L'ouverture Leonore III di Beethoven nell'edizione dal vivo diretta da Leonard Bernstein nel 1978

L’ouverture di Beethoven Leonore II nell’edizione live del ’78 diretta da Leonard Bernstein. L’incredibile energia, la gioia, l’ottimismo, la positività di Bernstein e la sua maschera di stanchezza, come un’ombra sul volto. Che cosa poteva mai dare di più, se non interamente sé stesso, a questa musica, a tutte le musiche eseguite? Oggi la tecnologia continuamente trasformantesi e apparentemente effimera e puramente commerciale, consente di rendere eterni tutti i documenti registrati in un formato sempre migliore. Questo dà un significato concreto al lascito solenne che un tempo era caratteristica distintiva, forse, della sola scultura. Ancora non molti anni fa alcuni intellettuali si vantavano di aver intuito, unici tra tutti, l’estrema caducità degli scritti, causa la deperibilità della carta. Analoga debolezza venne attribuita ai primi supporti informatici per i documenti, ma il progresso dei supporti, e soprattutto il concetto di sicurezza inteso come copia periodica e continua ha reso i documenti pressoché immortali: una ragione in più per crearne di degni.
Nell’ouverture Leonore III, i due stacchi finali dei legni, intervallati dalla fanfara militare, presentata in lontananza per due volte, non sono solo un esempio dei numerosi excursus beethoveniani, o delle idee tematiche diverse tra loro e strettamente intrecciate nelle maglie della struttura. Sono il condensato poetico, la sinossi e il codice di un mondo che esprime un’ineffabile dolcezza proteggendone la purezza all’interno di una incomparabile corazza formale. E’ come un compendio della genialità beethoveniana che esprime un universo scomponendolo nei suoi elementi fondamentali, quasi mostrandoci come dagli atomi si giunga alla creazione. Nonostante alcune scelte opinabili di fraseggio (la frase di Bernstein è sempre pari e quadrata tra le varie legature, e l’inizio della frase coincide sempre con il battere e la fine della frase sempre con il levare), mirabile è l’estaticità espressa nel quadro di armoniosa dolcezza e serenità di un’esecuzione sempre memorabilmente gioiosa. La semplificazione formale del fraseggio operata da Bernstein (si noti anche il fraseggio quadrato del noto II movimento della III sinfonia di Brahms) gli permette di concentrare le sue scelte interpretative sul timbro e sulle componenti agogiche e dinamiche di tensione – esplosione – rilassamento, rese dolci, giovani e non teutoniche (diremmo americane, nel senso della fiducia di base nell’happy end) dalla gioia di fondo. Nessuna minaccia prebellica viene presentita, nessun terrore senza nome, nessun militarismo ante litteram, nessun gorgo della coscienza e dell’inconscio. Si confrontino al riguardo, invece, le pur ben memorabili edizioni di Furtwangler in cui si adombrano già le successive tragiche fratture dell’umanesimo del ‘900.


Dopo 8 minuti circa dal suo inizio, l’ouverture Leonore III giunge all’apice, l’esplosione del tema principale, con un crescendo che è veramente una delle pagine di tensione dinamica più belle che Beethoven abbia mai scritto. Notare l’andamento vertiginoso scelto da Bernstein nell’edizione live del ’78, davvero notevole, anche se non sfigura affatto l’edizione in disco dell’’82 (peraltro, live anch’essa). Quell’edizione del ’78 ha un fascino tutto particolare perché per tutta la durata dell’opera, e in particolar modo in momenti di capitale importanza come appunto le 2 ouvertures, Bernstein appare in stato di grazia, e meraviglia la tenuta psicologica, interpretativa e financo fisica. Tanto più difficile mantenere uno standard qualitativo così elevato per per più di due ore, da parte di un direttore che continuamente sottopone sé stesso, l’orchestra e gli ascoltatori allo stress formidabile della tensione, accumulo, esplosione, estasi, rilassamento, nuova tensione, accumulo, ecc... Eppure è innegabile che il risultato sia memorabile. Il DVD rende giustizia di quella che altrimenti avrebbe potuto sembrare, sfumata nel ricordo o riportata agli altri che non c’erano, un’esagerazione, una sorta di ipnosi collettiva, l’impressione erronea ed effimera di aver assistito a qualcosa di storico, quando invece magari potrebbe trattarsi di un normale concerto. Così non è: l’immortalità è raggiunta, e l’immortalità della bellezza della musica si congiunge con l’istante immortale, quell’istante di faustiana bellezza (“fermati attimo, sei bello”, cioè quell’esecuzione di quella volta lì) con cui si è raggiunto il nunc stans.

