Una teoria di molti anni fa
CALORE, FREDDEZZA E
“CRITERIO DELL’ADERENZA”:
UNA TEORIA
SULL’INTERPRETAZIONE MUSICALE
Fin dai tempi di Mendelssohn e di
Wagner la grande distinzione tra i vari tipi di interpreti è sempre
stata tra interpreti freddi e interpreti caldi.
Al di là di ogni possibile sfumatura,
verificata di volta in volta con maggiore o minore acume da questo o
quel critico musicale, la prima preoccupazione è inquadrare
l’interprete nell’una o nell’altra categoria: freddo o
romantico? Coinvolto o distaccato?
La difficoltà a riflettere in modo
sereno e allo stesso tempo smagato sulla validità di una simile
impostazione critica è accentuata dal fatto che pressoché tutti gli
interpreti, se interrogati sull’argomento, amano dare di sé
l’immagine dell’interprete quanto più caldo e romantico
possibile.
Il motivo di un simile atteggiamento
(che rischia tra l’altro di indurre chi voglia porsi in termini più
seri la questione della validità di un simile criterio di
valutazione a lasciar perdere, a demandare ad altri l’obiettivo di
uscire dai luoghi comuni al riguardo) risiede nel timore, da parte
dell’interprete, di apparire in qualche modo imparentato con
l’immagine di un musicista pedante, arido e privo di ispirazione,
incapace cioè di essere benefattore dell’umanità, inadatto a
essere chiamato “artista”.
Il problema è quindi duplice: se si
vuole far luce sulla questione occorre interrogarsi dapprima sui
motivi della fortuna di un simile cliché interpretativo, e
solo in seconda battuta cercare di fondare in modo critico (o,
eventualmente, rifiutare tout court) un simile modello.
I motivi della fortuna del criterio di
valutazione basato sull’antitesi freddo/romantico risiedono nella
vanità dell’artista, vanità che viene solleticata da definizioni
di sé in termini di “calore” ed “espressività”.
Perché “caldo” viene vissuto come
un complimento, al contrario di “freddo”? Forse il motivo risiede
nel fatto che la nostra è una cultura post-romantica, in cui la fine
del romanticismo (sotto l’aspetto letterario, ma anche come
“visione della vita”) ci suscita, più o meno consapevolmente, ad
ogni momento una nostalgia di quel romanticismo, e del ruolo
privilegiato e centrale che l’artista rivestiva in un mondo più
“sentimentale” di quello odierno.
Dietro a questo discorso c’è anche
il fatto storico, difficilmente contestabile, che la rivoluzione
artistica del Novecento ha fallito nei confronti del pubblico, e si è
risolta, in musica come nelle altre arti, in un predominio sterile e
virtuosistico della tecnica fine a sé stessa, da cui il pubblico si
è allontanato, rivolgendosi ad altri generi.
Chi assisterebbe oggi a un concerto di
musica contemporanea con lo stesso entusiasmo con cui un tempo si
salutava la “prima” di una nuova sinfonia di Beethoven?
Voltare le spalle al sentimento è
stato il grande errore della musica contemporanea, che, portata a
strumento di denuncia degli orrori del nostro secolo, non è mai
riuscita a liberarsi di questo ruolo in fondo ancillare e
malaugurante di “campana a morto”: chi l’ha detto che dopo la
seconda guerra mondiale (come invece sembrano credere tutti i
compositori di oggi, e gli artisti in generale) non si può più
essere romantici? E come non accorgersi che voltare le spalle al
Romanticismo determina lo scacco mortale per un’arte?
L’interprete invece continua a
fregiarsi del proprio romanticismo, ma lo fa spesso nel modo più
ingenuo e meno avvertito possibile, facendo scadere la complessità e
la ricchezza del problema interpretativo a livelli di una banalità
desolante.
Il punto focale della questione
risiede invece nell’individuo: l’individuo-interprete
(strumentista o direttore d’orchestra) e l’individuo in generale,
in quanto dotato di un temperamento piuttosto che di un altro.
E’ nell’ereditarietà del
carattere personale, nell’influenza familiare, sociale e culturale,
nell’accumulo delle proprie vicende private e professionali che va
ravvisata la congerie di fattori in grado di determinare
l’interprete, il suo essere freddo o caldo.
Questa impostazione del problema
impone una serie di considerazioni sul rapporto tra interprete e
opera.
Per quanto riguarda il rapporto tra
interprete e opera, il risultato (eccellente o meno)
dell’interpretazione è (per fortuna) una variabile in gran parte
indipendente dalla freddezza o calore personali, e obbedisce
piuttosto a quello che chiamerei il “criterio dell’aderenza”.
In sintesi, e venendo al dunque, la
stessa opera può essere eseguita in modo radicalmente diverso, ma
ugualmente eccellente da due interpreti (per semplificare: un
interprete freddo “a tutto tondo” e uno “caldo a tutto tondo”)
che la conoscano e la amino (ciascuno a modo suo) veramente tanto.
Questo significa che, per esempio, una
sinfonia di Beethoven rivelerà tutto il suo furore dionisiaco se
diretta da Bernstein, ed invece tutto il suo equilibrio classico se
diretta da Muti, ma comunque, a parità di reale interesse e studio
da parte del direttore, entrambe le esecuzioni saranno convincenti.
L’importante è che l’interprete
riesca a trovare nell’opera che esegue un sufficiente numero di
elementi congeniali alla propria indole, e, come è noto, più un
compositore è grande, più è munifico, quale che sia l’angolo da
cui viene illuminato.
Il criterio dell’aderenza può
essere dunque definito come quel criterio che prevede (a parità di
preparazione tecnico-culturale) tanta maggiore convinzione-bellezza
di interpretazione da parte di un interprete quanto maggiori sono i
punti di contatto tra l’indole del compositore e quella
dell’interprete stesso.
Si hanno molti esempi di interpreti
congeniali a un compositore: Gould-Bach, Michelangeli-Debussy,
Bernstein-Mahler, Muti-Mozart, Toscanini-Verdi, Prêtre-Berlioz,
Backhaus-Beethoven, Knappertsbusch-Wagner... E l’elenco potrebbe
continuare molto a lungo.
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