Tre saggi di filosofia applicata

1) FILOSOFIA APPLICATA ALLA CRITICA LETTERARIA

Contraddizioni
(recensione del libro Kafka, romanzo e parabola di Giuliano Baioni)

Giuliano Baioni, in Kafka, romanzo e parabola, ci fornisce un quadro che ci reca un'impressione ambivalente: come se il critico non riuscisse a soddisfare alcune delle istanze che l’opera di Kafka sembra invece porre.
I motivi di perplessità potrebbero riassumersi nella critica seguente: Baioni sembra cadere in contraddizione. Egli infatti dichiara di essere concorde con l’interpretazione polisemica già inaugurata da alcuni interpreti di Kafka, quell’interpretazione cioè in base alla quale si tenta di rendere ragione, esplicitandoli, di tutti i possibili significati e di tutti i possibili piani interpretativi del testo kafkiano. Alcune di queste direttrici interpretative tradizionali, sviluppate in modo predominante ciascuna da gruppi di critici diversi sono le seguenti: la ricerca, nell'opera di Kafka, del significato psicoanalitico-freudiano, di quello sociologico, di quello più specificamente marxiano, di quello teologico, di quello più propriamente ebraico, di quello teoretico-filosofico.
Ora, i limiti della prima critica kafkiana consistono secondo noi proprio nel non aver considerato come centrale, nell’ermeneutica dell’opera del Nostro, la esplicitazione puntuale – per ogni testo di Kafka – di tutti i sopracitati (ed eventualmente anche di molti altri) significati, e non soltanto di alcuni di essi, o di uno solo, fatto assurgere ad unica chiave interpretativa in base ad una petitio principii, da parte del critico letterario di turno; ma, soprattutto, dovrebbe a nostro avviso essere centrale la ricerca della possibile relazione tra tali significati, la ricerca quindi di ogni eventuale meta-messaggio dell’Autore. Per meta-messaggio si intende qui ogni possibile eventuale ulteriore prospettiva che derivi da quelle predette, senza esserne meramente o meccanicamente la somma. Spiegheremo meglio più avanti cosa si intenda per ermeneutica del meta-significato kafkiano.
Tornando al Baioni, egli, come si anticipava sopra, da un lato concorda con tale prospettiva di ermeneutica del testo kafkiano di tipo polisemico, dall’altro lato, però, de facto non sempre sembra seguirla e – al pari di molti dei critici che egli cita e che lo anno preceduto – pare spesso intento a cercare un solo significato dell'opera, del brano, del passo, abbracciando quindi una e una sola prospettiva alla volta, non invece più prospettive insieme, in modo coordinato e comparativo, come invece un atteggiamento erneneutico di tipo polisemico sembrerebbe richiedere. Ma vediamo anzitutto come egli si pone nei confronti dei vari piani interpretativi citati.
L’interpretazione freudiana subisce in Baioni un capovolgimento che sembra stroncarla sul nascere: anziché usare le categorie freudiane per spiegare i testi di Kafka, Baioni usa i testi di Kafka per spiegare il rapporto particolare che Kafka aveva (o meglio avrebbe avuto: il condizionale è d'obbligo) con suo padre. Utilizza cioè l’interpretazione freudiana al servizio di in un biografismo non finalizzato al reperimento di un significato del testo. Usa le categorizzazioni freudiane per spiegare – soprattutto nella disamina della Lettera al padre – il rapporto che Kafka aveva con suo padre. Per Baioni l’interpretazione freudiana di Kafka si limita a questo. Non figura una sua versione, tra le tante presenti, dell’interpretazione psicoanalitica della Metamorfosi, fatto tanto più inspiegabile dal momento che tale racconto è uno di quei casi in cui l’interpretazione freudiana viene riconosciuta unanimemente come fertile di sviluppi e probante nel rendere ragione della dinamica interna di tutta quanta la storia del protagonista Gregor Samsa.
L’interpretazione sociologica baioniana offre a nostro avviso un ulteriore esempio di contraddizione tra una prospettiva ermeneutica polisemica dichiarata nelle intenzioni ed una assenza di prospettiva ermeneutica polisemica nei fatti. Baioni dichiara di accettare come valida anche l’interpretazione sociologica di Kafka (sarebbe peraltro impossibile negarlo). Ma di fatto lungo tutto il suo testo egli sembra sottovalutarla. Solo per il Processo egli accetta di trattare sociologicamente l’opera, spiegando (per la verità in modo assai sintetico) gli intrecci tra il significato ebraico e quello sociologico: la Legge come manifestazione degli ebrei del Tempio, che per manifestarsi si serve di un mondo preso di forza dai sobborghi degli operai cechi, che si contrappongono all’ebreo borghese occidentale K.. Viene però solamente spiegata la contrapposizione tra ebraismo occidentale-borghese-di lingua tedesca ed ebraismo orientale-proletario-di lingua ceca. Per tutti gli altri testi di Kafka (su tutti, ancora la Metamorfosi) Baioni sembra invece ignorare tale prospettiva, o meglio, la ignora nel corso del proprio saggio, mentre vi polemizza in maniera massiccia nelle sue note, dove appare molto impegnato in una critica serrata ad uno degli esponenti dell’interpretazione sociologica: Wilhelm Emrich. La polemica sui dettagli dell’interpretazione dello Emrich fornisce un esempio di energia esegetica forse sprecata dal Baioni. Se infatti il critico avesse messo la stessa precisione e la stessa minuziosità che mette a confutare i passi di Emrich, per analizzare il testo kafkiano in modo polisemico, ci avrebbe fornito esiti forse più incisivi; si veda, per esempio, l’efficacia analitica di Mauro Nervi, autore del progetto - e sito omonimo - Kafka Project il quale si rifà esplicitamente ad una analisi del linguaggio di tipo wittgenstainiano.
L’interpretazione Marxiana viene liquidata con un solo riferimento parentetico. Sembra che tale prospettiva non interessi il critico. Eppure è innegabile che tra i temi che Kafka pone vi sia l'oppressione delle classi disagiate da parte del potere, anche se è noto che la critica marxsista bollò Kafka come reazionario per la visione negativa che l'Autore darebbe delle masse: caso tipico è la famosa scena del romanzo America (vista dal protagonista dal balcone, quando è prigioniero in casa di Brunelda), in cui due candidati alle elezioni, che sembravano dominare la folla in comizio, ne vengonoe all'improvviso trascinati e sballottati a destra e a manca, in un rapporto che sembra essere sempre e comunque di dipendenzae di dominio, sia pure in alternanza e a parti rovesciate, tra un leader visto come populista e domatore e una massa intesa come dipendente e/o ribelle, ma comunque sempre forza irrazionale, non diversamente da come viene interpretata da Le Bon prima e da Freud poi.
L'interpretazione in chiave teologica dell'opera di Kafka, tipica dell'amico dello scrittore, Max Brod, viene dal Baioni incorporata in quella più propriamente ebraica. Appare a tal proposito non pienamente comprensibile il motivo per il quale Baioni impieghi una parte assai rilevante dell'impegno esegetico nel cercare riferimenti – all’interno del testo kafkiano – al mondo reale di segni e simboli ebraici del milieu storico culturale kafkiano. Ci si chiede cioè che aiuto possa dare alla comprensione del testo kafkiano, rilevarvi tutti i riferimenti all’ebraismo reale, senza metterli in relazione con il significato estetico dell’opera, ma facendone solo un cifrario privato dell'Autore. Sembra interessare al Baioni – a tratti - un'indagine religiosa, o di costumanza religiosa, piuttosto che il tentativo di scoprire quale significato abbia l’uso di tali riferimenti all’interno della poetica kafkiana.
E qui si giunge a nostro avviso ad un problema centrale nell'interpretazione kafkiana dataci dal Baioni. Egli non sembra concepire quasi una prospettiva estetologica. Non sembra cioè curarsi cioè del fatto che gli episodi biografici e i riferimenti della vita sociale e religiosa dello scrittore siano trasfigurati, subiscano un salto e uno scarto ineliminabili nei quali consiste, in altri termini, la stessa creazione artistica e l’autonomia dell’opera d’arte dalla vita e dal tempo in cui essa è concepita. Se si rifiuta tale principio, verificabile anche empiricamente quando si ha occasione di osservare da vicino la nascita della creazione artistica, si rischia di essere preda di un biografismo cronachistico, forse incolore, almeno tanto quanto lo era (esteriormente incolore) la vita di Kafka.
Il rifiuto apparente di una prospettiva estetologica da parte del Baioni non sembra avere solo le conseguenze sopra citate, ma anche ulteriori limiti. Sembra venire meno da parte del critico – a tratti - quale guida per un’interpretazione, per la ricerca di una prospettiva interpretativa ottimale, l’aggancio all'analisi del testo in funzione di una spiegazione della bellezza del testo kafkiano. Mancherebbe l'analisi del testo in funzione estetologica, da parte del Baioni. Tale analisi del testo, infatti, non dovrebbe essere fine a sé stessa, ma sempre finalizzata a scoprire i rapporti formali e contenutistici delle varie parti del testo stesso, in grado di chiarircene l’apoditticità e la bellezza. Baioni sembra non riconoscere appieno l'importanza di una tale prospettiva ermeneutica in chiave estetologica. Ciò sembra portarlo, a tratti, ad alcuni giudizi di valore sull'opera kafkiana che per la loro apparente sommarietà lasciano alquanto perplessi. Per esempio, il racconto Sciacalli e arabi viene definito senz’altro come uno dei più brutti scritti da Kafka: ammesso e non concesso che ciò sia sostenibile, il critrico omette di fornircene le motivazioni. Altro esempio: il frammento cassato del Processo, in cui il protagonista K. si veste di abiti rabbinici dismettendo e abbandonando il suo abito e la sua vita precedente è – ci viene comunicato per inciso dal Baioni – uno dei più belli mai scritti da Kafka: sia pure, ma tale giudizio estetico non viene argomentato dal critico.
E veniamo a quello che secondo noi è, pur se non una contraddizione, uno dei limiti principali della trattazione del Baioni: lo storicismo evoluzionista. Con tale termine intendiamo qui l’adesione implicita e non argomentata, e la messa in pratica nel testo critico, di quel tipo di presupposto esegetico di tipo storicistico, con il quale si suppone che ogni opera successiva di ogni autore sia un po’ più matura, un po’ più significativa di quelle precedenti e comunque – secondo un sistema a gradini – sia basata sui presupposti, sulle conclusioni o sulle domande lasciate aperte dalle opere precedenti. Secondo tale prospettiva la prima sinfonia di Beethoven sarebbe più immatura della seconda e soprattutto della terza perché risentirebbe ancora di stilemi settecenteschi, la quarta sarebbe un passo indietro rispetto alla terza perché meno lunga, meno potente, la quinta costituirebbe un apice per vigore battagliero, ecc… Il presupposto è sempre una sorta di climax ascendente, o comunque una dialettica evoluzionistica, come se si trattasse di una creatura, quella costituita dalle varie opere scritte via via dall’autore, che cresce e che con il crescere si fa via via “migliore”. E, alla maniera di una pedagogia prerousseauiana, si ritiene che il fanciullo sia più immaturo (non anche differente e per molti versi forse migliore) dell’adulto e che la condizione ottimale sia l’età adulta. Ma la creazione artistica non è schiava di tale dialettica evoluzionistica e accade molto spesso, per riconoscimento unanime della critica e del pubblico a distanza di anni, che si ritenga – fondatamente – un opus 1 migliore di tutte le opere seguenti. Per Baioni invece la metamorfosi è un circuito chiuso, il processo è incompiuto per il semplice motivo che non ha soddisfatto le esigenze dell’Autore di universalizzare e render ragione nell’opera d’arte del dato biografico costituito dal suo fidanzamento fallito, ecc… Ma, a questa stregua, si sarebbe potuto benissimo dar credito alle folli istanze di Virgilio che – analogamente a Kafka – ordinò di bruciare l’Eneide perché non lo convinceva appieno, in una sorta di maniacale sete di grandezza e perfezione, e ci saremmo privati così di una miriade di capolavori. Lo spazio dedicato all’analisi dei romanzi è crescente (meno per America, un po’ di più per il Processo, molto di più per il Castello). I primi racconti vengono ritenuti delle specie di saggi da studente molto dotato, ma un po’ impacciato.