Ancora su Leonore III: il cupo assolo di flauto che precede l’esposizione del tema appartiene alla dimensione del Beethoven notturno. Molto di questo Beethoven si ha nelle sonate per pianoforte e nei movimenti lenti dei concerti. C’è un’emozione autentica nel sentire questi passaggi perché nel compositore più legato all’esprit de sistème, in cui tutto deve trovare una ragion d’essere, sussistono tali abbandoni della ragione, in favore di quello che – con orrendo giuoco di parole – potremmo chiamare un accorato scoramento. V’è di più che del notturno, in tali passaggi, in senso romantico (storicamente intendendo tale termine) e meno che mai chopiniano. Non è un momento (quello della notte, fenomenicamente situato nell’ambito dei vari, numerosi momenti della vita, diversi tra loro e proprii tutti di un soggetto), ma una dimensione dell’essere, un gorgo ontologico: un grumo, un dilemma esistenziale, un “essere o non essere” che sempre si chiede, indipendentemente da quale momento della vita sia quello in cui si chiede. Si dirà, magari banalmente sul versante biografico, che tali interrogativi si saranno agitati in Beethoven per la constatazione della solitudine umana, suscitata dalla solitudine della sordità. Può darsi, fatto sta che non interessa attraverso quali dolori (o gioie) un compositore sia giunto a una visione profonda dell’esistenza. Ciò che rende memorabile questa visione è la lotta per un senso di perfezione, di giustizia all’interno di un sistema, nel quale nulla può esservi di gratuito e nel quale la forma è frutto di un profondissimo travaglio: “per aspera ad astra”, come amava sostenere Beethoven stesso.

Finale: ancòra su Leonore III (il finale). Dalla fanfara dei corni fino alla fine (coda) è un climax ascendente costituito da un crescendo non solo dinamico, e nemmeno solamente di tensione retorica, ma esaltazione gioiosa, sigillata dalle sincopi prima e dai contrattempi poi fino al rullo finale. Io francamente inscriverei questo finale nel novero di quelli eccezionali: una top ten in cui trovano spazio il finale della V di Shostakovich (I e ultimo movimento), di alcune sinfonie di Ciaikovsky e poche altre cose a livelli così alti. E’ incredibile, ed è necessario ancora una volta sottolinearlo, come Bernstein voglia e riesca, si cimenti nell’impresa pazzesca di seguire col gesto le sincopi, i contrattempi e gli attacchi di pressoché tutti i gruppi anche quando il tema si sdoppia e, di più, si divide in tre. Chiunque altro si sarebbe limitato prudentemente a battere il tempo, lasciando l’orchestra fare da sé; lui invece ci si avventura e ne esce indenne, anzi alla grande e senza sostanziali sbavature (ed. live 1978), meritando francamente le ovazioni del pubblico che lo obbligano a tre ringraziamenti, tanto da innervosirlo perché gli premeva di ripartire per il finale dell’opera (memorabile a tal riguardo lo sguardo premuroso e imbarazzato del primo violino di allora, indimenticato protagonista anche di molte delle esecuzioni del ciclo “Bernstein dirige Beethoven”).


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