indicato nel presente lavoro..
23
V. rif. in nota n. 11, infra.
24
V. Bion, Wilfred R., Analisi degli schizofrenici e metodo
psicoanalitico, Roma, Armando, 2009, tit. orig.: Second
Thoughts (Select Papers of Psychoanalysis), Londra, Heinemann,
1967, pp. 169-170.
25
Bion, Wilfred R., Attenzione e interpretazione, Roma,
Armando, 2002, tit. orig.: Attention and Interpretation. A
Scientific Approach to Insight in Psycho-Analysis and Groups,
Tavistock Pubblication, Londra, 1970, pp. 39-44. In Apprendere
dall’esperienza, (Roma, Armando,
2009, tit. orig. Learning from
Experience, William Heinemann, Medical
Books, Ldt., London, 1962, p. 27), l’analogia è fra cosa in sé
ed elementi beta.
26
Bion, Wilfred, Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando,
2009, tit. orig. Learning from Experience, William Heinemann,
Medical Books, Ldt., London, 1962, p. 27, nota.
27
In: Neri, Claudio; Correale, Antonello; Fadda, Paola, Letture
bioniane, Roma, Edizioni Borla, 1994, pp. 406 sgg.
29
Kuhn, Thomas, The structure of
scientific revolutions (3rd ed.).
Kuhn, Thomas S. Chicago, IL, US: University of Chicago Press.
(1996). xiv 212 pp. (I ed. 1962).
30
Lakatos, Imre, La metodologia dei programmi di ricerca
scientifici, Il Saggiatore, 2001, tit. orig. The
Methodology of Scientific Research Programmes, Edited by John Warral
and Gregory Currie, Philosophical Papers, Vol. I, 1978.
31
Feyerabend, Paul, Against
Method: Outline of an Anarchistic
Theory of Knowledge (1975),
traduzione italiana Contro
il metodo: Abbozzo di una teoria
anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano.
32
Bion, Wilfred R., Apprendere dall’esperienza, Roma,
Armando, 2009, tit. orig. Learning from
Experience, William Heinemann, Medical
Books, Ldt., London, 1962, p. 36.
33
Freud, Sigmund, “Progetto di una psicologia”, 1895, (in Freud,
Sigmund, Opere, 2, Progetto di una psicologia e altri scritti
1892-1899, Torino, Bollati Boringhieri editore, 1989. Ediz.
Orig.: Sigmund Freud
Gesammelte Werke, 18 voll., S. Fischer
Verlag GmbH – Frankfurt am Main, p. 216).
34.
Cfr. G. W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D. O.
Bianca, UTET, Torino, 1967.
35
V, p.es., Gallese, Vittorio, “Dai neuroni specchio alla consonanza
intenzionale. Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività”,
in Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208. Esperimenti
sull’efficacia della psicoterapia mediante l’analisi delle aree
cerebrali interessate sono stati già effettuati con riscontri
positivi, sia pure nell’ambito della psicoterapia ad indirizzo
cognitivo.
36
Bion, Wilfred, Apprendere dall’esperienza, (Roma, Armando,
2009, tit. orig. Learning from Experience,
William Heinemann, Medical Books, Ldt., London, 1962, p. 15).
37
Bion, Wilfred R, Gli elementi della psicoanalisi, Roma,
Armando, 1979, tit. orig. Elements of Psychoanalysis, 1963.
38
Abbagnano, Nicola; Fornero, Giovanni, “L’ermeneutica: Gadamer”,
in Filosofi e filosofie nella storia. Volume terzo, Torino,
G. B. Paravia & C. S.p.A., 1986. Cfr. Gadamer, Hans-Georg,
Wahrheit und Methode, 1960, Tübingen.
39
Sull’applicazione dell’ermeneutica alla psicoanalisi, e suoi
limiti, v. anche La ricerca in psicoanalisi, di Horst
Kachele, Helmut Thoma, Urbino, 2003, pp. 33-47.
40
Matte Blanco, Ignacio, L’inconscio come insiemi infiniti.
Saggio sulla bi-logica, Torino, Giulio Einaudi editore, 1981,
tit. orig.: The Unconscious as Infinite Sets. An
Essay in Bi-Logic, Gerald Duckworth &
Company Ltd, London, 1975.
42
Mathieu, Vittorio, Bergson, il profondo e la sua espressione,
1971, Napoli, Guida Editori.
43
Il tema, in realtà assai centrale e controverso in Bion, è
riassunto, p.es., in Neri, Claudio; Correale, Antonello; Fadda,
Paola, Letture bioniane, Roma, Edizioni Borla, 1994, pp.
219-223.
44
Tale peraltro, per Bion, sarebbe la posizione propria del pensatore,
inseguito da “pensieri che appartengono ad un sistema non umano,
quello del campo O”. Bion, Wilfred R., Attenzione e
interpretazione, Roma, Armando, 2002, tit. orig.: Attention
and Interpretation. A Scientific Approach
to Insight in Psycho-Analysis and Groups,
Tavistock Pubblication, Londra, 1970, p. 141.
45
Cfr., p.es., Zapparoli,Giovanni; Adler Segre, Eliana, Vivere e
morire. Un modello di intervento con i malati terminali, Milano,
Feltrinelli, 1997.
46
Kant, Immanuel, Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1989,
tit. orig., Kritik der Urteilskraft, 1790, pp. 103 sgg.
47
Schopenhauer, Arthur, Il mondo come volontà e rappresentazione,
Milano, Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A., 1969-1991, tit. orig. Die
Welt als Wille und Vorstellung,
Leipzig: F. A. Brockhaus, 1819, p. 44 e passim.
48
Erodoto, Storie, 440 A.C., (1,133, 3-4), Milano, Mondori,
2000.
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