2) FILOSOFIA APPLICATA ALLA CRITICA MUSICALE

GOULD E DINTORNI
(Saggio sul pianista canadese Glenn Gould)

Nel 1982 un ictus strappava al mondo uno di quei musicisti e intellettuali di cui si può dire in tutta tranquillità, senza incorrere in alcun rischio di retorica, che non sarà mai abbastanza compianto.
Sia chiaro subito che nel presente, breve tentativo di delineare alcune caratteristiche umane, musicali e intellettuali del grande pianista torontese, rifuggiremo dalla discussione, del tutto superficiale, della sua “stravaganza” esteriore, cui pure molti appassionati (appassionati del personaggio creato dalle case discografiche e dai media, più che della musica) si abbeverano. Nulla ci importa, per principio, della sua sedia bassa e rotta, come anche del suo abbigliamento invernale portato in sale iper-riscaldate, e simili amenità, poiché, caso mai, per chi fosse alla ricerca di stranezze, ben più scalpore avrebbe dovuto destare, a rigor di logica, un altro fatto, molto importante: il buio sulla sua vita privata affettiva (segreta oppure del tutto inesistente?).
Nel delineare un breve ritratto di Gould rifuggiremo altresì da quella sorta di “beatificazione” di cui lo fa oggetto il suo maggiore critico (oltre che grande amico) Bruno Monsaingeon, il quale, negando tutta la paccottiglia di questioni superficiali sollevate attorno al fenomeno Gould, ne esagera però l’aspetto di spiritualità visionaria, facendone una sorta di messia di una nuova religione dell’umanità e della musica.1 Appare come un tradimento dello stesso “gouldismo”, inteso come stile di pensiero che rifiuta tutte le iperboliche e sentimentalistiche teorie del “genio” e dell’”ispirazione”, dare di Gould un ritratto - come fa a volte Monsaingeon - in termini apertamente misticheggianti.
Può sembrare curioso, nel tentativo di delineare alcuni tratti salienti di una personalità intellettuale complessa e ricca di spunti filosofici qual è quella di Glenn Gould, partire -come faremo noi- da un confronto, anche se il termine di paragone è un altro musicista tutt’altro che sconosciuto quale Leonard Bernstein. Il motivo della scelta, da parte nostra, di un simile approccio al “pianeta Gould” (il confronto tra alcune caratteristiche interpretative di Gould e di Bernstein) risiede nel fatto che in tal modo ci è più facile entrare subito nel vivo della personalità di Gould, in quanto quella personalità, con i suoi ideali di purezza e i suoi tic intellettuali, costituisce già da sola il contrassegno di una cifra stilistica ben precisa, e ci indica la presenza di una figura di intellettuale “a tutto tondo” molto rara, non solo in campo musicale.
Se non fosse per la collaborazione con Stokowski (limitata -è vero- all’incisione dell’Imperatore di Beethoven, a un documentario radiofonico sul direttore e a cenni di reciproca stima, ma riconosciuta senz’altro come straordinaria dallo stesso Gould) si sarebbe portati a dire che il motivo della scarsa considerazione di Gould per Bernstein potrebbe risiedere nella concezione edonistica della musica e dell’interpretazione, propria del compositore di West Side Story. Numerosi sono infatti i passi degli scritti di Gould in cui egli indica nel rifiuto dell’edonismo (del suono e -più in generale- della forma e dell’interpretazione musicale) uno dei capisaldi della sua concezione complessiva dell’interpretazione,2 tale da fargli rifiutare Chopin, e da fargli apprezzare Mozart solo in quanto non edonista, cioè snaturandolo non poco. Eppure l’incisione del quinto concerto di Beethoven con Gould al piano e Stokowski sul podio è lì ad avvertirci che l’idiosincrasia di Gould verso l’edonismo (e il maestro Stokowski era un campione dell’edonismo sonoro, un cultore del bel suono orchestrale inteso come vettore di contenuti interpretativi già di per sé pregnanti) non era così centrale, almeno non tanto da inibirgli un’intesa musicale (e umana) col vecchio maestro, intesa che nessun critico ha esitato a definire eccellente, per gli ottimi esiti interpretativi dell’incisione stessa di quel concerto. Il movimento iniziale viene suonato da Gould più lentamente rispetto ad altri interpreti, e tale lentezza, perseguita e mantenuta fino all’ultima battuta con tenace meticolosità dal pianista canadese, conferisce già solamente all’incipit dell’Imperatore una solennità agghiacciante.
Non per motivi anti-edonistici, dunque, Gould teneva in poca considerazione (come risulta da molte sue dichiarazioni, sia pure fatte di sfuggita)3 Bernstein, direttore che del piacere in musica faceva in ogni caso uno dei motivi conduttori della sua arte interpretativa, ma per un altra ragione. Per Bernstein la musica si configurava non solo come gioia, sentimento che gli ispira comunque anche il titolo di un libro (The Joy of Music), ma anche come esaltazione, potenza ed estroversione che si esprimono in un istante che non può non essere fuggevole, e che ha nel presente la sua dimensione privilegiata. Concezione romantica della musica come espressione di sentimenti, quella di Bernstein; concezione che però si serve dell’attimo ed in esso si risolve interamente, prova ne sia anche il fatto che la maggior parte delle registrazioni fatte da Bernstein sono live.
Questa esaltazione, questa musica intesa come espressività viscerale, a Gould ripugnavano profondamente. Alla domanda fatidica: “Ritiene che la musica registrata produca sull’ascoltatore un effetto estetico e fisico analogo a quello della musica dal vivo?”4 Gould risponde con orgogliosa chiarezza: “No, e soprattutto non credo debba farlo. A mio avviso...la musica registrata dovrebbe...avere un effetto analogo a quello di un tranquillante...”.5 La musica per Gould dovrebbe dunque indurre a uno stato di contemplazione, tale da far emergere il sublime dalla tranquilla serenità che presuppone una mancanza di fratture su molteplici livelli: meno fratture tra artista e ascoltatore, nessuna frattura tra l’esperienza del sentire musica e la normalità quotidiana, meno fratture tra momenti alti e momenti bassi, tra io e mondo (topos romantico), ecc... Non una musica come esperienza “la...più simile all’amore”,6 come afferma invece Bernstein, artefice di una vera e propria rivoluzione nello stile direttoriale, con cui si abbandona la compassata e mendelssohniana asetticità, in favore di una figura dionisiaca e wagneriana del direttore stesso, con un di più di fisicità, sensualità e -verrebbe da dire- “sessualità” del gesto e della mimica facciale, come del movimento del corpo, che non trovano eguali nella storia della direzione d’orchestra. Per Bernstein il direttore d’orchestra dovrebbe con ogni mezzo cercare di “provocare...scariche di adrenalina”7 negli orchestrali e nel pubblico.
Nulla di tutto questo nel pianismo di Gould, ma una concezione della musica come continua e costante contemplazione di mondi di sublime bellezza, in grado di elevare moralmente lo spirito, ma integrandosi perfettamente con tutti gli altri aspetti del quotidiano, senza proporre o imporre all’ascoltatore, dunque, mistici e iperbolici trasalimenti, pena la ricaduta in un effimero hic et nunc che romperebbe i ponti col passato e col futuro per concentrarsi sul presente dell’esaltazione, troncando quella tranquillità e quella a-drammaticità a Gould tanto care.
L’essere romantico di Gould si estrinseca dunque con il potere immaginifico, con un’espressività che tocca il profondo attraverso sottigliezze da fanciullo ipersensibile, non (come vorrebbe invece l’evidenza della Storia della Musica) attraverso la magistrale resa del contrasto drammatico tra l’anima solare e quella notturna del mondo e della musica stessa, concezione tardoottocentesca che per una serie di consuetudini esecutive e di tentazioni virtuosistiche finisce per contaminare le esecuzioni della musica di quasi tutti i periodi storici. Gould era dunque antiromantico solamente nel senso storico-musicale del termine, ma si voleva romantico per la sua concezione di potente elevazione e nello stesso tempo di normalità della musica: “musica come tranquillante” significa la tendenza a integrare la musica con tutti gli altri aspetti del reale, non a sradicarla da tutto mettendola su un piedistallo, col rischio (corso da Bernstein) di farne la cassa di risonanza di un ego eccellente, ma solitario e contrapposto al mondo (gli “altri” costituiti simbolicamente dal pubblico, “costretto” ad assistere al trionfo dell’artista, alla legittimazione della sua superiorità rispetto al pubblico stesso), in definitiva perdente rispetto al “corso” del mondo stesso (altro topos romantico-decadente). Questo era bensì il rischio corso dalla visceralità di un Bernstein, le cui registrazioni, a mente fredda, danno l’impressione ambivalente di una coesistenza del meglio e del peggio a livello interpretativo, in cui a volte cioè la volontà di essere ardenti si risolve in minore precisione tecnico-stilistica, la quale a sua volta si rivolge contro l’efficacia drammatica, oscurandone alcuni tratti (specialmente negli inizi delle sinfonie, laddove negli sviluppi, e in genere nelle parti centrali dei brani orchestrali, Bernstein levigava accuratamente il suono delle orchestre con un sublime lavoro di cesello).
Il rifiuto gouldiano della visceralità e del far musica per così dire “a cuore aperto”, o meglio “a nervi scoperti e con le budella di fuori” contrassegna il suo rifiuto dell’istituzione del concerto, al quale il pianista canadese fa cenni sempre più frequenti fino al ritiro definitivo, nel 1964. E’ dopo il ritiro che Gould, preso da una sorta di “zelo missionario”, bombarda i suoi ascoltatori con una serie di documentari e di articoli in cui spiega le ragioni della prossima morte del concerto in favore dell’era dell’incisione. Comunque, se osserviamo con una certa attenzione il carteggio generale di Gould, notiamo che la sua idiosincrasia verso i concerti, le tournées e gli spostamenti non compare sin dall’inizio della sua carriera, ma parte da un momento preciso. Nel 1959, alla Steinway & Sons, Gould è vittima di un “incidente”: per colpa di una pacca sulla schiena datagli con intenzioni amichevoli da un inserviente, il pianista canadese rimane “fuori uso” per parecchi mesi, e da quel momento incomincia a prendere coscienza del fatto che le sue straordinarie doti psicofisiche come pianista costituiscono un tesoro tanto prezioso quanto fragile.8 Gould si adopererà da quel momento in poi per difendere sé stesso da un mondo che sente (almeno in parte) come ostile o per lo meno brutale e troppo violento rispetto alla sua sensibilità. Il fatto che a trent’anni egli abbia rinunciato al palcoscenico per dedicarsi esclusivamente alle incisioni e ai documentari radiofonici va visto quindi come la conseguenza necessaria di un rifiuto che ha nella protezione della propria persona (anche fisica) la sua radice ultima.
Ma, come è noto, Gould era, oltre che un grande pianista, anche un intellettuale, sicché alle sopracitate ragioni psicofisiche del suo ritiro affiancò di sua iniziativa una serie di motivazioni di carattere filosofico (estetico e morale) che per la loro estrema complessità e interconnessione reciproca risultano difficili da chiarire completamente. Gould indica nella competizione (non nel denaro) il peggior male della società occidentale, iniziatosi con il rinascimento e proseguito su tutti i livelli, compreso quello della cultura e in particolare della musica.9 Lo spirito di competizione costituirebbe il seme della violenza dell’uomo sull’uomo e , prima ancora, dell’uomo sulla natura. Nelle dichiarazioni di Gould posizioni vegetariane, animaliste e pacifiste (sicuramente suggeritegli anche dai movimenti giovanili degli anni ‘70, dai quali pure egli dissente sotto non pochi aspetti) si mescolano spesso (e a tratti si fondono in modo efficace) con riflessioni estetiche in senso lato. Il concerto costituisce secondo Gould uno spettacolo “crudele, feroce e idiota”,10 in cui l’attenzione -per forza di cose- non è incentrata sulla musica, ma sui salti mortali dell’esecutore virtuoso, il quale, autoincastrandosi compiacente in una spirale perversa, fa di tutto per spingere i suoi prodigi tecnici all’estremo limite dell’eseguibile, a un passo dal baratro dell’errore, disfatta che il pubblico teme e desidera al tempo stesso. E’ come una corrida in cui la musica fa da toro, affascinante solo in quanto pericoloso per il virtuoso-matador, il quale si diverte uccidendola.
Che l’incisione permetta una notevole accuratezza esecutiva, e richieda una massiccia profondità interpretativa è un dato di fatto: mentre in concerto sona volant, su disco sona manent, e anche l’ascoltatore più distratto può, dopo un certo numero di ripetizioni nell’ascolto di un brano, accorgersi di un passaggio poco convinto, di una struttura traballante, di una esecuzione poco ispirata. Il motivo dello scandalo suscitato da Gould nel difendere con pervicacia queste tesi risiede nella concezione, avente parecchio seguito, del concerto come serie magica di istanti irripetibili, luogo in cui la vera anima della musica verrebbe evocata senza i “trucchi e gli imbrogli” della “fredda” sala di registrazione. Gould afferma in proposito: “Tutta questa gente vive nell’illusione del carattere sacro del ricordo di momenti isolati, di istanti della storia che si sarebbero potuti per così dire fermare. E’ affascinante, ma è illusorio. La vita non è così semplice, e neanche la musica, grazie a Dio.”11 La ripetibilità dell’incisione (nel duplice senso: per l’artista che, attraverso il montaggio, può ripetere un take che non lo convince appieno, assemblandolo poi con il resto; per l’ascoltatore, che se crede di scorgere uno di quei momenti magici in un incisione di un brano, può ritornare su quel punto del disco anche mille volte) rende l’ascolto della musica un’esperienza veramente importante e profonda, contemplativa, e nel contempo per nulla sradicata dalla normalità e dalla quotidianità. Non più musica come evento straordinario e catartico, ma musica come amica e sostegno, quando si vuole e come si vuole, fonte di riflessione, di pace e di serenità.
L’artista da concerto assomiglia secondo Gould a un fenomeno da baraccone, e non assolve quella che a suo avviso è una delle sue funzioni primarie: l’espressione di una purezza e di un’elevazione spirituale che vadano in sostegno, anziché a detrimento della morale dominante. Sotto quest’aspetto giocano un ruolo determinante, in Gould, le sue radici puritane dategli dall’ambiente culturale della provincia dell’Ontario degli anni ‘40, in cui egli cresce e viene educato.12 Per inciso, Gould non smetterà mai di amare il paesaggio ghiacciato e la pura immensità dell’orizzonte canadese, spettacolo in cui l’amore per la natura (il paesaggio non è a misura d’uomo, semmai -al contrario- l’uomo può sentirsi parte di quel paesaggio) sembrerebbe venire spontaneo, e ispirare un desiderio di universale e un profondo rispetto per la vita di tutte le forme viventi. Il ruolo dell’artista, ben espresso secondo Gould dall’incisione e male espresso dal concerto pubblico, dovrebbe essere quello di portatore di messaggi di cristallina purezza, spunti di morale fusa con l’estetica, di bello con buono. Il concerto solletica invece il voyeurismo-sadismo del pubblico e l’esibizionismo-masochismo del musicista, complici entrambi di un rito immorale.
Col passare del tempo, Gould sente il bisogno di curare sempre più da vicino le sue incisioni, e di farle nascere in un ambiente costituito da pochissime persone (i tecnici e il produttore, che si ridurranno infine al produttore e basta), tanto da aprire un suo studio di incisione personale, dove l’elemento del tempo è lasciato libero di agire sulla sua concezione di un brano,13 a distanza siderale dalle strettoie e pastoie burocratiche di tutti gli artisti da concerto, per i quali il disco è un faticoso complemento delle tournées, al quale non è possibile dedicare tutta la cura necessaria. Riflettendo con mente aperta, non si può non riconoscere che vi è un preciso impegno morale nella cura estrema messa in atto da Gould nel confezionare un prodotto artistico quanto più bello possibile, fruibile a vari livelli di profondità a piacimento dell’ascoltatore, e per di più eterno, immortale come la stessa grande musica.
L’apertura al mondo dell’incisione, con le sue tecniche e le sue procedure che ne fanno la creazione di un’opera d’arte invece che una semplice “riproduzione”, fa tutt’uno con le idee tutt’altro che tradizionaliste e ortodosse che Gould ha nel campo di quella che si potrebbe chiamare “concezione generale dell’interpretazione”. Secondo Gould, come è noto, l’interpretazione di un brano dovrebbe darcene una versione nuova rispetto alle interpretazioni precedenti, perché se così non fosse non ci sarebbe ragione di proporla. Quest’idea della necessità di un rinnovamento rispetto alle interpretazioni precedenti si unisce in Gould (coerentemente) con il suo rifiuto della concezione secondo la quale esisterebbe per ogni brano un’interpretazione idealmente ottimale, e cioè la più vicina alle intenzioni del compositore.
Gould rifiuta un simile approccio al brano e al compositore, approccio che potremmo definire storicistico, in quanto presuppone un desiderio di identificazione, o per lo meno di rispetto, nei confronti del compositore e della sua epoca. Secondo tale approccio storicistico (accettato più o meno consapevolmente dalla maggior parte degli interpreti quale presupposto per una esecuzione quanto più possibile buona, quanto più possibile vicina alla sopracitata identificazione con le intenzioni del compositore) ogni epoca ha i suoi stili esecutivi che vanno rispettati e che costituiscono una base per ogni esecuzione. Per Gould invece, è meglio affidarsi a una intelligente iconoclastia: intelligente perché non perseguita a tutti i costi, bensì guidata dall’esigenza di non riproporre un’interpretazione ortodossa (che si affidi cioè alla mezza misura della tradizione esecutiva di un brano) se non dopo aver tentato di aprire nuove prospettive sul modo di rendere il brano eseguito, che ne ripropongano l’essenziale universalità data dalla logica interna della sua struttura, ma che ne tolgano la polvere e il vecchiume della tradizione esecutiva, i quali rischiano proprio di oscurare quella struttura e quell’universalità.
Quello che Gould non accetta della concezione storicistica dell’interpretazione è l’idea dell’unicità della prospettiva, l’idea che esista un’unica interpretazione ottimale, e che inoltre quell’interpretazione ottimale debba essere per forza legata a dogmi stilistici, supposte maniere di eseguire proprie di una tale o di una talaltra epoca storica, dogmi oltretutto difficili da dimostrare e frutto di conclusioni del tutto opinabili tratte dagli esperti, i filologi, che pretenderebbero di dettar legge in materia di interpretazione.14 Ma, oltre al fatto che nessuno potrà mai sapere come Mozart o Beethoven eseguivano le loro composizioni, Gould si propone di tagliare il problema alla radice: egli non vede perché mai bisognerebbe porsi come obbiettivo la somiglianza dell’esecuzione odierna con quella del tempo storico in cui quel brano è nato.15 Se si rifiuta tale dogma storicistico si può ottenere (e, nel caso di Gould, questo è quasi sempre successo) una maggiore attenzione alla musica stessa, studiata e concepita “in presa diretta”, senza i grovigli intellettualoidi dati dal porsi la domanda “se al compositore sarebbe piaciuto”.
C’è un “ma”, in questa visione gouldiana dell’interpretazione, ed è dato dal fatto che, anche se si rifiuta -come fa Gould- il modello interpretativo storicistico, qualche modello generale, volenti o nolenti, di fatto lo si segue, e anche Gould ha un suo modello. Ciò che a Gould piace trovare in ogni brano è costituito essenzialmente da due elementi: la varietà armonica, la presenza (e possibilmente la complessità) del contrappunto. Queste sono le caratteristiche, come è evidente, della musica di J.S. Bach, ed è proprio questo il motivo, per ammissione dello stesso Gould, del suo amore per la musica di Bach e dell’eccellenza -unanimemente riconosciutagli- delle sue interpretazioni di Bach. Il problema (se ci si vuole porre un problema) nasce dal fatto che Gould ricerca i summenzionati elementi formali non solo in Bach, ma anche in Beethoven, in Mozart e in tutti gli altri compositori, con risultato discontinuo.
Si prenda ad esempio Beethoven. In Beethoven l’interpretazione di Gould funziona solo a tratti: è meravigliosa nei passaggi del Beethoven “contemplativo”, in cui la varietà armonica (uno dei due elementi formali da Gould amati e resi meravigliosamente) è l’elemento portante del brano, ma troppo contemplativa nel Beethoven esaltato e battagliero (p. es., nell’incipit della Hammerklavier), in cui cioè è necessaria la resa ad alti livelli di quel contrasto drammatico di temi e di forme che Gould non amava, ma che è parte integrante (ed elemento formale determinante) della musica di Beethoven, soprattutto del Beethoven della cosiddetta fase di mezzo della sua produzione, quella che ha come epicentro la Quinta sinfonia. Per altro proprio la Quinta, nella trascrizione per pianoforte di Liszt, viene interpretata con meraviglioso e “battagliero” vigore da Gould, a significare che in musica ogni teorema sull’interpretazione nasce solo per dar corpo alle sue eccezioni.
Sempre riguardo ai parametri generali seguiti da Gould nell’interpretazione di un brano, bisogna rilevare, oltre all’elemento iconoclastico e antistoricistico, l’elemento della coerenza, con tutti i pregi e i difetti ad esso connessi. Il modo di suonare di Gould è improntato a una notevole coerenza, sia a livello stilistico, sia a livello di concezione generale dell’interpretazione.
A livello stilistico Gould si avvale di un tocco staccato, teso a rendere la chiarezza architettonica del brano. Lo staccato di Gould, invece di provocare un effetto slegato, riesce a riempire di tensione gli “spazi” tra una nota staccata e l’altra, in modo da creare una sorta di arcata sonora in perenne tensione, che cattura subito l’ascoltatore e lo induce a seguirla. Mentre il legato, ottenuto sovente dai pianisti con l’uso del pedale, crea il più delle volte un alone di impurità timbrica, dato dal fondersi dei suoni tra di loro, lo staccato di Gould crea un potente effetto di continuità. Lo staccato di Gould corrisponde anche al suo bisogno di dotare la musica di una chiarezza illuministica, tale cioè che l’ascoltatore sia messo in grado di udire distintamente tutte le note, dalla prima all’ultima, e quindi il rispetto dell’esecutore verso l’ascoltatore sia massimo. Altro elemento espressivo che riguarda specificamente lo stile pianistico di Gould è la limitazione della escursione dinamica. Il dislivello tra piano e forte viene ridotto da Gould, senza però ridurre la sterminata gamma di sfumature esistenti tra un estremo e l’altro, sicché il risultato è un’espressività molto raffinata, priva di effetti plateali, ma capace di risuonare più a lungo nella mente dopo l’ascolto, nel ricordo.
Dal punto di vista di una teoria generale dell’interpretazione, come è noto Gould rifugge qualsiasi enfatizzazione delle contrapposizioni formali interne al brano (per esempio tra i temi “maschili” e quelli “femminili” della forma sonata), perché, come abbiamo visto, gli elementi che gli interessa trovare corrispondono al suo ideale contemplativo di musica: essi sono la varietà armonica e la complessità contrappuntistica. Questa concezione crea delle interessanti analogie tra le musiche eseguite da Gould, anche quelle composte a secoli di distanza.
Se prendiamo ad esempio le esecuzioni gouldiane delle sonate di Bach per viola da gamba (con Leonard Rose quale partner di Gould) notiamo una sinuosità struggente di tipo romantico, in senso lato. L’espressività delle frasi bachiane viene resa in modo straordinario dai due esecutori, che liberano l’immaginazione mostrando come l’anima della musica di Bach si libri a mille miglia d’altezza rispetto alle pedanterie di quelle interpretazioni cosiddette “filologiche”, che si avvalgono degli strumenti d’epoca. Gould mostra invece con tutta evidenza come la musica di Bach sia indifferente al timbro, per via del suo carattere di astrattezza ed universalità che la sgancia dal tempo in cui fu composta. Il risultato è costituito da un freschezza interpretativa che facendo di Bach un compositore fuori dal tempo storico in cui ha operato, lo rende a maggiore ragione fruibile per i contemporanei.
Prendendo ora come esempio di compositore romantico Brahms, possiamo notare che il modo di suonare di Gould tende a diminuire il divario tra il mondo romantico espresso dalla musica di Brahms, e il mondo di Bach, che pure data secoli addietro. La assenza di contrasti drammatici, così confacente alla musica di Bach, viene ricercata da Gould anche in Brahms, proponendo perciò una versione della sua musica attenta all’espressione degli elementi melodico-armonici che sprigionano la fantasia del compositore, piuttosto che agli elementi di battagliero contrasto. L’anima contemplativa del romanticismo musicale viene eretta da Gould ad anima della musica tout court, a scapito dell’anima guerresca, che ha le sue origini nello Sturm und Drang e nell’idea di Streben. In questo modo Brahms, nell’interpretazione di Gould, viene scremato di tutto il beethovenismo drammatico che lo caratterizza, e viene parificato, con una operazione interpretativa deliberatamente anti-filologica e anti-storicistica, a un compositore barocco.
Se infatti, a livello storico-oggettivo, vediamo nella differenza tra un sentimento contemplato e un sentimento direttamente espresso (e vissuto nei suoi contrasti) la differenza principale tra l’ego filosofico della musica barocca e l’ego della musica romantica, Gould rifiuta questa differenziazione e ci propone una musica romantica altrettanto contemplativa e a-conflittuale della musica barocca. Nel caso specifico, l’interpretazione gouldiana di Brahms (si pensi, ad esempio, al Concerto in re minore con Bernstein sul podio) è anti-drammatica e tesa a scatenare la potenza immaginifica insita negli elementi melodico-armonici del brano, lungi dall’accentuare differenze tra temi e tra mondi, tra notte e giorno, e via di seguito. Un Brahms meno romantico della media, dunque, se si intende il principio del conflitto come l’anima del romanticismo, ma un Brahms tanto più romantico quanto più intendiamo l’anima del romanticismo come fantasia e contemplazione. Ma allora, seguendo questo secondo criterio, anche il Bach di Gould è romantico, e risulta più romantico di Brahms: anzi, il più romantico dei compositori.
Questa operazione gouldiana di parificazione della musica romantica (e di tutta la musica) con la musica barocca porta ad esiti discontinui allorché il pianista canadese affronta il repertorio tedesco classico, in ispecie quando affronta Mozart e Beethoven. A proposito di quest’ultimo abbiamo già notato come il rifiuto del contrasto formale di tipo sonatistico induca Gould a un’esecuzione perennemente contemplativa, il che funziona solo a tratti. Diverso, e a nostro avviso ben più interessante, l’esito dell’approccio interpretativo gouldiano a Brahms, e specialmente, come già accennavamo, a quel capolavoro giovanile di Brahms che è il Concerto in re minore.
Questa diversità di esiti interpretativi (discontinui sia in Beethoven sia in Brahms, ma con un che di struggente in quest’ultimo, che Gould riesce a cogliere più di rado in Beethoven) è dovuta principalmente al fatto che, a livello formale, in Beethoven la composizione vive grazie alla forma sonata, in Brahms nonostante la forma sonata. Sembra un’affermazione schematica eppure essa contiene un fondo di verità. In Brahms la vita formicola al di fuori delle maglie strutturali, balugina in lampi isolati, seppur resi omogenei al tutto dalla maestria tecnica del compositore; ma le ragioni che li reggono e che danno loro vita trascendono gli schemi, sono ragioni di una passionalità giovanile e tracimante. In Beethoven, al contrario, la vita della composizione nasce dall'identificazione con quegli schemi, per questo, come dice Bernstein,16 il fulcro delle sue composizioni è lo sviluppo. In barba alle istanze strutturali che pure lui stesso cercava con ogni impegno di soddisfare, sono i temi femminili (ecco cosa si intende qui per "lampi isolati") di Brahms quelli nei quali il sublime fa irruzione, come si può notare, ad esempio, nelle battute precedenti la coda del quarto movimento del quintetto con pianoforte, quando gli archi intonano un tema di una bellezza struggente come a prendere la rincorsa per le ultime battute, dal ritmo selvaggio. Qui si vede che la bellezza della musica di Brahms non risiede, come per Beethoven, nella costruzione di un impianto sonatistico convincente. L'impianto sonatistico convincente c'è eccome anche in Brahms, ma il bello della sua musica, al contrario che per Beethoven, non è in questo fatto, ma altrove, nei momenti in cui la forma sonata non conta, in cui oltre e al di fuori della struttura emergono dei temi di un lirismo che non si può definire in altro modo che "sublime": sublime inteso quindi, in Brahms, come qualcosa che viaggia, dal punto di vista formale, al di fuori e al di sopra della struttura ed è discontinuo, si pone al di fuori della continuità e assurge all' extratemporale, che è come dire all'eterno.
Ciò è vero anche per il concerto per piano n° 1, in cui Gould (con Bernstein a dirigere l'orchestra) riesce a dare a tutta la parte del pianoforte un'impronta esecutiva "da tema femminile" (anche nei momenti in cui il pianoforte intona i temi maschili), mentre Bernstein, in modo perfettamente simmetrico, fa di tutte le parti dell'orchestra una sorta di gigantesco tema maschile. Viene così evitata quella che Gould stesso chiamava la "doppia dicotomia",17 cioè il raddoppiarsi (dovuto alla doppia esposizione, prima da parte dell'orchestra e poi da parte del pianoforte) della struttura drammatica della forma sonata, basata sul contrasto tra un tema femminile e uno maschile, conflittualità da Gould tanto aborrita. Ma se l'interpretazione gouldiana di questo concerto regge (e regge senz'altro) ciò è dovuto non certo a quello che Gould affermava, cioè aver fatto di questo concerto qualcosa che sta in piedi dal punto di vista architettonico, intendendo con questo l'aver preservato una continuità formale mediante l'eliminazione, o quanto meno l'attenuazione, della conflittualità sonatistica.18 Infatti l'unico effetto in tal senso ottenuto dalla sua interpretazione è il realizzarsi di una dicotomia unica, che in linea di principio potrebbe essere ritenuta altrettanto conflittuale di quella doppia. Invece il fatto che l'interpretazione gouldiana regge è dovuto proprio al contrario, cioè all'aver dilatato infinitamente, facendone un nunc stans al di fuori del tempo, resecato da qualsiasi continuità architettonico-temporale, quegli istanti sublimi, cioè i temi femminili (quelli già femminili di diritto e quelli originariamente maschili, ma resi di fatto femminili dal modo di suonarli di Gould). Gould rompe la forma sonata del concerto, basata sulla doppia dicotomia, facendo di questa doppia dicotomia una dicotomia unica. In questo modo lo spazio del pianoforte è interamente occupato da un'aura femminile-lirica, che risulta sublime proprio perché discontinua rispetto al tutto, dotata cioè di valore autonomo extratemporale, laddove l'orchestra, interamente "maschilizzata", fa solamente da appoggio al lirismo del pianoforte.
Facendo dunque un cenno finale alla concezione interpretativa generale di Gould non si può non rimarcare, come già abbiamo fatto, che gli elementi su cui Gould si basa e che egli sempre ricerca sono l’assenza di contrasto drammatico, la varietà armonica e la complessità contrappuntistica: a quest’ultimo elemento, tra l’altro, è da ricondurre anche la ben nota consuetudine gouldiana di eseguire gli accordi arpeggiati, anziché placcati, proprio per far intuire, in qualsiasi passo di qualsiasi composizione di qualsiasi epoca, le possibilità contrappuntistiche insite nella musica.19
E’ dunque a Bach che dobbiamo guardare come al baricentro dell’arte interpretativa gouldiana, giacché anche in Schoenberg, altro compositore da Gould molto amato, egli ricerca sempre la varietà armonica e il contrappunto, essendo in ultima istanza indifferente all’aspetto atonale e dodecafonico della sua musica. Il motivo dell’amore di Gould per Bach sembra affondare le sue radici in due fattori principali, apparentemente distanti tra loro, ma entrambi innegabili: da un lato c’è la congenialità immediata, data dall’amore per il contrappunto, per le modulazioni ricercate e per una continuità formale priva di fratture. Dall’altro lato c’è anche una congenialità più segreta e sfuggente: l’aspirazione alle celestiali altezze dello spirito, all’universale, all’astrattezza del timbro sonoro come simbolo vivente della purezza del pensiero. Che un aspetto della questione implichi sempre anche l’altro non è certo. Quello che è certo è che in Gould essi coincidono, sicché le caratteristiche formali da lui ricercate (contrappunto, varietà armonica, assenza di contrasti) vanno sempre nella direzione dell’astrazione, della spiritualità e dell’universalità.
Non è certamente un caso che la folgorante carriera pianistica di Gould abbia inizio con la sua incisione del 1956 delle Variazioni Goldberg di Bach. Nel 1982, poco prima di morire, Gould incide nuovamente quest’opera, interpretandola in maniera totalmente diversa. Con entrambe queste incisioni, anche se in direzioni differenti, Gould segna non solo una tappa nella sua evoluzione di pianista, ma anche una tappa nella storia dell’interpretazione. Mentre la prima incisione era rivoluzionaria perché rompeva con uno stile interpretativo tradizionalmente basato su una visione pedantesca della musica di Bach, la seconda incisione è altrettanto rivoluzionaria a motivo dell’astrattezza di pensiero, della vera e propria dimensione metafisica del suono raggiunta da Gould. Nel ‘56 era segno di innovativa effervescenza giovanile suonare Bach con brio quasi scanzonato; nell’’82 il punto di riferimento per tutti era già il Bach di Gould, sicché la lentezza e il rigore dei tempi presi dal pianista canadese vanno interpretati come una nuova, imprevista e imprevedibile rivoluzione. Nella seconda incisione emerge la filosofia di vita di Gould: l’uomo faccia a faccia con una natura immensa, sconfinata e viva, tranquilla, ma viva. Il raggiungimento della pace interiore viene visto da Gould come l’obbiettivo principale della musica, e questo obbiettivo viene reso in quest’incisione nella maniera più convinta e convincente.
Molti piani interpretativi si sovrappongono: il fatto che si tratti di un’opera assai familiare a Gould ne facilita la resa vieppiù informale dei temi e dei passaggi; la scelta della lentezza nei tempi va verso una omogeneità delle variazioni tra di loro, diventa collante della forma; infine la tensione melodica, caratteristica prettamente gouldiana, viene portata allo spasimo fino alle soglie dell’impossibile. Sembrerebbe trattarsi di un’opera diversa da quella suonata nel ‘56, e cioè si ha come la sensazione che quella musica sia cresciuta e maturata con Gould stesso. Sarebbe vano tentare un parallelismo puntuale tra le differenti scelte interpretative delle due edizioni, ma già all’interno dell’esecuzione dell’’82 si può rilevare uno sbalzo piuttosto evidente tra la scelta di tempo nell’enunciazione iniziale e in quella finale del tema: quasi un’ulteriore prova della flessibilità formale che contrassegna la padronanza delle Goldberg da parte di Gould. In chiusura infatti questo tema viene suonato da Gould, più ancora che nell'incipit, in cui fa durare questo brano ben 40 secondi di meno, con la paura di fare male, con il terrore di picchiare. Ne esce qualcosa che si alza verso il cielo e si volta di tanto in tanto a salutare, invece che il tono da camminata caparbia e un po' ostinata dell'inizio. Quaranta secondi, anche se la quantità non conta in fatto di interpretazione, ma solamente la qualità, sono sempre quaranta secondi e le ragioni di un simile divario agogico tra la prima e la seconda enunciazione del tema riflettono la meditazione interpretativa Gouldiana, in grado di far suonare in maniera volta a volta qualitativamente diversa uno stesso brano.
La scelta della lentezza, che pervade tutte le interpretazioni della maturità di Gould, ha spesso sull’ascoltatore un doppio effetto: un effetto di calma, che è l’effetto auspicato da Gould, ma anche un effetto di angoscia, dovuto al fatto che questa dilatazione dei tempi appare a tratti spasmodica. La lentezza dell’ultimo Gould, e nella fattispecie la lentezza della sua ultima versione delle Goldberg, pare motivata e motivabile solo da un immenso dolore trattenuto, mai espresso, ma affiorante a tratti sotto la tensione della linea melodica. Un dolore umano (senz’altro il dolore della solitudine) che cerca disperatamente di stemperarsi in una musica oggettiva e universale.
Se si pensa a questo dolore, ed al fatto che non molto tempo dopo l’incisione Gould morì (anche se non si tratta dell’ultima incisione) viene fatto di pensare che quella “pace autunnale”,20 di cui parlava Gould sul finire della sua carriera, e da lui indicata come una meta da raggiungere, fosse un presagio di morte, indice di una stanchezza di vivere che mascherava sé stessa ammantandosi di saggezza interpretativa. Che la quiete additata da Gould come oasi di contemplazione per l’ascoltatore non sia sempre positiva, è un dubbio che può affiorare anche guardando la vita privata del pianista canadese. La forzata reclusione, il rifiuto della luce del sole, la preclusione di qualsiasi contatto umano sembrano caratteristiche umane imprescindibili da una scelta di base ben precisa, quella dell’eremitaggio, che può forse venire spontanea a chi è a contatto con la sconfinata natura canadese, ma risulta sotto molti aspetti delirante per un ascoltatore che vive in un paese mediterraneo, il cui ritmo biologico è dunque solare, abituato al sovraffollamento e a una certa selvaggia allegria. A tal proposito, se mai si volesse condurre una ricerca sull’indice di gradimento delle incisioni di Gould, non ci sarebbe da stupirsi se esse fossero mediamente più gradite alle popolazioni del Nord che a quelle del Sud, e se le popolazioni mediterranee amassero più le incisioni giovanili (veloci e scanzonate) di quelle della maturità (lente e meditative). Sarebbe forse errato, quindi, parlare di quiete autunnale come presagio di morte, ma si potrebbe comunque affermare che quella quiete autunnale è foriera di angoscia, non solo -come sperava Gould- di tranquillità.
Per concludere, ancora qualche considerazione sulla idea, centrale per Gould, della morte del concerto-esaltazione e dell’avvento dell’era dell’incisione-contemplazione. Appare chiaro che, nonostante le tecniche di registrazione si facciano sempre più raffinate, l’interesse del pubblico verso la musica “seria” sembra aumentare, se è vero che ciò avviene, sulla base di concerti che incentrano l’attenzione dell’ascoltatore sulla figura del virtuoso-personaggio, il quale sempre più spesso scende a compromessi a volte davvero improponibili con la musica “leggera”. Il punto è: se Gould -come sembra- aveva torto nel preconizzare l’era dell’incisione, della musica come fatto intimo, e se invece l’interesse del pubblico viene catturato in modo sempre più esclusivo da manifestazioni dal vivo in cui non vale più nemmeno il paragone agonistico (del genere “riuscirà questa sera al tenore il do di petto?”), bisognerebbe forse preoccuparsi per una reale, tangibile diminuzione dell’interesse verso la musica, che va di pari in passo con l’aumentato interesse verso il virtuoso-showmen, amato anche oltre l’errore, oltre la stecca. Se non vale nemmeno più la legge ferrea dell’arena, se il virtuoso che stecca, invece che essere matato dal pubblico sadico -come rilevava Gould- viene bonariamente perdonato per il solo fatto (e fin tanto che) accetta di esibirsi nell’arena, siamo davvero scesi a un confine inaudito di volgarità che decreta la fine dell’interesse per la musica.


Roberto Barreca.
Bibliografia essenziale

Bernstein, Leonard, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York).

Gould, Glenn, “The Prospects of Recording”, in High Fidelity, Great Barrington, The Billboard Publishing Co., April 1966.

Gould, Glenn, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984).

Gould, Glenn, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard).

Gould, Glenn, Lettere, Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected Letters, 1992, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd).

Matheopoulos, Helena, Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra, Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena Matheopoulos, 1982).

Rattalino, Piero, Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti, Firenze, 1983.

Zurletti, Michelangelo, La direzione d’orchestra. Grandi direttori di ieri e di oggi, G. Ricordi & C. - Giunti Martello, 1985.























3) FILOSOFIA APPLICATA ALLA PSICOANALISI

Note gnoseologiche sull’inconscio e sullo statuto epistemologico psicoanalitico


INDICE
1) Presentazione di due crucci
2) Premessa logica
3) Gnoseologia bioniana: tra Kant e Popper
4) Possibili soluzioni al paradosso
5) Uno strano contesto sperimentale
6) Oltre Gadamer
7) L’inconscio come insieme finito


Note gnoseologiche sull’inconscio e sullo statuto epistemologico psicoanalitico


1) Presentazione di due crucci

Negli studi da me compiuti di Filosofia, Psicologia e Psicoanalisi, ho ravvisato il raggiungimento di elevati vertici teoretici ed intricate spiegazioni della realtà. Il mio rammarico è sempre stato quello di non poter far parlare tra loro tali linee di pensiero, assumendo un vertice unico, perché i cultori delle diverse discipline in genere ignorano tale possibilità. E’ possibile confrontare la teoresi di un filosofo e quella di uno psicoanalista? Molti sono convinti di no, eppure per molta parte, essi sembrano indagare aree simili, come ad esempio quali siano le condizioni e le modalità dell’apprendere, che cosa sia il pensiero, cosa la realtà, ecc21
L’altro cruccio consiste nel complesso d’inferiorità che ho a volte ravvisato in più di un collega psicoanalista, a fronte delle presunte certezze degli altri orientamenti teorico-clinici e a fronte delle presunte inconfutabili obiezioni all’esistenza dell’inconscio, ancora e sempre motivo di perplessità, pregiudizi, svalutazioni ingiustificate e frutto d’ignoranza, prima ancora che di dibatti teoretici.
Il presente contributo mira a scalzare entrambi questi impedimenti e mira ad una più piena integrazione della psicoanalisi nel dibattito scientifico contemporaneo. Se avrò data, a fine lettura, l’impressione di una prospettiva smitizzante e quasi riduttivistica dell’inconscio, a fronte delle pretese assolutizzanti che molti Autori ritengono indispensabili, ciò sarà forse dovuto ad una prospettiva duplice quanto a vertice osservativo (psicoanalitico e filosofico insieme, come sopra ricordato), ma certo non immemore del principale insegnamento storico filosofico, non relativizzante, ma bensì deassolutizzante e fondamentalmente democratico, in base al quale è bene far dire a ciascuno ciò che ha da dire, senza però prendere per buono ciò che dice, ma confrontandolo con le ragioni degli altri Autori e delle altre correnti di pensiero.

2) Premessa logica

Nel presente scritto vi è qualcosa di significativo nell’assumere quale vertice osservativo, oltre a quello psicoanalitico, anche quello filosofico. Nel presente scritto vi è qualche cosa di non significativo nell’assumere quale vertice osservativo, oltre a quello psicoanalitico, anche quello filosofico.
Quanto espresso nelle due proposizioni precedenti non è un refuso e non è un paradosso. Secondo quanto ci insegna la logica aristotelica, infatti, le due proposizioni che aprono il presente lavoro non sono:
a) contraddittorie, tali per cui esse non possano essere entrambe vere, né entrambe false;
b) contrarie, tali per cui esse non possano essere entrambe vere e possano invece essere entrambe false.
c) subalterne, tali per cui possano essere entrambe false ed entrambe vere;

Esse sono invece subcontrarie: non possono essere entrambe false, ma possono essere entrambe vere.
Il riferimento alla logica aristotelica è l’Organon22, anche se quello citato in premessa è il cosiddetto “quadrato logico delle opposizioni”, tratto dai principii logici fissati da Aristotele, ma di elaborazione medioevale:

Tale doppio vertice osservativo, cioè, filosofico e psicoanalitico insieme, potrà avere in sé qualcosa di significativo e qualcosa di non significativo, o qualcosa di significativo e nulla di non significativo, o qualcosa di non significativo e nulla di significativo, ma non potrà non avere né qualcosa di significativo, né qualcosa di non significativo.
Anche se avesse soltanto qualcosa di non significativo e nulla di significativo, esso non sarebbe indifferente: è qualcosa di diverso dall’approccio psicoanalitico puro e da quello filosofico puro. Il tentativo di uno sguardo sinottico, sarebbe di per sé apprezzabile.
Se i due vertici osservativi, risultassero incommensurabili, infatti, a risentirne sarebbe, prima ancora della significatività del presente scritto, la significatività delle due discipline, perché il fatto che il sapere si sia, nei secoli, specializzato non dovrebbe impedire la sua riunificazione logica, a nostro avviso.
Se così fosse, infatti, significherebbe che tale specializzazione sarebbe nel tempo divenuta una parzializzazione scotomizzante. Se i saperi specialistici fossero imparagonabili fra di loro, secondo noi avremmo perso qualcosa. La nostra visione del mondo sarebbe parziale, sempre secondo noi e una somma di parziali visioni non commensurabili tra loro non costituirebbe una visione intera.
Il tema dell’incommensurabilità è presente in Feyerabend23 che giunge a conclusioni opposte, favorevoli a tale concetto a scapito della riunificazione logica. Ci pare però questa, a suo modo, una posizione metafisica, dato che quella della riunificazione logica interdisciplinare non è una pretesa assolutizzante, ma la rivendicazione del diritto di provare a riunificare, prima di dichiarare incompatibili due vertici osservativi.
Il tema d’incrocio, che permette l’azione combinata ed il raffronto dei due vertici osservativi sopraddetti, filosofico e psicoanalitico, è la gnoseologia.
La gnoseologia si occupa delle condizioni di possibilità della conoscenza, cioè del cosa e del come si può conoscere. A fatica può definirsi una disciplina a sé stante e meno che mai può essere considerata una disciplina distaccata dalle altre, proprio perché è parte di una riflessione teoretica generale che precede e riguarda tutte le altre. E’ in realtà un’interrogazione fondamentale, in ciò affine all’ontologia, che invece si interroga su che cos’è l’essere.
La gnoseologia può essere considerata una disciplina che fa – con le dovute distinzioni – da premessa sia alla disciplina filosofica, sia alla disciplina psicoanalitica. Il presente articolo tratta quindi un tema di confine e di confronto, che può essere – fatte sempre le dovute precisazioni e distinzioni – di arricchimento sia per la riflessione teoretica filosofica, sia per quella teoretico-clinica psicoanalitica. Sulla differente valenza delle riflessioni teoretiche per la filosofia da un lato e per la psicoanalisi dall’altro, valga invece quanto afferma Bion in apertura della sua “Teoria del pensiero”24.

3) Gnoseologia bioniana: tra Kant e Popper

Premetto che quanto segue non costituisce minimamente un tentativo di fornire alcun apporto all’esegesi teoretica bioniana che, grazie alla ricchezza e complessità dell’Autore, ha numerosi cultori. Quanto segue costituisce invece un tentativo d’inquadrare alcuni aspetti, a nostro avviso fondamentali, della riflessione di Bion in un flusso di riflessioni altrettanto fondamentali che hanno interessato la storia della teoresi filosofica di tipo gnoseologico. Ciò potrebbe portare a confutare, o viceversa a rafforzare, alcune delle posizioni teoretiche forti di Bion in particolare e della psicoanalisi in generale.
Rinsaldare le proprie basi teoretiche fa bene ad ogni disciplina, a nostro avviso, e ciò può essere fatto soltanto o prevalentemente mediante il confronto forte e diretto con i nuclei teorici delle discipline che si sono confrontate anch’esse con la gnoseologia, come la filosofia in generale e la filosofia della scienza in particolare.

Bion richiama Kant con la sua teorizzazione dell'esistenza della "cosa in sé" (o "noumeno", in Kant). Essa è inconoscibile. Essa è la realtà. Essa è la verità assoluta25. Tale concetto, però, distingueva - proprio in Kant - il terreno della scienza da quello della metafisica. La scienza dell'assoluto perdeva definitivamente, proprio grazie alla teoresi kantiana, lo statuto di scienza, e diveniva non scienza, in quanto Kant chiarisce in modo definitivo che non si può fare scienza della cosa in sé, ma solo dei fenomeni. La presunta scienza della cosa in sé è invece, secondo Kant, la metafisica e in quanto tale essa non è una scienza.
Bion, con apparente paradosso, riprende il concetto di cosa in sé kantiana proprio per sostenere che è possibile una scienza della cosa in sé, e candidando a scienza della cosa in sé la psicoanalisi. Per Kant invece si può avere scienza e conoscenza solo del fenomeno, di ciò che appare, e non della realtà. Quindi sembrerebbe che Bion stia riprendendo un'argomentazione kantiana per rovesciarne il significato, collegando l'oggetto della psicoanalisi come scienza proprio alla possibilità di conoscere quella cosa in sé che Kant aveva escluso potesse essere oggetto di scienza, definendola oggetto della sola metafisica.
Bion conosceva molto bene il concetto di cosa in sé kantiano e le sue implicazioni gnoseologiche, come testimonia in Apprendere dall’esperienza26, ma non concordiamo con l’opinione di alcuni autorevoli Autori, come per esempio Nino Dazzi27, i quali a nostro avviso eludono il problema posto da Bion. Dazzi sostiene un inevitabile scarto teoretico tra le teorie di Bion e gli stessi suoi concetti così come sono stati trattati nel corso della storia della filosofia da Kant in poi, sostenendo un Bion mistico che nulla aggiunge, a parere nostro, a ciò che di Bion è già stato notato – a torto o a ragione – da molti altri Autori.
All’apparente paradosso gnoseologico bioniano si aggiunge anche quanto indicato da Popper28 come discrimine tra scienza e non scienza. Secondo Popper, scienza è solo quella sperimentale in quanto l'esperimento indica la possibilità di falsificare, non già di verificare ad aeternum, un sistema di ipotesi. Il poter mettere alla prova una teoria, una tesi, un'opinione scientifica è legato, secondo Popper e dopo di lui secondo Kuhn29 e Lakatos30, e con discorso a parte per Feyerabend31, alla possibilità di falsificare quella teoria, non di verificarla.
Kuhn ritiene che le teorie non nascano da una presunta osservazione empirica ingenua, ma costituiscano un insieme di costrutti intrecciati tra loro, costituenti un paradigma. Ogni teoria scientifica passa per varie fasi, rappresentate dall’evoluzione del suo paradigma che, da stabile, si fa precario con il verificarsi di eccezioni, fino al punto in cui esso è soggetto ad una rivoluzione e all’avvento di una nuova teoria, con un nuovo paradigma, in grado di spiegare anche le eccezioni che la teoria precedente non spiegava.
Lakatos sostiene che le teorie scientifiche prevedono l’adozione di teorie ausiliare (la cosiddetta “cintura protettiva”) a difesa della teoria principale (“nocciolo duro”), quando emergono fatti in contrasto con le teorie stesse, in modo tale che la teoria principale non viene messa in crisi immediatamente da cambiamenti rivoluzionari di paradigma.
Feyerabend sostiene che il cambio di paradigma da una teoria scientifica ad un'altra non dovrebbe essere legato ad alcuna forma di coerenza e che il nuovo paradigma scientifico non dovrebbe essere obbligato, per essere ritenuto valido, a spiegare tutti i fatti spiegati dai paradigmi precedenti (più le eccezioni), come invece sostenevano, ognuno a suo modo, Popper, Kuhn e Lakatos.
In virtù del suo principio falsificazionista, Popper accomuna nella categoria della non-scienza la metafisica, la psicoanalisi e il marxismo, in quanto si tratta di sistemi teoretici che - tutti - possono trovare presunte conferme ad infinitum, ma non sono mai passibili di essere falsificati. Ciò li rende non scientifici. Il paradigma scelto da Popper per definire una scienza è quello galileiano della scienza fisica, dunque, ossia la scienza sperimentale. Al riguardo, però, Bion ci avverte che tale scienza è scienza delle cose inanimate, morte32, e in quanto tale essa pone l'uomo che conosce sullo stesso piano dello psicotico che vede e indaga la realtà come cosa inanimata e morta. Sembrerebbe quindi che, secondo Bion, se la psicoanalisi soggiacesse a tale principio della scienza fisica sperimentale, semplicemente essa non potrebbe esistere come disciplina, in quanto indaga cose vive, come le emozioni e i vissuti consci ed inconsci delle persone.
Ora, come si risolve tale apparente paradosso bioniano, che consiste nella pretesa di fare scienza su di un nucleo, quello dell'inconscio, o della realtà clinica, o della cosa in sé, che sembra ed è di per sé metafisico, quindi non passibile di indagine scientifica?
Già Freud, nel “Progetto di una psicologia”33, teorizzava l’esistenza di rappresentazioni senza soggetto, nel descrivere la coscienza in termini di neuroni ω, che possono o meno prendere parte ai processi psichici, e s’imbatteva quindi già da subito nel problema metafisico della presupposizione di un processo di pensiero di cui non c’è necessariamente consapevolezza, ma che supponiamo esista come forma di pensiero anche quando tale consapevolezza manca. Tutto ciò, ancora prima delle sue teorizzazioni fondamentali sull’inconscio.
Innanzitutto, però, dobbiamo citare il fatto che tutti i riferimenti e le ricerche di senso di tipo gnoseologico di Bion fanno riferimento alla realtà clinica, quindi partono da quella che possiamo definire un'"appercezione"34 di O: intendiamo qui il termine appercezione nell’accezione filosofica inaugurata da Leibniz, come percezione di percepire. E’ una consapevolezza, quella bioniana, dell’esistenza di quel nucleo che costituisce la realtà clinica ed emotiva del paziente, la verità o l’insieme di verità intime, ed è una fiducia nella possibilità di entrare in consonanza con essa.
Non sarebbe altrimenti possibile comprendere nemmeno il filo del discorso bioniano. Detto ciò, va accettato che il problema per la psicoanalisi in generale, da Freud in poi, e non solo per le asserzioni che su di essa enuncia Bion (ma egli, più di tutti gli altri Autori, insiste nel sostenere il paragone tra la scienza e la disciplina che si occupa dell’inconscio), il problema del "nucleo metafisico" dato dal presupporre l’esistenza dell'inconscio permane. Il problema è - com'è noto - se a fronte di ciò si possa parlare di scienza psicoanalitica e sopratutto con quale modalità e statuto epistemologico, oltre che ontologico.

4) Possibili soluzioni al paradosso

A tal proposito, Bion dà una risposta implicita proprio alle obiezioni mosse da Popper alla psicoanalisi, rifacendosi al metodo fenomenologico (analisi del vissuto come analisi del fenomeno interno, potremmo dire) inaugurato da Kant e che in filosofia è stato sviluppato da Husserl e da Heidegger. Tale passaggio, cruciale e delicato, se convincente, ci permetterebbe di sfatare il mito della psicoanalisi come disciplina dell'eterna verificazione e dell'impossibile falsificazione, quindi per Popper espulsa dal novero delle scienze.
Se l'analisi bioniana del vissuto è paragonabile all'analisi kantiana del fenomeno, allora è possibile definire la psicoanalisi - kantianamente parlando - una scienza. Ma allora è possibile definirla tale anche in senso popperiano. Ciò perché l'analisi del vissuto ci permette non solo di verificare, ma anche di falsificare (se il nostro vissuto la disconferma) un'ipotesi diagnostica e/o interpretativa nell'hic et nunc della seduta. Se tale ipotesi epistemologica e metodologica ha un senso, possiamo dire che Bion ha restituito alla psicoanalisi lo statuto ontologico ed epistemologico di scienza, perlomeno secondo i parametri - in verità assai rilevanti per tutto il pensiero gnoseologico ed epistemologico anche contemporaneo - dettati da Kant.
Se è vera tale riflessione, abbiamo ottenuto che Bion aiuta a sfatare il mito della psicoanalisi come non scienza. Se accettiamo l'analogia tra metodo fenomenologico (Husserl, Heidegger) inaugurato da Kant (concentrarsi sul fenomeno, possibilità di studiare e conoscere ciò che appare) e vissuto del terapeuta, abbiamo superato un primo ostacolo all'equiparazione tra psicoanalisi e paradigma scientifico. Se riuscissimo anche a superare l'obiezione della non falsificabilità che costituisce la critica alla psicoanalisi da parte di Popper, avremmo ottenuto un ulteriore punto a favore dell'ipotesi della psicoanalisi come scienza. In realtà, possiamo sfatare anche il mito della non falsificabilità, dal momento che, se un'interpretazione viene sconfessata dal vissuto, essa può essere scartata.

5) Uno strano contesto sperimentale

In un ipotetico, immaginario contesto psicoanalitico e sperimentale insieme, poiché le moderne tecniche di neuroimaging35 comprovano quali aree cerebrali si attivano a fronte delle emozioni, se il vissuto del terapeuta non risultasse compatibile con le emozioni che si attivano durante l'analisi nel paziente, attestate dall'attivarsi visibile delle aree cerebrali, tale vissuto del terapeuta e/o l’interpretazione ad esso collegata sarebbero falsificati popperianamente. Potremmo affermare, in tal caso, di trovarci di fronte a una proiezione del terapeuta. Così, c'è una doppia falsificabilità dell'interpretazione: la teoria ha la prima controprova nel vissuto del terapeuta e il vissuto del terapeuta può essere confrontato – in un ipotetico contesto sperimentale – anche con la realtà emozionale del paziente. E avremmo – in tal caso - anche salvato il paradigma sperimentale, sfatandone l’incompatibilità con la psicoanalisi. Il metodo dell'analisi del proprio vissuto presuppone il collegamento di tale vissuto con la cosa in sé che è costituita dal vissuto e dall'inconscio del paziente. Tale è stato lo scandalo bioniano rispetto alla teoria intrapsichica freudiana e kleiniana, scandalo che ha aperto la strada alla psicoanalisi intersoggettiva.
Il paragrafo precedente sarebbe inaccettabile, certtamente, in una prospettiva bioniana “pura”. Valga per tutti, il riferimento bioniano alla fotografia della fontana della verità, in Apprendere dall’esperienza36. Certo è che da tale punto di vista le tecniche di neuroimaging sembrerebbero un tradimento inemendabile del metodo psicoanalitico in generale e bioniano in particolare, il cui presupposto cardine sembra quello in base al quale ciò che accade nell’hic et nunc della seduta, se osservato dall’esterno, tanto peggio in un contesto dichiaratamente sperimentale, sarebbe tradito e falsato, e non avrebbe alcun valore. In ciò, la posizione di Bion37 è collegata alle scienze contemporanee che, a partire dal principio d’indeterminazione di Heisenberg, hanno scoperto che un fenomeno osservato è un fenomeno modificato, per cui non c’è mai in realtà osservazione pura, ma sempre relazione osservante-osservato. Anche tale constatazione, quindi, collega la psicoanalisi, in primis la prospettiva bioniana, alla scienza contemporanea, in quanto il rapporto soggetto-oggetto inteso all’antica maniera come causa-effetto, conoscente-conosciuto, terapeuta-paziente, viene sostituito dal concetto di correlazione.
Il nostro paragrafo vale quindi, se vale, a dimostrare che non esiste affatto una presunta infalsificabilità della psicoanalisi, né a livello teoretico, né a livello clinico. E ciò vale, se vale, a confutare il principale pregiudizio sulla psicoanalisi come non scienza.

6) Oltre Gadamer

Un altro modo per ottenere lo statuto scientifico a beneficio della psicoanalisi sarebbe l’adesione all’ermeneutica di Gadamer38: così si vedrebbe la psicoanalisi come una disciplina dell'interpretazione, come un testo letterario che deve essere coerente e che ha come unico obbligo imprescindibile, per essere considerata disciplina scientifica, la coerenza interna delle interpretazioni, o del “testo” della seduta. Ma in tal caso, cioè nella scelta dello statuto dell’ermeneutica gadameriana per la psicoanalisi, si salverebbe solo la coerenza della teoria e dell’interpretazione clinica, senza confrontarla con il vissuto. Si perderebbe la falsificabilità popperiana: perciò il metodo del confronto tra ipotesi interpretativa ed analisi del proprio vissuto è da ritenersi superiore all'ermeneutica gadameriana39.

7) L’inconscio come insieme finito

Ma possiamo spingerci oltre, nell'eliminare l’alone metafisico che nuoce alla psicoanalisi come scienza. Noi abbiamo - è vero - dovuto ammettere la cosa in sé bioniana, perché nell'intersoggettivismo che essa implica vi è la radice della falsificabilità delle interpretazioni (mediante il confronto tra l'ipotesi interpretativa e il nostro vissuto di terapeuti che si presume corrisponda alla cosa in sé, ossia alla realtà clinica del paziente), ma nulla ci obbliga - anzi, ciò nuocerebbe alla psicoanalisi - a considerare la cosa in sé, o l'inconscio in generale, come infinito.
Considerare, come fa Matte Blanco40, la cosa in sé, l'inconscio, come infinito, fa ripiombare la psicoanalisi nella metafisica, postulando l'obbligo dell'esistenza di qualcosa di indimostrabile ed inconcepibile per la mente umana.
Esiste, beninteso, il pericolo opposto: assolutizzare l’inconscio, fare una metafisica dell’inconscio, ha come contraltare storico-filosofico il mettere in atto una metafisica della coscienza. Tale è il caso, per esempio, dei cosiddetti filosofi spiritualisti. Valga per tutti l’esempio del più completo e meno pedissequamente spiritualista tra essi: Henri Bergson. Egli, già in Matière et mémorie41, sostiene l’incorruttibilità dei ricordi e quindi della coscienza anche a fronte di lesioni organiche cerebrali, costituendo, con tale posizione, una metafisica della coscienza stessa, almeno secondo il parere complessivo di autori come Mathieu42.
Peraltro, lo stesso Mathieu omette di ricordare che Bergson ci parla, in modo affine a Proust, anche di ricordi involontari. Se il suo sistema filosofico costituisse una mera metafisica della coscienza, dovremmo presupporre che Bergson considerasse la possibilità di una coscienza involontaria, concetto alquanto contraddittorio per chi si prefiggesse come obiettivo la messa in atto di una metafisica della coscienza. Tra l’altro, il concetto di ricordo involontario presenta forse qualche assonanza con la teorizzazione bioniana dei pensieri senza pensatore.
E’ difficile spiegare qui per quale motivo tali posizioni (ricordi involontari e pensieri senza pensatore), che potrebbero a tutta prima sembrare ancora più metafisiche della presupposizione dell’inconscio, oggetto del presente lavoro, sollevino a parer nostro minori problemi teoretici. Forse perché il sopravvenire di un pensiero o di un ricordo, come se provenisse da un’altra parte, da fuori o dall’alto, è un’esperienza nota che non desta altrettanto scandalo nel pensiero comune e nella scienza rispetto alla presupposizione di un’entità altra rispetto alla coscienza. Cioè, mentre i ricordi, volontari o no, o i pensieri, con o senza pensatore, sono entità note, l’inconscio non è altrettanto condiviso da tutti come esperienza diretta, ma pare un’elaborazione concettuale secondaria ed un’entità aggiuntiva rispetto al bagaglio esperienziale, proprio per le sue caratteristiche di non immediata percepibilità di cui ci parla Bion a proposito della necessaria messa tra parentesi della sensorialità per entrare in contatto con la cosa in sé43.
Tornando all’obiezione alla concezione dell’inconscio inteso come infinito, poiché l'inconscio è parte dell'uomo e l'infinito è una caratteristica di Dio, se l'inconscio fosse concepito come infinito, paradossalmente l'uomo sarebbe assimilato a Dio. Forse però la psicoanalisi non ha bisogno di negare il limite e la finitudine, in modo schizoparanoide44. Inoltre, ciò significherebbe postulare qualcosa di solo definitorio e nominale - come l'infinito - ma di inconcepibile e non vivibile, violando il principio scientifico psicoanalitico che ci impone di confrontare le ipotesi interpretative con il nostro vissuto che, nel caso del vissuto dell'infinito, non esiste come tale o quantomeno è discutibile (la comunione con O non sembra comportare, infatti, necessariamente la sua definizione in termini infiniti).
Si pensi poi al riflesso clinico di tale pretesa all'inconscio inteso come infinito, nei pazienti paranoici, per esempio, o - al contrario - nei malati terminali morenti, in psicooncologia. La convinzione conscia, inconscia o preconscia del terapeuta dell'infinitudine dell'inconscio potrebbe indurre l’acuirsi della paranoia nei primi e della depressione nei secondi.
Se noi – al contrario - postulassimo una coscienza finita e un inconscio anch’esso finito, non perderemmo nulla della teoresi psicoanalitica, e ci avvicineremmo alla psicoanalisi come scienza del limite45.
Il limite – tra l’altro - è già presente, dacché Freud postulò che l'uomo razionale non è padrone in casa propria, essendo sottoposto a spinte pulsionali inconsce. Se noi in aggiunta a ciò, postulassimo arbitrariamente anche che l'inconscio è infinito, ci troveremmo di fronte al paradosso dell'uomo finito che è schiavo di forze interne infinite. Ciò costituirebbe qualcosa di più, forse, di una posizione metafisica: si tratterebbe di una sorta di precetto religioso.
Tale petitio principii – costituita dalla pretesa infinitudine dell’inconscio – spiegherebbe molto bene, tra l’altro, anche il nocciolo duro di diffidenza verso la psicoanalisi che ha l'uomo della strada, il cui senso comune gli impedisce di fidarsi di una disciplina che pretenderebbe di ridurre l'istinto religioso a meccanismo di difesa sublimatorio, imponendogli però contemporaneamente di credere altrettanto ciecamente che la forza, più o meno oscura, delle pulsioni inconsce da analizzare, sia invece infinita: un ben strano paradosso.
Del resto, Kant stesso, nella Critica del giudizio, definiva il sublime come un sentimento derivante dall’incommensurabilità del fenomeno, che ci fa pensare, ma solo pensare e mai poter provare, l’essenza infinita dell’inconoscibile cosa in sé46. Da tale prospettiva, credere erroneamente che l’inconscio sia infinito potrebbe essere anche descritto in termini schopenhaueriani, come velo di Maya47, laddove al contrario la cosa in sé in termini kantiani, o la volontà in termini schopenhaueriani o l’inconscio in termini psicoanalitici, proprio perché inconoscibili, non sono né infiniti, né finiti di per sé, ma possono essere ritenuti finiti, se confrontiamo, come si notava sopra, l’ipotesi dell’infinitudine con il nostro vissuto che, se analizzato, ci parla sempre di qualcosa di finito.
Possibile obiezione a quanto sopra sarebbe costituita dall’argomentazione in base alla quale noi possiamo in effetti avere un vissuto di infinitudine, quando siamo di fronte al sublime, oppure in uno stato che definiremmo alterato dal punto di vista della ragione. Ma anche allora non ci sarebbe corrispondenza tra vissuto e teoria, e quindi scarteremmo l’ipotesi dell’infinitudine secondo il criterio della falsificabilità popperiana, perché in tali stati in cui ci sembra di avere un vissuto dell’infinito, è k, la ragione ad essere assente o dormiente, non corrispondente, quindi, a tale pretesa infinitudine, non coerente, cioè, con quel vissuto di infinitudine.
Tale situazione di incoerenza tra ragione e vissuto che si verifica quando definiamo infinito l’inconscio ricorda il noto metodo descritto nell’antichità per prendere le decisioni. Lo storico greco antico Erodoto48 riferisce come uso dei Persiani il fatto che le decisioni venivano da loro prese prima da sobri e poi da ubriachi e solo se la scelta coincideva, la decisione veniva presa. Nel caso dell’inconscio visto come infinito, da sobri la ragione può ammetterlo, ma il vissuto no. In stato mentale di alterazione, invece, il vissuto può ammetterlo, ma la ragione no. Ecco perché, seguendo il metodo descritto da Erodoto, non conviene ritenere l’inconscio infinito.
Sembrerebbe, ad alcuni, tale vissuto di infinitudine, ciò a cui ci porta la teoria stessa di Bion, dal momento che da k ci si auspica di passare alla comunione con O. Ma non solo non è necessario concepire O come infinito, ma neppure lo è prescrivere l’abbandono di K. Se lasciassimo per sempre K per O, infatti, evidentemente non potremmo fare alcuna terapia, né avere alcuna teoria, non faremmo quindi né clinica, né scienza. Il confronto tra il vissuto e K, ossia tra il vissuto emotivo e l’interpretazione razionale, è invece sempre necessario, ed anzi la comunione con O è interpretabile nel modo migliore proprio come la coincidenza del vissuto con l’interpretazione stessa. E’ tale coincidenza, anzi, ciò che determina il fatto scelto, l’intuizione, il vedere dentro e il conseguente capire che tutto torna: l’interpretazione coincide con il vissuto nell’hic et nunc.


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1 V. la “Premessa”, scritta da Monsaingeon, alla raccolta di interviste di Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), pp. 1-5.
2 L’avversione di Gould nei confronti di ogni forma di edonismo ha senz’altro connotazioni morali: “...un termine che nel mio vocabolario rappresenta il massimo dello spregiativo -...edonista”. (Gould, op. cit., p. 138).
3 V. p. es. ciò che Gould afferma a proposito di un direttore che la critica generalmente ritiene importante, ma certamente “minore” rispetto a Bernstein, George Szell: “Inizialmente Szell voleva registrare per la Epic perché, in un colpo solo, gli era possibile registrare, ad esempio, le nove Sinfonie di Beethoven, o un repertorio simile, che sarebbe stato in diretta competizione con quello che Bernstein e Ormandy volevano fare in quello stesso momento. Ora, nonostante Szell fosse un direttore d’orchestra ben più grande di quelli...i suoi dischi non si vendevano.” (Gould, op. cit., p. 130).
4 Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, cit., p. 144.
5 Ibidem.
6 Leonard Bernstein, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York), p. 133. V. anche Helena Matheopoulos, Maestro. Incontri con i grandi direttori d’orchestra, Garzanti Editore S.p.a., 1983, (tit.orig. Maestro, Helena Matheopoulos, 1982) dove Bernstein afferma che “dirigere... E’ un grande atto d’amore” (p. 27). Si noti che anche per Gould l’esecuzione musicale “è...una storia d’amore” (Gould, op. cit., p. 55), ma mentre per Bernstein la corrente amorosa unisce esecutore e pubblico, per Gould unisce esecutore e musica eseguita. In ciò sta la differenza nodale tra musica intesa come esaltazione e musica intesa come contemplazione.
7 Bernstein, op. cit., p. 132.
8 V. p. es. Glenn Gould, Lettere, Milano, Rosellina Archinto, 1993 (tit. orig.: Selected Letters, 1992, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Ltd), pp. 30-33.
9 V. p. es. Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), pp. 27, 30 e 84.
10 Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 55.
11 Gould, op. cit., p. 150.
12 Il ragionamento sul ruolo dell’artista nella società e sulla mentalità puritana dell’Ontario anni ‘40 è dello stesso Gould (Gould, op. cit., p. 121).
13 Sul ruolo del tempo nel processo interpretativo v. Gould, op. cit., p. 153.
14 V. Glenn Gould, “The Prospects of Recording”, in High Fidelity, Great Barrington, The Billboard Publishing Co., April 1966, pp. 54-56, dove Gould critica i criteri di valutazione estetica improntati allo storicismo, giudicandoli ironicamente come espressione della “sindrome di Van Meegeren”.
15 V. p. es. Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 63.
16 V. p. es. Bernstein, La gioia della musica, Milano, Longanesi, 1982 (tit. orig.: The Joy of Music, 1959, Simon & Schuster, New York), pp. 65-82, dove viene riprodotto il testo di una trasmissione televisiva del 14/11/1954. Brani di questa trasmissione si ritrovano anche all’interno della puntata del ciclo televisivo Bernstein dirige Beethoven dedicata alla Quinta sinfonia.
17 Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Milano, Adelphi, 1988 (tit. orig. The Glenn Gould Reader, Estate of Glenn Gould and Glenn Gould Limited, 1984), p. 84.
18 V. Gould, L’ala del turbine intelligente, cit., pp. 131-135, dove l’Autore espone le motivazioni delle sue scelte interpretative per questo concerto.
19 V. Gould, op. cit., p. 76 sgg.
20 Gould, No, non sono un eccentrico, Torino, E.D.T., 1989 (titolo originale: Non, je ne suis pas du tout un excentrique, 1986, Librairie Arthème Fayard), p. 157.
21 Esistono, è vero, studi di autorevoli Autori in tale direzione, come, p.es., di Conrotto Francesco, Per una teoria psicoanalitica della conoscenza, Milano, Franco Angeli, Editore, 2010, ma in prospettiva più nettamente psicoanalitica rispetto all’approccio interdisciplinare indicato nel presente lavoro..
22 Aristotele, Organon, a cura di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 2003.
23 V. rif. in nota n. 11, infra.
24 V. Bion, Wilfred R., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Roma, Armando, 2009, tit. orig.: Second Thoughts (Select Papers of Psychoanalysis), Londra, Heinemann, 1967, pp. 169-170.
25 Bion, Wilfred R., Attenzione e interpretazione, Roma, Armando, 2002, tit. orig.: Attention and Interpretation. A Scientific Approach to Insight in Psycho-Analysis and Groups, Tavistock Pubblication, Londra, 1970, pp. 39-44. In Apprendere dall’esperienza, (Roma, Armando, 2009, tit. orig. Learning from Experience, William Heinemann, Medical Books, Ldt., London, 1962, p. 27), l’analogia è fra cosa in sé ed elementi beta.
26 Bion, Wilfred, Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando, 2009, tit. orig. Learning from Experience, William Heinemann, Medical Books, Ldt., London, 1962, p. 27, nota.
27 In: Neri, Claudio; Correale, Antonello; Fadda, Paola, Letture bioniane, Roma, Edizioni Borla, 1994, pp. 406 sgg.
28 Popper, Karl, Logik der Forschung, Akademie Verlag, I ed. 1934.
29 Kuhn, Thomas, The structure of scientific revolutions (3rd ed.). Kuhn, Thomas S. Chicago, IL, US: University of Chicago Press. (1996). xiv 212 pp. (I ed. 1962).
30 Lakatos, Imre, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Il Saggiatore, 2001, tit. orig. The Methodology of Scientific Research Programmes, Edited by John Warral and Gregory Currie, Philosophical Papers, Vol. I, 1978.
31 Feyerabend, Paul, Against Method: Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge (1975), traduzione italiana Contro il metodo: Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano.
32 Bion, Wilfred R., Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando, 2009, tit. orig. Learning from Experience, William Heinemann, Medical Books, Ldt., London, 1962, p. 36.
33 Freud, Sigmund, “Progetto di una psicologia”, 1895, (in Freud, Sigmund, Opere, 2, Progetto di una psicologia e altri scritti 1892-1899, Torino, Bollati Boringhieri editore, 1989. Ediz. Orig.: Sigmund Freud Gesammelte Werke, 18 voll., S. Fischer Verlag GmbH – Frankfurt am Main, p. 216).
34. Cfr. G. W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, UTET, Torino, 1967.
35 V, p.es., Gallese, Vittorio, “Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività”, in Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208. Esperimenti sull’efficacia della psicoterapia mediante l’analisi delle aree cerebrali interessate sono stati già effettuati con riscontri positivi, sia pure nell’ambito della psicoterapia ad indirizzo cognitivo.
36 Bion, Wilfred, Apprendere dall’esperienza, (Roma, Armando, 2009, tit. orig. Learning from Experience, William Heinemann, Medical Books, Ldt., London, 1962, p. 15).
37 Bion, Wilfred R, Gli elementi della psicoanalisi, Roma, Armando, 1979, tit. orig. Elements of Psychoanalysis, 1963.
38 Abbagnano, Nicola; Fornero, Giovanni, “L’ermeneutica: Gadamer”, in Filosofi e filosofie nella storia. Volume terzo, Torino, G. B. Paravia & C. S.p.A., 1986. Cfr. Gadamer, Hans-Georg, Wahrheit und Methode, 1960, Tübingen.
39 Sull’applicazione dell’ermeneutica alla psicoanalisi, e suoi limiti, v. anche La ricerca in psicoanalisi, di Horst Kachele, Helmut Thoma, Urbino, 2003, pp. 33-47.
40 Matte Blanco, Ignacio, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Torino, Giulio Einaudi editore, 1981, tit. orig.: The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, Gerald Duckworth & Company Ltd, London, 1975.
41 Bergson, Henri, Matière et mémorie, 1896, in Oeuvres, Paris, P.U.F., 1970 (I ed. 1959).
42 Mathieu, Vittorio, Bergson, il profondo e la sua espressione, 1971, Napoli, Guida Editori.
43 Il tema, in realtà assai centrale e controverso in Bion, è riassunto, p.es., in Neri, Claudio; Correale, Antonello; Fadda, Paola, Letture bioniane, Roma, Edizioni Borla, 1994, pp. 219-223.
44 Tale peraltro, per Bion, sarebbe la posizione propria del pensatore, inseguito da “pensieri che appartengono ad un sistema non umano, quello del campo O”. Bion, Wilfred R., Attenzione e interpretazione, Roma, Armando, 2002, tit. orig.: Attention and Interpretation. A Scientific Approach to Insight in Psycho-Analysis and Groups, Tavistock Pubblication, Londra, 1970, p. 141.
45 Cfr., p.es., Zapparoli,Giovanni; Adler Segre, Eliana, Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali, Milano, Feltrinelli, 1997.
46 Kant, Immanuel, Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1989, tit. orig., Kritik der Urteilskraft, 1790, pp. 103 sgg.
47 Schopenhauer, Arthur, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A., 1969-1991, tit. orig. Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig: F. A. Brockhaus, 1819, p. 44 e passim.

48 Erodoto, Storie, 440 A.C., (1,133, 3-4), Milano, Mondori, 2000.

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